perché scrivo, scrittura
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Scrivere è avvicinarsi al recinto entro cui utilizzare le parole

di Enrico Macioci

Scrivo per scoprire chi sono. È sempre stato così, ma solo adesso inizio a rendermene conto. L’io è un mistero, e la scrittura uno degli strumenti che meglio riescono a sondarlo; perciò è insidiosa. Ho sempre avvertito un pericolo nell’atto di scrivere, un rischio quasi colpevole; ed ho infine capito che il rischio è di trovare me stesso. Suppongo valga per parecchi scrittori, ma siccome pochi fra noi sono disposti ad accettare ciò che potrebbero trovare se cercassero seriamente, la tentazione è prendere tempo.

Scrivere mi sembra uno dei modi più ingegnosi e originali per prendere tempo, e tuttavia non porta automaticamente a conoscersi; può anzi sortire l’effetto opposto. Parecchia narrativa è costruita e inautentica. Questa inautenticità può mascherarsi da cerebralismo o da leggerezza, ma il suono che produce è un fastidioso ronzio fasullo.
Si scrive a diversi livelli di “pressione interiore”, cioè di urgenza o necessità. Un autore attraversa varie fasi nel corso della vita. Più è presente a sé stesso, più ciò che scrive si avvicinerà alla sua verità. E se un autore trova la sua verità? Be’, immagino possa gettare la spugna.

Mi sovviene Rimbaud. Non esiste poeta che tramite la parola si sia strappato di dosso le maschere, le finzioni, le ipocrisie e gli autoinganni con la ferocia del ragazzo francese. Nessuno sconto. Scavare con le unghie sanguinanti il fondo del fondo del fondo. Durante la stesura della Stagione all’inferno urlava, imprecava, piangeva. L’intera sua opera incarna un esperimento; non è destinata alla pubblicazione ma a cambiare la vita. Rimbaud non vuole una mente più colta, vuole un’altra mente. Con gli Ultimi versi, la Saison e le Illuminazioni la ottiene, sganciandosi dalla realtà fittizia dell’ego e sporgendosi verso l’assoluto; si sente come “il moscerino inebriato al pisciatoio della locanda, innamorato della borraggine, e che un raggio dissolve.”

Dopo il dissolvimento, scrivere non si può più. C’è un recinto entro cui utilizzare le parole; Rimbaud lo ha scavalcato e, a 19 anni, ha giustamente taciuto. Parlo a lungo di Rimbaud perché, con la sua eccezione, ci mostra a mio avviso una plausibile regola. Scriviamo per avvicinarci a quel recinto. Scriviamo per spingerci un poco oltre, sempre un poco oltre (e al contempo dentro) l’esistenza ordinaria. Scriviamo per indagare il mistero che ci assedia e ci abita, ma poiché di rado tocchiamo il ruvido legno del recinto proseguiamo a scrivere. Un libro, due, cinque, dieci, venti. Proviamo a ritagliarci uno spazio e ad ampliare lo spazio in cui ci muoviamo. È un processo sia interno sia esterno: ri-definire la realtà che mi circonda per comprendere meglio la realtà che mi abita, e viceversa.

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foto di laura patrick

Su un piano più tecnico, fin da ragazzino ho scritto cose eterogenee. Ho una buona capacità mimetica ma l’ho sempre considerata un difetto, il sintomo della mancanza di una mia voce. Oggi capisco che la mia voce è nella trasformazione, e che la strada è già la mèta perché dopo la mèta non c’è più strada. Ho pubblicato finora una raccolta di racconti dallo stile secco ed economo, un romanzo-fiume dallo stile debordante, un memoir lirico e un horror metafisico. Nel mio pc giace un buon numero di romanzi inediti; ciascuno di essi segna una fase ben distinta del viaggio. Poiché non sono Rimbaud, poiché non ho il suo genio né il suo ardimento – la sua capacità di lasciarsi andare verso ciò che chiama “ignoto” – ho bisogno di più strada da percorrere.

Ci sono del resto scrittori che nascono già fatti, per così dire, e che pure continuano a camminare. Antonio Moresco esordisce tardi – a 46 anni; ma ogni sua opera ha la medesima voce e la medesima forma, benché muti la lunghezza. Nelle mille pagine de Gli increati o nelle cento de La lucina, Moresco è sempre ostinatamente sé stesso, ed è frattale: una parte ricalca il tutto. Basta leggere due righe e si capisce subito che siamo innanzi a Moresco. Anche Stephen King fu subito King, sin dall’esordio fulminante di Carrie. Anche Coetzee fu subito Coetzee, e Simenon fu subito Simenon; eccetera eccetera. Poi esaminiamo Melville: Typee, Moby Dick, Pierre, L’uomo di fiducia, Benito Cereno, Bartleby lo scrivano, Billy Budd. È sempre lui, ma non è sempre lo stesso lui. Richard Ford muta in misura abbastanza sconcertante passando dalla saga sociologica di Frank Bascombe all’intimismo di Incendi o di Rock Springs. Dostoevskij parte dalla fatua malinconia delle Notti bianche e termina con la lava dei Fratelli Karamazov – un altro mondo, proprio nel senso della direzione spirituale. Invece il Tolstoj dei Cosacchi non dista poi molto dal Tolstoj del tardo capolavoro Chadzi Murat. Il Joyce dei Dubliners e quello del Finnegans Wake sono due estranei, Proust è già tutto nel celebre incipit della Recherce.

Con ciò non sostengo che Tolstoj e Proust siano ripetitivi, o che il Dostoevskij della prima fase e il Joyce giovanile “immaturi”; si tratta in ogni caso di grandi scrittori. Affermo piuttosto (o azzardo) che per alcuni scoprirsi o compiersi risulta più rapido e naturale che per altri. Mi si potrebbe dunque chiedere: perché essi non tacciono come tacque Rimbaud? Posto che ci aggiriamo in un luogo oscuro e privo di regole fisse (certuni tacciono: Rulfo, Henry Roth, in un certo senso Salinger), le risposte “oggettive” che mi vengono in mente sono due: a) perché solo un ragazzo possiede la radicalità necessaria a un taglio così drastico e b) perché la forma/romanzo è meno drammatica e profonda della forma/poesia.

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foto di annie spratt

Io, che nel mio piccolo ho praticato entrambe le forme, posso testimoniarlo sulla mia pelle. La poesia è una folgorazione, il romanzo una costruzione; la poesia è la freccia che trafigge, il romanzo l’arco che si carica e si tende per scoccare una freccia che colpirà chissà dove e chissà chi; la poesia estrae lo spirito dalla materia, il romanzo accumula la materia intorno allo spirito. Chiamo a soccorso, in proposito, un testimone ben più importante di me: William Faulkner. Il premio Nobel americano, che esordì in qualità di (mediocre) poeta, sosteneva: chi non sa scrivere poesie si dà al racconto e chi non sa scrivere racconti si dà al romanzo. Forse non sbagliava.

Il romanzo è di gran lunga il genere più faticoso, ma appanna il nucleo da cui prende spunto, lo opacizza avvolgendolo in una serie potenzialmente infinita di strati, cosicché la luce pulsa meno forte e la si può persino fissare, almeno un po’; il romanzo si dirama, devia, esita, zigzaga, negozia. Il romanziere proroga (o inganna?) ciò che il poeta rivela. Se la poesia è un fuoco, il romanzo è la radura che sorge attorno al fuoco; al romanziere la scelta di quanto, e quando, e in che maniera avvicinarsi alle fiamme. È possibile che io abbia abbandonato la poesia in favore della prosa perché la poesia andava troppo veloce, e non tutti siamo disposti a tollerare la velocità; è possibile d’altronde che vi stia propinando una marea di stupidaggini. A mia discolpa posso solo assicurarvi che queste stupidaggini le penso sul serio.

foto di copertina di fabien bazanegue

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