lettura, non prenderla come una critica
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Non prenderla come una critica – Amatka di Karin Tidbeck

Amatka è il primo romanzo della scrittrice svedese Karin Tidbeck. Narra la storia di alcune colonie non terrestri abitate dagli uomini dopo che il vecchio mondo è divenuto, per qualche motivo, inospitale. Se volessimo capire esattamente a che genere appartiene Amatka non direi subito che si tratta di un romanzo distopico. Se tirassimo una linea che parte dai fratelli Dardenne e arriva a Superman, Amatka è un passo avanti rispetto alla distopia, e un po’ indietro rispetto alla fantascienza. Non è esattamente una storia di speculative fiction, perché mancano alcune premesse iniziali, ma se la facciamo fluttuare tra questi tre poli potremmo trovarle la giusta collocazione. Nel dubbio, l’autrice stessa sul suo profilo Patreon si definisce creator of weird fiction. Quindi forse sarà il caso di definire la sua narrativa così.

Ma ovunque volessimo collocare Amatka rispetto alle categorizzazioni di genere letterario io lo inserirei anche nella categoria dei libri sulla scrittura. Amatka – fantascienza o no – è un libro molto interessante sull’importanza delle parole e del modo in cui le usiamo per stare al mondo.

Ma cosa c’entra questo libro con la scrittura? Se non che, è il frutto del lavoro di una scrittrice di professione, e che è stato scritto – naturalmente – con le parole? Forse la protagonista è una scrittrice? No. Parla di scrittori? No. Semplicemente nel libro le cose scompaiono, si disintegrano e diventano poltiglia se non le si nomina col proprio nome continuamente e se non si scrive sopra di esse.

“Valigia” sussurrò Vanja per mantenerla nella sua forma ancora per un po’. “Valigia, valigia”.

palazzo

La storia

Vanja è una giovane donna che viene mandata dalla colonia principale di questo nuovo mondo – chiamata Essre – ad un’altra colonia – Amatka, appunto – ufficialmente per fare ricerche sui prodotti per l’igiene personale. Nella nuova colonia, Vanja viene ospitata in una casa in cui vivono più persone, Nina, Ivar e Ulla.

Ogni cosa era contrassegnata da lettere ampie e rassicuranti: LAVANDINO, DISPENSA, TAVOLO.

In questa colonia fa sempre molto freddo, si mangiano funghi e tuberi coltivati nelle serre e i bambini vivono tutti insieme e lontani dai genitori in un edificio dedicato solo a loro. I bambini fanno visita ai genitori una volta alla settimana, ufficialmente per non affezionarsi troppo e così servire meglio le colonie. La struttura della colonia è circolare, gli edifici sono collegati tutti a un edificio centrale, l’ufficio della comune, che è diverso dagli altri:

Come tutti gli edifici centrali di tutte le colonie, era fatto di cemento, quel materiale raro che i pionieri avevano portato con sé. E come tutte le altre cose del vecchio mondo, non aveva bisogno di essere contrassegnato per mantenere la sua forma. Era solido, confortante.

Quindi questa colonia è lontana dal ‘vecchio mondo’, ma nessuno sa esattamente dove sia. E tutti gli oggetti, per mantenere la loro forma, devono essere continuamente nominati e contrassegnati, ovvero ribaditi all’esistenza con le parole. Senza le parole le cose si dissolvono, tranne quelle che vengono dal vecchio mondo.

Ci si è spostati da un mondo dove le cose e le parole che servono per nominarle non sono legate da un vincolo assoluto (esistono i sinonimi, ad esempio, che invece sono proibiti ad Amatka), a un mondo in cui invece le parole fanno le cose. Potrebbe essere meraviglioso, il massimo della creatività. Pensate a un mondo dove, a partire da una materia grezza, si possano creare cose che non ci sono solo con le parole: non sarebbe stupendo?

Eppure, in questo nuovo mondo, il legame tra parola e cosa viene rigidamente controllato e regolamentato.

Non era possibile nominare un libro se non con LIBRO, né iniziare il titolo con qualcosa che non fosse: “Storia…”, “Biografia”. Nominare un oggetto con un altro nome, anche se per errore, era proibito.

Non sono accettati gli errori, quindi figuriamoci la volontà di infrangere le regole. Chi si ribella, chi fa di testa sua, viene punito con quella che può essere la pena più severa di tutte in un mondo in cui il linguaggio ha una tale importanza creativa: i ribelli vengono infatti sottoposti a una procedura che li rende afasici, quindi incapaci di creare il mondo con il linguaggio (o di disordinarlo, secondo le regole vigenti nelle colonie).

Non esisteva la pena di morte nelle colonie. Tuttavia ai dissidenti doveva essere impedito di mettere in pericolo la comunità. La procedura che distruggeva il centro del linguaggio era una soluzione elegante.

Ai bambini viene insegnato a nominare e contrassegnare attraverso delle filastrocche: quella della marcatura, ad esempio. A Vanja era accaduto un incidente quando era bambina: mentre nominava una matita, le parole le si accavallarono in bocca, e ne uscì una parola diversa.

Matita, matita, matita, matita, matita, matita, aveva cantilenato, toccando le matite a una a una, finché il torrente di parole non si invertì, facendo scaturire un suono simile a tita-ma tita-ma tita-ma tita-ma, e la fila di matite aveva sussultato e si era quasi trasformata in qualcos’altro, e comprese che è così che accade, e tutto il suo petto fu attraversato da un fremito.

Questo primo incidente resta a Vanja nella memoria e le sarà utile ricordarlo quando deciderà che lo stato delle cose non la soddisfa. Un mondo regolamentato in questo modo infatti è per lei insopportabile.

Ma perché succede questo? Perché tutte queste regole? Perché la materia non risponde alle parole come le persone vorrebbero.

albero

Il ruolo della donna e dei bambini nella creazione del mondo

“In principio era il verbo, il verbo era presso Dio, e il verbo era Dio.” Queste le prime frasi del Vangelo secondo Giovanni in cui è riassunto tutto il mito fondativo della parola. Credenti o meno, sappiamo anche dai principi della relatività linguistica, che le parole creano il mondo, ovvero il modo in ci rapportiamo ad esso e che lingue diverse permettono di rapportarsi al mondo in modi diversi. Ma in Amatka, se il verbo è Dio, vuol dire che Dio è femmina. Vanja decide – e non solo per negligenza – di distruggere le cose non contrassegnandole e a un certo punto, nel momento in cui le serve una chiave per aprire una porta e trovare documenti che possono farle capire l’origine delle colonie, è lei stessa a creare un oggetto che le serve.

Chiave chiave, chiave chiave, chiave, sussurrò. Si contrasse nella sua mano. Qualcosa dentro vanja le oppose resistenza. Chiamare una cosa con un altro nome le dava ancora un vago, indeterminato orrore che le faceva bloccare i pensieri. Strinse i denti e chiuse gli occhi: Chiave, chiave, chiave, chiave. Questa è una chiave. Ho una chiave nella mia mano. Quando aprì di nuovo gli occhi, teneva in mano un bastoncino che si diramava a una estremità. Chiamarla chiave era una forzatura, ma non le aveva dato ancora una serratura da aprire.

Anche per essere Dio ci vuole un po’ di pratica e dopo alcuni tentativi Vanja riesce a creare un oggetto che le permette di aprire quella porta. Dietro la porta ci sono i documenti dentro i quali Vanja trova le prove di quello che temeva. Nel faldone nominato “Manifestazioni” viene descritta minuziosamente la ragione per la quale il mondo delle colonie è così rigidamente regolamentato e non esiste libertà. E in questa motivazioni rientra un’altra figura di solito debole nelle narrazioni, non solo quelle fantascientifiche: i bambini.

Un gruppo di bambini aveva giocato a giochi proibiti in un angolo della Casa dei Bambini Quattro. Uno di loro aveva iniziato a fingere che una cosa fosse qualcos’altro. All’improvviso, ogni altra cosa nella stanza si era dissolta.

Ma il problema non era solo distruggere, il problema vero e proprio dei bambini era piuttosto la loro capacità di creare.

Secondo l’informatore, gli adulti scoprirono cosa stava accadendo quando i bambini, che erano stati lasciati senza sorveglianza, avevano estratto dall’acqua una grande quantità di “pesci”. L’informatore dichiara che le cose sparse tutt’intorno ai bambini potevano superficialmente avere le sembianza di pesci, ma la dissezione rivelò che non avevano “né viscere né spina dorsale, solo una sorta di poltiglia all’interno”. Si scoprì che i bambini avevano organizzato una gara. I bambini a turno descrivevano il pesce che avevano intenzione di catturare, e venivano assegnati punti in base a quanto il pesce riflettesse la descrizione. Venne immediatamente presa la decisione di confiscare tutti i libri che contenessero immagini e descrizioni di fauna selvatica marina.

Donne e bambini sono i veri portatori della spinta rivoluzionaria. I bambini, abbiamo detto, per caso. Gli adulti invece no. Eppure non sarà Vanja il vero motore rivoluzionario per Amatka, ma altre due donne: la poetessa Anna di Berols e la dottoressa Ulla.

Diversamente da quanto accade in un altro racconto in cui le donne, i bambini, e il linguaggio sono protagonisti della narrazione, ovvero in Storia della tua vita di Ted Chiang, (da cui nel 2016 è stato tratto il film Arrival di Denis Villeneuve), la protagonista non è il motore decisivo della scoperta, né quella che ne usufruisce. Tra l’altro il dono, in Amatka, non è nemmeno così di valore.

luci

Se distruggiamo questo mondo non è detto che l’altro sia meglio

Le premesse del racconto sembrano sconvolgenti, in modo positivo. Ma come sappiamo è un’attimo dall’utopia alla distopia. Gli umani, per motivi ignoti, vivono in una colonia in cui gli oggetti possono diventare quello che si vuole solo nominandoli. Peccato che la materia non voglia. Ovvero: la materia che viene plasmata non risponde esattamente alle parole nel modo in cui gli umani vorrebbero: un pesce non è veramente un pesce, se dentro è vuoto, ne ha solo l’aspetto, ma la sostanza continua ad essere gelatinosa e respingente, come tutto nel ‘nuovo mondo’.

Questo racconto, questa favola, potrebbe contenere tanti significati. Quello sul potere della creazione attraverso l’uso delle parole, come si è detto all’inizio. Ma anche un certo messaggio allarmante su quello che potrebbe accadere in un futuro lontano, ma forse non troppo, se dovessimo lasciare la terra per colonizzare altri mondi. Mentre la fantascienza ci mette in guardia rispetto all’inospitalità di certi luoghi a causa della mancanza di quelle che solitamente vengono considerate gli elementi basilari per la sopravvivenza umana (aria, acqua, cibo), Amatka ci mette in guardia rispetto ad un altro possibile pericolo: quello per il quale le parole non sono più quello che erano prima. Se distruggiamo il nostro mondo (linguistico? reale?), ovvero se non usciamo bene il nostro potere, questo potrebbe ritorcersi contro di noi, non potremo più mettere in atto la nostra creatività liberamente, perché un altro mondo potrebbe non essere così “solido e confortante” come quello vecchio, ma sensibile e instabile e le nostre parole scritte, le nostre parole pronunciate e addirittura i nostri pensieri potrebbero avere un effetto distruttivo su di esso.

Si ribadisce quindi, in un modo del tutto originale – ed è questo che secondo me rende davvero questo libro resistente a qualunque categorizzazione – quale importanza abbiano le parole nei confronti del modo in cui le portiamo nel mondo. Il paradosso sembra essere nell’idea che gli uomini possano usare le parole in modo libero e creativo proprio perché il mondo ‘reale’ gli resiste. È giusto quindi che il nostro potere creativo sia confinato nello spazio immenso della rappresentazione, e che successivamente questa influisca sulla realtà. Nel momento in cui l’uomo ha la possibilità di creare direttamente il mondo oggettivo, reale, fisico, ecco che cominciano i guai. Amatka ci racconta che Dio è femmina, oppure è un bambino, ma anche che non può essere umano. Non ne siamo ancora capaci.

1 commento

  1. Enrico says

    Ho trovato Amatka carino, ma la scrittura di Tidbeck è molto fredda. Trovo che fosse superiore il suo libro di racconti, Jagannath, dove ce n’erano alcuni meravigliosi. Li ho letti in inglese però, non conosco le traduzioni in italiano.

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  2. Valentina says

    Ciao Enrico, sono d’accordo: la scrittura della Tidbeck è molto controllata. Di Amatka ho letto solo un’anteprima in inglese, ma poi tutto il testo in italiano. Quello che mi ha stupito, al di là dello stile che, appunto, ho potuto valutare solo nella traduzione, è l’uso che fa del meccanismo della creazione attraverso la parola come generatore di disastri. È una distopia innovativa: si pensa alla parola sempre come mezzo creativo positivo per eccellenza. Mi sembrava un buon punto da cui partire per una riflessione su come usiamo il linguaggio. 🙂

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