La verità, vi prego – “Alice piena di grazia”

Ecco il racconto “Alice piena di grazia” di Grazia Brambilla che ha partecipato alla rubrica la verità, vi prego.
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Alice piena di grazia

Quante volte sono morta? Una, due, cinque? Quante volte dovrò morire, ancora? Dove andranno tutti i miei pensieri, i ricordi, e le mie mani bianche che tremano stringendo quelle altrui? Tutto perso. Per sempre. Alice camminava, rasentando i muri delle case del paese dove abitava dalla nascita; quattromila anime, circa. Alcune pie, altre dannate e altre perse, come la sua. Camminava e pensava senza provare alcun interesse per ciò che la circondava. Non le interessava nemmeno il nulla ed il nulla non era interessato a lei. Alice, qualche anno di felicità l’aveva avuto, ma all’improvviso, le cose non le andarono più bene. Da un mondo colorato, al buio più assoluto. In realtà, non era accaduto nulla di così feroce da lasciarla stesa a terra, senza respiro, ma non riusciva più ad emergere dalle sabbie mobili di dolore che l’avvolgevano. Stava sprofondando in una lucida follia. Camminava, Alice e la borsa a tracolla che le sbatteva contro il fianco, dava ritmo ai suoi pensieri e le aumentava l’abrasione color uva. Il suo incedere, speditissimo, venne disturbato da due giovani che facevano jogging. Rallentò.
Che senso ha correre? Non sopporto questi finti atleti che non smettono mai. Né la pioggia, né il freddo, né nulla d’altro riesce a fermare le loro gambe, che continuano imperterrite a macinare chilometri, alla ricerca di un benessere che non salverà la vita. Tutti uguali, usciti dalla fabbrica Decathlon, sorridenti e marchiati a fuoco. Un esercito di uomini e donne con lo stesso sguardo, annebbiato dal sudore.
Qualche giorno prima, Alice, vicina ad una delle sue fasi di malinconia distruttiva, si er incontrata con la sua amica, Raffy; una donna felice, fisico perfetto, insegnante di educazione fisica, pilates, zumba e altre diavolerie simili. Davanti ad un piatto vegetariano, Raffy cercava di spiegarle come l’attività fisica costante, potesse far bene a mente e a corpo, allontanandoti dalle pene.
“Una specie di trance, Alice. Ecco cosa accade in realtà, quando corri. È un processo che… bla, bla, bla.” Raffaella, con la forchetta a mezz’aria dalla quale penzolava una ragnatela di formaggio, parlava con passione, mentre Alice stava scalando la sua personale montagna di pattume, raccolto vivendo a stretto contatto con esseri umani di ogni specie. Un monte fatto di bestemmie, bugie, inganni, sorrisi marci e fiori di plastica, che la stringeva in una morsa letale. Le faceva mancare il respiro, strisciare, ma da qualche parte trovava sempre una scappatoia per continuare la sua arrampicata. La vetta, se esisteva, era lontana, e le ombre che lei stessa produceva, le appesantivano la mente. Aveva bisogno di un rifugio e la parola trance, pronunciata dall’amica, le aveva trasmesso curiosità. Una fiammella le aveva illuminato gli occhi. A nemmeno un chilometro di distanza dal suo appartamento, c’era un immenso parco. Zio Alf le aveva lasciato i suoi 100 mq dato che si era trasferito in Australia, facendo perdere ogni traccia. Un tipo strano, affermava la gente, ma la gente, per quest’uomo che a settant’anni, ancora diceva di parlare con gli elfi, non faceva testo. Per la nipote, invece, le parole e i comportamenti dello zio erano state un arcobaleno. Con la casa, ereditò anche gli elfi che vi vivevano, con la promessa di prendersene cura e di parlare spesso loro, perché soffrivano di solitudine. Non doveva farsi ingannare dalla loro immobilità. La plastica, il gesso, il legno e la porcellana, che li racchiudevano erano solo un bozzolo, una protezione da chi non credeva nel mondo magico. Alice ci credeva, ma non era mai stata là. Non aveva mai trovato il modo per andarci, anche se sapeva dell’esistenza di una porta per passare oltre.
Con l’idea di cominciare a correre, iniziò a sistemare le creature magiche, spolverandole con un panno, lasciato in eredità da Alf. Le conosceva tutte, una per una. Alcune erano apparse in quella casa, prima della sua nascita, altre dopo, ma di certo, da quando lo zio se ne andò, non ne arrivarono altre. La facevano sorridere e, solo per questo, bisognava considerarle portatrici di magia. Il suo elfo preferito, Salìas, aveva orecchie a punta ed occhi scuri: brillavano e fissandoli era certa si ingrandissero, fino a diventare più ampi della casa stessa. La inghiottivano. C’era poi, Elgorìan, l’elfa con l’arco, Matuer, seduto su di una roccia; Dareyk, dalle abbondanti forme; Utycrt, che leggeva un libro di incantesimi; Mysjyug, il più giovane del gruppo; Leilah, la cuoca; e poi ancora Kiytgh, Fioìsl, Amawes, Frostes, Loardt, Juansys, Iutreui, Pwas, e altri ancora. Li amava come solo una volta aveva amato un essere umano, con i capelli color del petrolio. Li accudiva e il legame diventava sempre più forte. Erano elfi e possedevano dei poteri, pensava Alice. Zio Alf diceva di pensare che qualcosa potesse avvenire. A lui era successo. Era stato là, una volta. «Non funziona per tutti allo stesso modo – ripeteva ad Alice -, pochi sono meritevoli di tornarci.» Lei lo ascoltava sentendo vibrare le viscere. Ci credeva allora, meno di quanto ci credesse ora. Era cresciuta la sua fede e anche la sua età. Probabilmente, come lo zio, a settant’anni l’avrebbero presa per pazza. Spolverò Pwas, e sbatté il panno, riponendolo dove stava da anni mentre l’idea della corsa le tornò alla mente. Doveva provarci. Mal che andasse, avrebbe perso qualche caloria e si sarebbe goduta il parco. Si ricordava il profumo dell’erba, il fruscio delle fronde ed il sussurrare del vento. Aveva sempre pensato di avere bisogno della natura per stare bene, ma quando il nulla iniziava a baciarla, a stringerla forte come un’amante focoso, il resto evaporava. Il vortice che stava per inghiottire Alice era senza pietà. Si fermò davanti all’armadio, pose le mani sui fianchi, ed avvertì il dolore dell’abrasione che non aveva più curato. Non aveva la minima idea di dove fosse la sua tuta rossa. Un appendino colmo e ricurvo le ricordò le spalle di una vecchia, costrette a sopportare una gerla traboccante. Non le piaceva la vecchiaia, ma contro i vecchi non aveva nulla. Vecchiaia e morte, parenti strette, pensò. Indossò i pantaloni, una maglietta e la casacca ed un paio di Adidas. Si sentiva ridicola, ma questo le capitava sempre, in qualsiasi luogo. Non desiderava quasi mai essere dove era. Sarebbe stata a casa tutta la vita. Si sentiva come gli elfi, lì. Protetta da una specie di sarcofago di 100 mq. Fuori, il mondo non faceva altro che torturarla. Eppure, il suo peggior nemico era lei stessa e lo sapeva. Il male nasceva dentro di lei, con la malinconia, i buchi nell’anima, incolmabili e profondi tanto quanto quelli nello spazio. Soffriva. Soffriva. Soffriva. Alice era dolore e le tempeste che le si scatenavano dentro, la gettavano sempre più in balia di deserti assolati e micidiali, che le seccavano la gola e si nutrivano dei suoi organi vitali.
Era pronta, doveva solo aprire la porta. Si sistemò la coda di cavallo ed uscì. Iniziò a camminare, per scaldare i muscoli e, si rese ben presto conto che non stava rasentando i muri come faceva di solito. Sembrava un segnale positivo, si disse. Ci mise una decina di minuti, per arrivare all’entrata del parco e con i polpacci che già bruciavano iniziò a correre. La natura era splendida, a settembre. I colori cominciavano ad indebolirsi e a creare sfumature irriproducibili. Gli occhi di Alice, dapprima bassi, cominciavano a muoversi curiosi e la mente si rilassava, accarezzando la natura benevola. Correva ad un ritmo costante, respirando con bocca e naso e, nonostante si sentisse i polmoni scoppiare, non si fermò. Doveva cercare di non far caso al proprio corpo e distrarsi dal dolore fisico che lo sforzo produceva. Cercò di inalare il profumo dei pini, dell’erba, del parco nel suo insieme, fondendosi con esso. Ogni falcata si alleggeriva e l’aria ricominciò ad affluire. Un pensiero le occupò la mente per un istante, dopo di che il nulla. Non esisteva più Alice addolorata. Uno stato di grazia la avvolse e le fece perdere la cognizione di se stessa. Non sentiva il rumore dei suoi passi. Si trovava in un mondo, dove il cielo aveva tutti i colori dell’arcobaleno. I suoi piedi non toccavano terra. Si sentiva osservata. Aveva gli occhi, appannati dal sudore, che le bruciavano per via del mascara che era colato. Mentre si puliva con il dorso della mano e con la maglietta, le apparve uno spettacolo incredibile: c’erano tutti. Li riconobbe subito anche se svestiti dalla porcellana, dal legno, dalla plastica, erano un po’ diversi. Li riconobbe con l’anima. Salìas, le tendeva la mano. Matuer, la salutava, Elgorìan aveva l’arco al suo fianco, Leilah, con una cesta piena di verdure, le passò vicino e le chiese se avesse fame. C’erano tutti e pareva aspettassero proprio lei. Sono morta, pensò, e di colpo ricordò i suoi genitori e Raffy. Non voleva sentissero dolore per colpa sua, e qualcosa nel suo profondo eruttò. Una pena antica si trasformò in un urlo straziante. Si propagò per valli, attraversò laghi e si insinuò tra le foreste più lontane, allertando animali, creature magiche e draghi vecchi e sonnecchianti. Era così profondo che fece vibrare il Piccopace, dove alla fine si schiantò e fu sepolto per sempre. Alice, piena di grazia, toccò terra. Sentiva sotto i suoi piedi, una vibrazione piacevole. Nessuno parlava. Era in pace. Riusciva a respirare la gioia che le solleticava l’anima.
Benvenuta, Alice. Questo è il nostro mondo. Sentì le parole direttamente nella sua testa. Rispose, scoprendo che il suo saluto non passò dalle labbra. Stava comunicando con il pensiero. Non si chiese come tutto ciò fosse possibile. Zio Alf le aveva detto che un modo c’era per arrivare fin lì. Si inginocchiò. Era al sicuro. Lo sentiva. Salìas le si avvicinò. Era bello. La pelle liscia, abbronzata, le labbra carnose ed il corpo snello.
Non potrai rimanere, Alice. Non ancora. Sei arrivata fin qui per via del tuo dolore e ti guariremo. La sofferenza è la porta. Ti abbiamo sempre osservata, ti aspettavamo. Hai avuto pazienza e ti sei presa cura di noi. Non hai dubitato della nostra esistenza, mai. La tua forza ha rallentato la tua discesa verso il fondo, verso le paludi oscure e ti ha raschiato dentro. Hai contato le vertebre alla morte, lo sappiamo. Ora, lascia fare a me. Alzati e dammi la mano. Saremo legati da questo momento, per sempre.
Non riusciva a staccare gli occhi dai suoi, Alice piena di grazia. Si alzò, e restò dinnanzi all’elfo, così vicino da poter sentire il suo respiro. Un passo. Le braccia di Salìas si alzarono e l’attirarono a sé. Una stretta lieve che scosse le fondamenta della sua esistenza, frantumando massi di dolore, raffreddando lava di malinconia e risucchiando ombre che sgusciavano come viscide lumache.
Non durerà in eterno questa grazia, Alice. Tornerai e noi saremo qua. Ora vai, corri, Alice, corri.
Si fermò di botto, frastornata e con il vuoto dentro. Sentiva di non riuscire a fare un altro passo in più, ma doveva tornare a casa. La coda di cavallo si era sciolta ed i capelli appiccicati le producevano una sensazione fastidiosa. Voleva solo farsi una doccia e piangere. Aveva sognato un luogo, dove i suoi elfi l’avevano accolta. Ecco, pensò, cosa produce la trance che avviene durante la corsa. Camminava, aprendo e chiudendo la bocca, come un pesce fuori dall’acqua. Inghiottiva gli scalini e aprì la porta, velocemente. Si fermò mentre le lacrime di sale, iniziarono a scottare sulle guance.
Datemi un segno che tutto è vero. Datemi modo di essere in pace. Salìas, aiutami.
Aspettò. Il sudore le si asciugò addosso e iniziò a tremare. Non avvenne nulla. Gli elfi muti riempivano i suoi occhi e nutrivano la sua rabbia. Decise di lasciare perdere e di farsi una doccia. Si guardò allo specchio. Era un mostro, con il mascara ovunque. Lo stomaco le si contorceva per la delusione di non poter sapere se, davvero, fosse stata là. Si raccolse i capelli e tutto cambiò. C’era stata, sì. Si avvicinò di più allo specchio e si accarezzò quella piccola punta che cambiava la forma delle sue orecchie.