Ecco il racconto “Era il settantasette” di Flavio “Luca” Bellan che ha partecipato alla rubrica la verità, vi prego.
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ERA IL SETTANTASETTE
Era la primavera del settantasette e mio padre si preparava ad un
nuovo tipo di viaggio che non capivo e che si chiamava
trasferimento: faceva le valigie come quando partiva per un
viaggio qualunque, solo che erano di più e ci stava dentro tutta
la sua roba che non sarebbe tornata a casa dopo pochi giorni.
Si trasferiva in montagna per fare il dottore, non era più uno
studente e non era più un guardiano notturno e non beveva più
dalla grande tazza verde il caffè della sera per tenere gli occhi
aperti sui libri o per andare a lavorare di notte, adesso cambiava
lavoro e lavorava da dottore e si trasferiva e da un po’ di tempo
il caffè lo beveva al mattino col pane biscotto, come me, ed era
bello fare colazione con lui che non faceva più la colazione al
contrario, alla sera.
Si trasferiva ma sarebbe tornato a prendermi per portare in
montagna anche me, quando? presto mi rispose, ma non capivo quanto
fosse esattamente presto, presto per me era tirarsi su le mutande
per tornare in classe dopo la pipì o finire il riso coi fagioli
prima che freddasse o correre a tavola prima che la nonna venisse
ad acchiapparmi infuriata o infilarmi nel letto dopo i cartoni
animati perché era tardi e i bambini vanno a dormire, su, presto!
a letto! ma presto quanto? presto, quando la scuola sarà finita,
oh, allora addio, mancava un secolo alla fine della scuola, altro
che presto!
Rita andava con lui più presto di me, partiva subito e si
trasferiva anche lei per fare l’infermiera, ma quello lo faceva
già prima, in quel palazzo enorme che si chiama ospedale e che era
uguale a quello dove abitavo, solo enormemente più grande, con
molte più stanze e con tutta la gente che viveva sempre sdraiata,
andava a fare l’infermiera in montagna perché un dottore in
montagna ha bisogno della sua infermiera per dividersi i compiti,
il dottore controlla il cuore, ascolta il respiro, cura il mal di
pancia e il mal di gola, che sono utili per non andare a scuola ma
fanno venire i dolori e la scelta e tutt’altro che facile, picchia
sul ginocchio col martello e con le dita sulla schiena e controlla
se sei capace a dire trentatré, e che ci vuole, ero capace anch’io
che facevo la seconda elementare figurarsi uno grande, e
l’infermiera fa le iniezioni e porta il cappellino, e questo la
rende molto meno simpatica del dottore, nonostante il cappellino
che la rende più graziosa di lui.
Dietro l’ospedale dove Rita lavorava c’era un grande spiazzo vuoto
dove la sera imparavo a guidare, mio padre mi chiedeva: vuoi
andare a guidare? ma certo che voglio, e scendevamo in rimessa,
che aveva una discesa ripida nella quale adoravo lanciarmi a
capofitto, più per il brivido di sentirmi dire: stai attento alle
macchine che escono! da mio padre che per la corsa in sé, e con la
centoventotto bianca andavamo fino allo spiazzo e papà mi prendeva
sulle ginocchia e mi lasciava il volante, si vede che negli
spiazzi vuoti i bambini potevano guidare, mentre i grandi
guidavano anche in strada e andavano dai benzinai e mettevano
cinquecento lire di super che non basta mai, come diceva mio
padre, e mettine di più, dicevo io, e già, bravo! e chi me li dà i
soldi, tu? Beh, qualcosa nel mio salvadanaio, quello a forma di
cassaforte, ci deve essere, magari arriviamo a seicento lire, ma
niente, papà non voleva mai i miei soldi e metteva cinquecento.
Per questo avevo deciso che una volta diventato grande gli avrei
dato cento, forse persino duecento lire per la super, e vedrai se
non bastano settecento di super!
Mio padre e Rita si trasferivano e un po’ ero preoccupato, perché
il divano letto di papà restava a casa con noi e mi chiedevo dove
avrebbe dormito, e anche la sua poltrona restava e mi chiedevo
dove si sarebbe seduto col libro in mano a leggere con
l’espressione tenebrosa che gli davano quelle sopracciglia folte e
svolazzanti che avrei ritrovato un giorno nello specchio e la
lampada accesa alle sue spalle e la tazza di the e il piattino coi
biscotti posato sul tavolino accanto alla poltrona, tutte cose che
restavano a casa con noi, tranne l’espressione tenebrosa. Lo feci
presente alla nonna, che in quanto mamma di mio padre avrebbe
potuto provvedere a tutte queste mancanze e la nonna mi spiegò che
non dovevo preoccuparmi perché avevano preparato una casa nuova
per papà in montagna, dove c’era un letto, una poltrona, una
lampada, dei piatti per i biscotti, degli scaffali dove riporre i
libri e una cucina nuova di zecca per cucinare il the e il
mangiare, e mi sentii molto meglio, tranne per il fatto che allora
anche la nonna avrebbe dovuto trasferirsi, visto che era lei a
fare sia il the che il mangiare, ma la nonna aggiunse che ci
avrebbe pensato Rita a quelle cose, da allora in poi, dal che
compresi due cose: che le infermiere non fanno solo le iniezioni e
che in montagna papà avrebbe mangiato male, perché, pur non
avendone la prove, ero sicuro che Rita non avrebbe saputo cucinare
bene come la nonna, infatti lo diceva anche mio padre, come cucina
la nonna non cucina nessuno, ed era un bel guaio, perché poi
sarebbe toccato a me. Certo Rita era simpatica, dato che, pur
essendo un infermiera, non mi aveva mai fatto neppure un’iniezione
e per di più conosceva a perfezione l’alfabeto muto dei bambini e
potevo fare con lei delle gran conversazioni segrete durante il
tragitto in autobus da scuola a casa, indicandole quanto era
brutta quella signora o che mi sarebbe piaciuto avere quel cane
bianco e nero con la coda a spazzolone o che quella bambina era
proprio carina e secondo me mi aveva guardato e nessuno capiva
cosa ci stessimo dicendo ed ero orgoglioso di avere tutti quei
segreti a riguardo del mondo.
Ed ecco che, pensando al ritorno da scuola, mi venne in mente un
secondo problema: chi sarebbe venuto a prendermi al pomeriggio,
alla fine delle lezioni? E chi mi avrebbe accompagnato al mattino,
visto che mio padre sarebbe stato altrove e non avrebbe più potuto
svolgere quel compito? ci penserà il pulmino della scuola, ti
abbiamo già iscritto al servizio, m’informò Rita, oddio, che
cos’era il pulmino della scuola? chi ci sarebbe stato sul pulmino
della scuola? altri bambini che non conoscevo, gente strana, chi?
e poi, che idea era stata questa di iscrivermi a codesto servizio
senza consultarmi, e se avessi preferito andare a scuola a piedi
con la nonna come quando andavo all’asilo? d’accordo, la scuola è
troppo lontana per andarci a piedi, ma sul pulmino, lo conoscevano
l’alfabeto muto dei bambini? perché se non lo conosceva nessuno
ero fregato, non avrei più potuto avere segreti e avrei dovuto
passare un sacco di tempo in silenzio, non si prendono simili
decisioni su due piedi e senza consultare i bambini interessati!
Non ti devi preoccupare, mi dissero, vedrai che il pulmino ti
piacerà, potrai parlare con gli altri bambini, appunto, questa è
la tragedia, io detesto parlare con gli altri bambini! dicono solo
di quanto litigano col fratello e che voto han preso per i
pensierini e cosa vogliono da babbo natale che non esiste o da
gesù bambino che se è un bambino appena nato mi dite come cavolo
fa a portare i doni a qualcuno, dovrebbe essere come minimo un
dio, io voglio parlare di quello che vedo, delle persone
singolari, dei cani, delle bambine, delle scarpe brutte e del
mondo che passa nel finestrino del tram come in un televisore a
rovescio che tu ti muovi e cambiano le immagini in continuazione,
ma su, non devi preoccuparti e poi Walter è così simpatico, chi
sarebbe costui? l’autista del pulmino, mi fu risposto, come
l’autista del pulmino, e da quando l’autista ha un nome?
sull’autobus tutti gli autisti si chiamano autista, così chiunque
sa come chiamarli, che autista era mai questo che aveva bisogno di
un nome da cristiano, un conte? oddio che situazione orribile, mio
padre si trasferiva e sarebbe stato nutrito da un’infermiera e io
restavo qui con la nonna e in balia di un autista di pulmino che
si chiamava Walter ad aspettare un secolo che la scuola finisse
per poter essere anch’io trasferito in montagna a mangiare cose
non cucinate dalla nonna, e magari Walter conosceva l’alfabeto
muto e addio segreti! oddio! perché ogni volta che i grandi
preparavano una fregatura per me dicevano vedrai che ti piacerà,
erano sadici? era sempre andata così, dal cavolo bollito in
poi…oddio.!
Invece, grazie a Walter, che era spassoso, rotondo come un orso e
barbuto come mio padre, conobbi i Pink Floyd e cominciai ad
ascoltare il rock degli anni settanta, dal mangianastri e dal
baritonale Walter l’autista di pulmini. Ma sui bambini non avevo
sbagliato affatto. Era proprio una banda di stronzi ignoranti che
non conosceva l’alfabeto muto! E mi chiedevano cosa avevo per
merenda nella cartella, ma chissenefrega, sei ritardato? cosa?
barattare la mia merenda con la tua perché la tua non ti piace?
Allora sei un troglodita che pratica il baratto, oltre che
ritardato! comprati una merenda che ti piaccia! E così stavo in
silenzio, nel primo sedile dietro Walter, per sentire meglio i
Pink Floyd che uscivano a tutto volume dal pulmino, che era
azzurro ed era un mitico T2 della Volkswagen, nove posti in pelle
rossa, avrei scoperto molto tempo dopo di aver viaggiato su un
icona pop di quegli anni e non su un semplice pulmino della
scuola. Chissà quante altre volte sono stato immerso nel midollo
delle cose e non lo ricordo perché ero troppo piccolo, chissà,
magari il bidello dell’asilo era Hemingway prima di partire per
l’Africa.
Era il settantasette, quell’anno andai a scuola accompagnato da
“Animals”, e il fatto che ne andassi pazzo la dice lunga sul tipo
di bambino che ero e perché non mi andassero a genio i microcefali
con cui viaggiavo. Due anni dopo, invece, salii sul Volkswagen
una mattina e credetti di sognare la scena in cui precipitai come
Alice nel suo buco delle meraviglie: Walter chiese silenzio,
premette il tasto d’avvio del mangianastri e tutto prese a vibrare
al rumore assordante di un elicottero, poi un uomo urlò parole
incomprensibili, arrivò un colpo secco di piatti e prese vita la
più bella linea di basso che l’umanità avesse mai ascoltato,
m’innamorai del rock. Era il settantanove, era Roger Waters e,
anche se ancora non lo sapevo, erano appena trascorsi i giorni più
felici della mia vita e mi apprestavo a diventare un altro
mattone nel muro, trasportato dal mite Walter con gli occhi buoni
dal quale imparai a suonare l’air guitar col plettro di David
Gilmour tra le dita. La montagna era ormai alle mie spalle con un
pezzo d’infanzia e di meraviglia che non mi avrebbero più
abbandonato, come un ombra luminosa dietro gli occhi, continuando
a cantare come sirena pazza per il dolore della separazione che
voleva il mio ritorno e a cui avrei desiderato, ogni santo giorno,
ritornare.
Il settantasette entrava nell’estate, l’anno scolastico era
archiviato e io passavo le giornate appostato in cortile nei
pressi del cancello che dava sulla strada, per vedere la
centoventotto bianca spuntare annunciando il momento del mio
trasferimento in montagna. Mio padre mandava notizie chiamando
nell’ora più conveniente della teleselezione, appena prima di
Carosello, il che significava che in montagna c’era il telefono e
che non era vero che sarei finito nella desolazione come sosteneva
una zia, o inviava cartoline su cui rosseggiavano tramonti
intrecciati ai larici o incollati su profili di bricchi o
appostati dietro le linee ripide delle creste innevate o sui piani
inclinati dei tetti di lose di gruppi di baite che parevano
stringersi per riscaldarsi e mi chiedevo quale di quelle sarebbe
stata la mia casa e iniziavo a desiderare quei prati che erano
come andare ai giardini, ma senza più confini, e mi chiedevo cosa
mi aspettasse dietro questa o quella vetta, ignorando ancora la
legge del mondo, che stabilisce che dietro una montagna non ci sia
altro che un’altra montagna, fino alla fine delle terre, dove si
incontra la morte, che credevi di esserti lasciato alle spalle e
che ritrovi immobile che ti aspettava perché è la sola che sa da
sempre che il cammino è un cerchio, e potevo sognare così forte da
avere male agli occhi e sognavo di stambecchi grandi come elefanti
e di lepri dai piedoni a molla color del latte e le marmotte, che
cercavo sui libri degli animali e che sembravano maialini con
denti da topo e mi chiedevo se mio padre avrebbe acconsentito a
darmi la sega per tagliare blocchi di neve e poter costruire un
igloo con il suo camino e una pelle d’orso per terra su cui
aspettare altri sogni, ma c’erano gli orsi nelle montagne dove
sarei andato? e i lupi, con quegli occhi pieni di fame e di
orgoglio che arrivano dritti dall’inizio del mondo, avrebbero
ululato al freddo delle stelle? avevo costruito baite giocattolo
per anni, mio padre me le portava in dono dentro una scatola che
recava la croce svizzera sul coperchio, c’era scritto “gioco
educativo” e io mi educavo desiderando di chiudermi nella mia
baita, polenta borbottante e lupi alla porta con gli occhi di
demonio e il vento che agita l’erba come un mare molle.
La nonna diceva di no, niente lupi, ma la nonna diceva anche che
c’era l’inferno se non stavo bravo e che dal Veneto l’avevano
portata via che stava seduta sul tetto di casa mentre sotto
passava un fiume diventato grande come il mare e nero come il
cuore di un morto e denso come minestra e quindi non era
affidabile, perché sapevo già che nessun bambino può andare
all’inferno e nessun dio può immaginare un cosa disgustosa come
una minestra grande come il mare che inghiotte le persone.
Quando vidi altre valigie sul letto e i miei cassetti aperti e le
mani della nonna che spostavano le mie cose da questi a quelle
compresi che il momento era arrivato, sarei andato in montagna e,
come prima cosa, mi venne in mente di chiederle lasagne o
cappelletti in brodo, per fare scorta di bontà perché chissà
quando l’avrei rivista, presto, disse la nonna, verrò presto a
trovarti, sì certo, ormai la conoscevo la storia del presto dei
grandi e non mi fregavano più, prepara lasagne!
Feci il viaggio cristallizzato in uno stupore catatonico, non mi
accorsi delle curve, né del tempo che impiegammo ad arrivare,
tornai in me solo quando mio padre disse siamo arrivati e alla mia
destra comparvero dei lunghi edifici tutti uguali circondati da
filo spinato e cosa sono quelli? sono le caserme degli alpini, e
poi sulla sinistra un’enorme bottiglia di liquore dominava una
piazza polverosa, e quella? era l’insegna del negozio Albergian
che, come potei constatare di persona, fabbricava delle caramelle
tonde grosse come la mia bocca che sapevano di erbe di miele di
lamponi, e poi sfilarono ordinate le case nel centro del paese e
la macelleria con le siepi a fare da corte e il negozio di
alimentari con il vialetto di pietre e l’albergo ristorante “Della
posta” con la porta in legno dipinto di rosso e sembrava di stare
a Topolinia, era tutto un fiorire e alberi ovunque e sassi grossi
come aerei e vacche per i prati e i prati si arrampicavano fin
dove dovevano arrendersi al cielo che era la sola cosa più in alto
delle cime ed era meraviglioso, e qual’è casa nostra? eccola, ci
siamo, disse mio padre, e non ci potevo credere! abitavamo in un
condominio appena costruito e ancora da rifinire, con draghi di
gomma nera che sbucavano dal terreno e cataste di mattoni qua e là
e l’unica baita nei pressi era un bugigattolo di legno con
l’insegna “Ufficio vendite”, avevo sognato tutte le baite
esistenti tra Pinerolo e il Klondike e mi ritrovavo in una
scimmiottatura di casa montana coi balconi in legno partoriti di
un geometra dal gusto ridicolo per gli scoiattoli stilizzati e gli
stessi gerani di Torino. Pazienza, ero troppo felice per
sottilizzare, e poi mio padre mi spiegò che quella era una
sistemazione provvisoria, perché la nostra casa non era ancora
pronta e un minuto dopo ero già sparito per andare per prati
dietro casa ad inseguire i calabroni, stai attento, mi avvisa
Rita, non mettere le mani in posti in cui non vedi cosa c’è,
potrebbero esserci le vipere, o cazzo, pensai, orsi e lupi niente
ma in compenso serpi schifose a volontà!
Ed era vero, abbondavano: un anziano montanaro che conobbi in
seguito, andava per monti coi suoi baffi ingialliti dai sigari e
il fiato avvelenato di grappa e ne raccoglieva a decine, le
catturava bloccandole con un bastone che terminava biforcuto come
le lingue di quelle creature di smeraldo timido e le infilava
nelle bottiglie piene d’alcol per venderle ai turisti o le portava
ad un laboratorio farmaceutico perché il veleno diventasse
antidoto contro il loro stesso morso.
Era estate, ero in vacanza, ero diventato un bambino di montagna e
per di più un bambino riverito e oggetto di grande interesse e
studio: tutto il paese sapeva che ero il figlio del dottore e
m’indirizzava occhiate indagatrici e la cosa mi sorprendeva perché
non conoscevo nessuno, forse mio padre aveva distribuito in giro
delle mie fotografie, fatto sta che potevo andare ovunque senza
adulti, tanto c’era sempre chi mi riconosceva, mi fermava se
andavo nella direzione sbagliata o troppo lontano dalle case o
verso i guai e, rientrato a casa, non avevo bisogno di dire dove
fossi stato, mio padre lo sapeva già, sembravo lasciare tracce
ovunque, come un pollicino senza briciole.
Venni portato in visita all’edificio dove mio padre aveva
l’ambulatorio, una stanza con lettino e sedie e armadietti in
metallo bianco, ricavata al pianterreno di una costruzione in
pietra che ospitava anche la piccola farmacia senza farmacista,
bastava aprire una porta laterale dell’ambulatorio per accedervi,
mio padre faceva le veci del titolare vacante, e ospitava il
Municipio col suo sindaco e il messo e il segretario comunale e
c’era anche la scuola, una sola aula per tutti le classi
elementari, stava al primo piano e aveva finestre da cui si
sentiva il rotolare incessante del torrente in mezzo alla valle e
in cui un artista svampito e fulvo di pelo avrebbe tentato di
trasmetterci la nobile arte della scultura del legno in un
turbinare di trucioli, e poi c’era l’alloggio del custode, sempre
sbronzo ma puntuale come il sole, e pure l’ufficio postale stava
lì e la rimessa dello spartineve, praticamente l’unica persona che
non vi abitava era il parroco, dio gli aveva riservato un alloggio
privato dietro il campanile con tanto di orto e porcile per farci
i salami, in pratica era un edificio polifunzionale, ma prima che
li inventassero.
Era l’estate del settantasette, e la mia infanzia esplose come una
notte pirotecnica e tutti i miei sensi rimasero col naso per aria
a godersi lo spettacolo: pedalai a rotta di collo per i sentieri,
affondai nell’acqua gelida di un guado fino al collo, attesi su un
albero l’arrivo del malgaro che mi salvò dalla bovina feroce che
avevo innervosito, fabbricai fionde, archi e lance betulla e vinsi
battaglie e mostri sanguinari, rubai l’insalata e le carote
dall’orto del vicino e imparai a mie spese la differenza tra
maturo e precoce, mangiai i mirtilli e le fragole inginocchiato a
terra, come un gatto, senza nemmeno staccarli, vidi la volpe
attirata dal burro e la saetta esplodere sulla roccia, imparai che
le patate sono come uva sottosopra, stanno a grappoli sotto la
terra nera, presi la prima sbornia per distrazione paterna,
raccolsi fiori di campo per Marina che non so più che faccia
avesse ed era gialla di capelli come la paglia degli
spaventapasseri.
E traslocammo nella casa nuova, quella definitiva, che aveva la
facciata sulla statale e si sviluppava in lunghezza risalendo
l’erta di una strada laterale, per arrivare in cucina
dall’ingresso attraversavi tutte le camere e tra una e l’altra,
per compensare il dislivello, salivi due gradini. Gli armadi
stavano nei muri, gli ingressi erano tre e uno di essi dava su un
giardino che divenne la bolla in cui seppellii tutti i miei giochi
segreti: un capanno degli attrezzi fu trasformato da mio padre
nella mia torre privata, nella quale trascorrevo le ore inventando
storie che narravo a me solo per interi pomeriggi, c’era la stia
dei conigli nella quale infilavo un’erba di cui erano ghiotti
senza sapere che li uccidevo di mal di pancia e razzolavano
galline, frinivano cicale, nidificavano le rondini e la notte era
un vociare di creature e un raschiare di stelle che non mi saziavo
mai di stare ad ascoltare, perché da adulti si perde la capacità
ma da bambini, la notte, restando immobili e respirando pianissimo
si può sentire il rumore che fanno roteando nello spazio.
Le previsioni quella sera davano neve, non stavo nella pelle per
la speranza che fossero corrette, avrei ucciso il colonnello
dell’aeronautica se si fosse sbagliato, l’inverno era seguito ad
un tiepido autunno che aveva scolorito tutta la natura, svuotato
la vita dei cieli e dei campi, portato frutti diversi e più
asprigni di quelli estivi e meno ore per giocare disperso in
quella straordinaria fanciullezza.
Andai a letto che i primi fiocchi si adagiavano sui larici sul
prato sul capanno dei giochi e faticai a trovare il sonno nella
mia camera rischiarata dal lividore della neve che planava sul mio
mondo immobile, col cuore rimasto in giardino a smaniare e le mani
calde per l’agitazione.
Ci svegliammo nella casa immersa nella più profonda oscurità,
eppure era mattina inoltrata, non capivamo cosa avesse causato
l’eclissi che ci isolava in un silenzio perfetto, dalle persiane
non filtrava nulla, c’era soltanto assenza che ci lasciava sospesi
e ottusi, vagamente preoccupati. Aperta la finestra di cucina,
provammo a spingere verso l’esterno gli scuri, niente, era fatica
inutile, qualcosa le bloccava e ci volle del bello e del buono e
il braccio di mio padre per ottenere un movimento e allora cadde
in cucina un mucchio di neve soffice come pane, la nevicata era
stata così copiosa da superare in altezza le finestre!
Corsi dunque alle stanze del primo piano, che si affacciavano
sulla statale, il punto più alto di quella casa, aprii la porta
finestra e uscii sul balcone, lì c’erano trenta centimetri di neve
e fuori un universo incredibile in cui tutto era stato
inghiottito, automobili parcheggiate sulle quali camminai
affondando fino alla vita, i pianterreno delle abitazioni
cancellate, neve in quantità mai vista che si era portata via il
paesaggio e l’aveva sostituito con un’abbacinante uniformità,
persone che chiedevano di essere liberate da prigioni domestiche,
i bambini impazziti, tutti i mezzi meccanici inservibili e le
strade obliterate da un fantastico nulla: era appena cominciato un
indimenticabile grande inverno.
Il paese si organizzò, spalando, ammucchiando, aprendo passaggi,
collegando case ed edifici, la scuola, i negozi, con viali scavati
dentro muri di neve alti un paio di metri, come si vede ancora in
certe immagini di latitudini polari, ognuno liberò la sua casa e
aiutò gli altri e gli alpini aiutarono tutti, mettendo i cingolati
e i bicipiti a disposizione della popolazione, liberando strade,
portando pasti agli anziani delle terre più alte, sistemando tetti
sfondati e ospitando nelle coperte militari quelli che
temporaneamente eran rimasti senza casa sulla testa.
Rimanemmo isolati dal resto del pianeta per una decina di giorni,
le statali erano tagliate dal gelo e il maltempo proseguì,
impedendo anche agli elicotteri di portare rifornimenti; si
dovette dar fondo alle scorte di patate che, per nostra fortuna,
erano la produzione agricola per cui il paese era rinomato, ma
anche a quelle di fantasia delle massaie che portavano in tavola
fumanti patate bollite, croccanti patate fritte, patate al forno,
patate al latte e minestra di patate, un tripudio di amidi che ci
tenne caldo e ci mandò a letto sazi.
Fustagno, galosce, giaccone, guanti e berretto pesanti, la borsa
di cuoio, la sciarpa che a volte diventava di legno, guardavo mio
padre impegnato nel rito quotidiano della vestizione e mi
inorgoglivo: lui era il dottore, partiva conciato come un
esploratore polare per raggiungere le frazioni isolate a bordo del
cingolato degli alpini, si arrampicavano su per strade diventate
piste per andare a visitare pazienti che non avevano modo di
scendere in paese, spesso trovò ad aspettarlo solo più la morte
bianca, che coglie gli incauti che s’illudono di scaldarsi con lo
spirito del vino e dimenticano di metter legna in pancia alla
stufa e si addormentano nella fine dolcissima di un sonno gelato,
e gli toccava tornare con un cadavere congelato e arrivava a casa
coi baffi costellati di ghiaccioli e le labbra tagliate e il
freddo che non se ne voleva andare dai piedi neppure a metterlo a
mollo nell’acqua bollente, stanco ma con gli occhi pieni di vita
con cui mi portava il racconto di quelle giornate d’inverno che
sembravano interminabili, era mio padre, era il dottore indomito
che non temeva i lupi, e se non c’erano è lo stesso, sapevo che
non li avrebbe temuti, e se aveva un po’ di tempo sulla strada del
rientro spargeva pane secco per le bestie affamate, ero il figlio
del dottore e tutti lo sapevano e tutti sarebbero stati salvati da
quell’inverno magnifico e tremendo.
Dentro quell’inverno avevo compiuto otto anni della mia infanzia,
ne avevo consumato la bellezza e divorato l’innocenza, era il
settantotto e mio padre era un eroe e non avrei mai più avuto
nulla di tutto questo: non l’inverno, non l’infanzia, niente più
eroi.