Ecco il racconto “Il gatto” di Raffaella Terribile che ha partecipato alla rubrica la verità, vi prego.
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Il gatto
La maggior parte del tempo della giornata dormo, nel silenzio rotto da qualche porta che sbatte, dal ronzio dell’ascensore, dalle voci concitate dei vicini napoletani che litigano. Non mi piace il rumore. Preferisco il silenzio ovattato di queste stanze vuote dove la vita sembra essersi fermata. La mattina il mio padrone si alza presto, se è inverno non c’è ancora la luce del sole. Sento il suo passo sincopato avvicinarsi sulla moquette del corridoio, conto fino a 20 e la maniglia della porta del bagno si abbassa per dare inizio al nuovo giorno. Eh sì, perché io dormo in bagno, dove c’è anche la cassettina per i miei bisogni, e il mio padrone non vuole che disturbi la sua notte, girovagando nell’oscurità come fanno i gatti.
Sono un gatto grasso e pigro. Non esco mai. Non potrei, perché la casa del mio padrone è a un piano alto di un vecchio condominio. Mi piace guardare fuori dalla porta-finestra della cucina. Guardo il cielo, le macchie di verde lontane, dall’altra parte della valle. In primavera e in estate, quando riesco ad andare sulla terrazza, mi arrivano odori che risvegliano ricordi lontani di libertà, portati dal vento. Ogni tanto il mio padrone pianta qualche fiorellino, lo cura come un bambino. Io per gelosia vado a raspare la terra, ma mi scopre quasi sempre. D’inverno invece mi piace osservare la neve cadere dietro il vetro appannato. Qualche volta il mio padrone mi fotografa per mandare le foto a qualche sua amica. I gatti, si sa, fanno tenerezza.
Quando il mio padrone va a lavorare e la porta si chiude dietro alle sue spalle, la casa è mia. Mi aggiro silenzioso in queste stanze dove non c’è suono, voce di bimbo, risata. Il mio passo è felpato anche per la moquette che copre tutti i pavimenti, salvo il bagno e la cucina. Se non dormo, mi piace curiosare negli angoli. Negli angoli nascosti si fanno sempre strane scoperte: una forcina caduta dietro al lavandino del bagno, un paio di mutandine tra i cuscini del divano, un orecchino infilato tra la testiera e il materasso del letto. Il letto. E la stanza proibita. Il mio padrone non vuole proprio che ci entri. Ma se la porta rimane aperta per sbaglio, ci entro eccome. È qui che il territorio di caccia promette le prede migliori. A volte vi aleggia un odore strano, dolciastro e selvatico. Di solito succede quando la porta di casa si apre e il mio padrone porta qualcuno con sé. qualcuna. Li sento parlare. La voce del mio padrone risuona inaspettata, dolce e carezzevole. Lei di solito ride. Si abbracciano. Nella cameretta davanti all’ingresso lei appoggia la sua borsa. Anche lì mi diverto, quando loro sono distratti entro ed esploro con il naso la valigia di turno. Perché di valige, qui, ne arrivano tante: ognuna porta un odore diverso, una diversa stagione: e, tra camicie di seta e maglie di lana, mi piace affondare le zampe, strofinare il muso per assorbire quegli odori strani che sanno di fiori lontani. Qualche volta, se vengo sorpreso nella mia esplorazione, ci rimedio una carezza da una mano gentile. A volte mi lasciano stare. Il mio padrone è molto indulgente con me, un gatto da vezzeggiare è sinonimo di animo nobile e sensibile. Faccio il pagliaccio in cucina quando mangiano, buttandomi a terra a pancia all’aria, magari ci scappa qualche bocconcino extra. Se il padrone non mi dà retta, a volte gli mordo la mano e lui ride, ma non quando è da solo.
Ieri sera il mio padrone era agitato. L’ho sentito urlare al telefono, in salotto, e non mi piace il rumore. A orecchie abbassate ho sopportato per un po’ la sua voce, così diversa. Poi mi sono stancato e sono saltato giù dal mio pouf per mettermi lontano dal divano rosso scuro. Accoccolato nell’angolo del corridoio, nella penombra sotto la libreria, mi sento abbastanza tranquillo. Lontano dal dolore. Posso chiudere gli occhi e continuare a sognare.