La verità, vi prego – “La rapina”

Ecco il racconto “La rapina” di Giorgio Girace che ha partecipato alla rubrica la verità, vi prego.
Per leggere la mia lettera di valutazione clicca qui.

La rapina

Vecchia magra consolazione, piccola consolazione formato cappuccino.
Un mio amico, un certo Oscar, Oscar ghignoso, ebbe il coraggio di dire in giro che ero un “soffia” e quindi asserire che fosse ancora mio amico poteva ora risultava errato. Oscar ghignoso andava depennato dalla lista degli amici. Ma a dire il vero andava depennato già da tempo. Da parecchio Ruggero P. mi aveva fatto capire alcune cose sul ghignoso e cioè che era dotato di un sentimento odioso il quale era l’invidia. Cosa c’era poi da invidiare mi risultava oscuro. Possedevo due gambe, una testa ed un apparato genitale come tutti, e mi davo un gran da fare per sfruttare queste cose. Cercavo inoltre di muovermi con dignità ostentando sicurezza in ogni ambiente mantenendomi ben distante dai casini. Il ghignoso invece li adorava e per questo era segnalato. E probabilmente si era fatto in testa un quadro particolareggiato delle sue lune storte, specie quando meditava dietro le sbarre. Riteneva ci fosse un soffia e riteneva fossi io. Egli era certo che un amico potesse tradire così come si tradisce un sorriso, un’emozione. Peccato…
Ero al bar da Milena, seduto solitario in fondo al locale, vicino al WC. Mi facevo i fatti miei come spesso d’altronde. Sul tavolo oltre ai ravioli in brodo vi era un piccolo calice con una rosa bianca in bella mostra. Pensavo ad una bella donna conosciuta il giorno prima quando all’improvviso Ruggero P. si sedette trafelato di fronte a me.
«Ehi socio, hai sentito di Oscar?»
«Ciao Ruggero, no, dimmi». Ruggero era uno in gamba, cioè un impavido.
«Pare abbia fatto un buon colpo».
«Ah sì? Spiegati».
«Conosci la nuova banca popolare, quella appena aperta?»
«Certo la conosco. Bei pavimenti, belle piante, bell’arredamento».
«Precisamente. Proprio quella». Ruggero P. era un impavido, lo dicevano i suoi occhi: fermi, glaciali, addirittura spettrali, non tradivano emozione, non tradivano niente.
«Ebbene?»
«Ebbene l’ha ripulita: duecentomila Euro».
«Duecentomila hai detto? E tu come l’hai saputo?»
«Ora lo sanno tutti, anche la polizia. L’hanno già beccato».
«E i soldi?»
«I soldi non si trovano, ma ora il problema è un altro: secondo il ghignoso il soffia sei tu. Lo ha rivelato al suo compagno di cella. Non ha prove ma lo sospetta. Dice che ultimamente lo guardavi male e sprezzante».
«Io veramente non l’ho mai guardato male, anche se, ad essere sincero, non mi andava giù quel suo insistente ghigno». I ravioli si raffreddavano e ripresi a mangiarli in fretta. Ruggero P. era un bravo ragazzo ma quel suo sguardo non andava bene. Era sì un impavido ma gli occhi erano da assassino. Che fosse un bravo ragazzo lo sapevo io e qualcun altro solamente. Agli occhi di una qualunque persona, appariva male.
«Cosa pensi di fare, Glauco?»
«Chi io?» chiesi sbadatamente «Probabilmente continuerò a sorbire ravioli».
«Non prenderla alla leggera, il ghignoso vuole vendicarsi e quello è uno che mantiene la parola». Ora Ruggero dal suo ruolo di impavido sembrava volesse trasmettermi una sua recondita inquietudine, ma io me ne fottevo. A quel tempo possedevo molte sicurezze.
«Che faccia come crede, non mi troverà certo impreparato». Chiamai Milena e mi feci portare un altro quartino di rosso. La chiappona arrivò e mi riempì il bicchiere. Presi il bicchiere e lo vuotai nel contenitore, presi quest’ultimo e vi bevvi a canna.
«Sei un maiale, Glauco». Esclamò Milena. La guardai con aria interrogativa e ruttai sottovoce.
«Bene Ruggero, quel che dovevi riferirmi l’hai fatto, ora scusami che esco dal bar a sgranchirmi». Avevo bisogno di riflettere, uscii e inarcai la schiena. Il tempo non era male, il sole correva via di fretta ma la serata era fresca e calda, a seconda di come la si interpretava. Il ghignoso sospettava di me, ma su quali basi? Possibile che la nostra amicizia fosse degenerata tanto? Un tempo ce la intendevamo, si giocava a boccette e si andava al night insieme. Era forte, uno così non lo si trovava facilmente. Spesso organizzavamo piccoli furti, qualche rapina giusto per fare un po’ di bella vita e qualche imbroglio, ma sempre in reciproca sintonia. A dire il vero però i nostri dissapori ebbero un preciso inizio: fu a causa di una donna, una certa Petra, austriaca. Una bella donna. Oscar ne era invaghito ma lei scelse. La scelta è un libero arbitrio, ma vallo a far capire a Oscar il ghignoso. E si infuriò non poco quando ci sorprese in macchina insieme a fare il su e giù. Quella fu la fine della nostra amicizia. Me ne dispiacque nella misura in cui mi accorsi che il suo istinto peggiore, l’odio, diventò il più sincero. Ma mi ci abituai, d’altronde ci si abitua anche a vivere.
La bella donna conosciuta il giorno prima aveva un nome: Samantha. Samantha era affascinante come il fruscio delle calze di seta che proveniva dalle sue cosce. L’appuntamento era alle ventidue, lei era già sul posto, seduta sul bordo della fontana della piazza.
«Ciao Glauco».
«Ciao bella, stai benissimo».
«Grazie, mi confondi». Le diedi un bacio in bocca senza perdere tempo, con lei il giorno prima avevo battuto tutti i record: due ore esatte di corteggiamento per arrivare al risultato. Certo non fosse stata consenziente non ci sarei riuscito. Forse il record era anche suo, ma sussisteva un margine di dubbio. Samantha, dicevo, era affascinante, non bellissima ma sapeva suscitare quel che ci vuole, e a me in quel periodo mi ci voleva qualcosa di speciale: lei appunto.
«Sentito la mia mancanza?»
«No furbacchione, sei sempre stato presente e insistente nella mia testa».
«Non prendertela, so tenere compagnia anche quando non ci sono». Prendemmo a camminare, lei troppo svelta, io svogliato. La frenai trattenendola per la mano. Il giorno prima avevo avuto un gran daffare e l’averla poi conosciuta in quel night fu un’opportunità insperata. Non che credessi ai colpi di fulmine, però al mio istinto davo retta. Samantha era allegra, e questo bastava. Poi comunque non era male. E il cerchio per me si poteva chiudere. Cosa volere di più?
«Ehi Glauco, non mi racconti qualcosa di te? Che lavoro fai?»
«Vuoi sapere cosa faccio? Lavoro nel campo sociale, sono laureato in stratosgrafia».
«Cosa? E che vuol dire?»
«Hai presente i dislivelli culturali e generazionali creatisi all’interno delle masse sottodimensionate dal sistema capitalistico?»
«Beh no, cioè forse, e allora?»
«Ecco, mi applico in questo campo».
«Però, bello, e quanto ti danno al mese?»
«Quanto basta, carina».
«Prendiamo un gelato?» Samantha aveva uno spiccato senso dell’umorismo, dicevo, ma parve farsi seria. Sembrava pensasse a qualcosa di importante.
«Un gelato? Ok, va bene». Facemmo dietro-front dirigendoci alla gelateria presso la fontana.
«Sai, tu non sei male, ma possiedi un che di misterioso. Mi nascondi qualcosa?»
«Non ti nascondo nulla, stanne certa». Prendemmo il gelato, lei lo volle doppio con fragola e cioccolata. Io scelsi la solita amarena con panna. Continuammo a camminare parlando poco, era una mia specialità. Cioè lo diventava immancabilmente dopo il sesso. Prima ero un gran parlatore. Forse è un cliché di noi uomini. La serata si concluse tra le sue cosce e le sue carezze e ci lasciammo con un gran bacio che sapeva di buono.
Il giorno dopo, verso sera, tornai al bar da Milena e mentre buttavo giù dell’alcol, mi si accostò Ruggero P. Era preoccupato. Quei suoi occhi erano fastidiosi. Pungevano i miei.
«Senti Glauco, il ghignoso è stato rilasciato, ha pagato la cauzione ed è tornato a casa. Ti sta già cercando. É convinto che tu gli abbia portato via il malloppo. L’aveva nascosto ed è sparito».
«Senti Ruggero questa storia mi ha stancato, se ha qualcosa da dirmi che si faccia vivo. Fagli sapere che lo aspetto».
«D’accordo Glauco». Ruggero sparì portandosi via quei suoi occhi di ghiaccio. Cominciava ad annoiarmi. Dopo il sesto bicchiere decisi che era ora di andare. Non avevo impegni ma ero stufo di stare in quell’ambiente. Milena mi si avvicinò
«Cos’hai Glauco? Mi sembri un po’ agitato».
«Niente, è che il tempo passa, le ore corrono e io sono qui a perdere tempo. Potrei usarlo a dipingere un quadro, a costruire una barca o ad arrampicarmi sull’Himalaya».
«Sì capisco, hai bisogno di dormire, hai bevuto un po’ troppo».
«Ecco, hai ragione». Mi volsi e un po’ barcollante andai all’uscita. Mi diressi alla macchina tentando di districare gli oggetti che tenevo in tasca e quando finalmente trovai le chiavi mi accorsi di non essere solo. Sentivo respirare alle mie spalle.
«Ehi amico, come ti butta?» Mi voltai e vidi Oscar, il mio caro amico Oscar il ghignoso più ghignoso che mai. Teneva le mani in tasca e l’ultimo centimetro di sigaretta in bocca. Lì accanto un gatto si strusciava al muro.
«Beh, si tira avanti. Tu piuttosto, ho sentito che sei un campione».
«Campione? Che dici?»
«Campione, sì, complimenti per la bravura e per la sfiga. I tuoi allori son bruciati in fretta». Presi anch’io da fumare. Accesi un sigaro, anzi mezzo.
«Già, ricco per mezza giornata». Il ghignoso si guardò le scarpe e fece una mezza risata, coinvolse solo metà bocca. Io ebbi barlumi di visioni che non centravano per nulla. Avevo in mente una marca di birra e strisciai il piede a terra come a farne rotolare la bottiglia. D’improvviso il ghignoso partì con un ben piazzato uppercut. Piegai la testa a lato e rovinai al suolo. Il sigaro cadde a terra, peccato. Peccato davvero, ora dovevo reagire ma qualcuno mi trattenne e rimasi disteso. Il ghignoso mi fece assaggiare la punta dello stivale poi infierì sul mio stomaco. Cercai di divincolarmi ma lo sconosciuto da dietro teneva duro. Cercai di afferrarlo con la mano destra ma mi mancò il fiato. Sapete, mai fidarvi degli amici, possono tradire così come lo fanno le donne. E io me ne intendevo di queste cose e perciò non mi stupii eccessivamente. Ma era una piccola magra consolazione, formato cappuccino, come appunto asserito alla prima riga di questo racconto.
«Sei un bastardo, un vile soffia, un ladro traditore». Ecco appunto, un traditore, ma forse si riferiva a Petra l’austriaca, però c’era di mezzo il libero arbitrio, e quest’ultimo non è aria fritta.
«Senti Oscar, non so di cosa parli, ma te la farò pagare cara». Ero dolorante dappertutto e il sangue me lo sentivo in bocca. Brutta cosa. Oscar un tempo mi era amico, gli facevo leggere le mie poesie, si commuoveva e per un po’ egli fu la mia famiglia. Era umano e non una belva. Ora aveva un complice ed era incazzato. Ma mi aveva sottovalutato e questo fu un errore madornale per lui e il suo vice. A quel tempo due cose mi riuscivano bene: fumare il sigaro e maneggiare il sei dita a serramanico. Lo tenevo in una fondina un poco sotto l’ascella sinistra e sebbene impedito dal tale alle mie spalle, ebbi l’opportunità di sfilarlo repentinamente con la mano destra e di menare a casaccio all’indietro. Sentii urlare e mi alzai di scatto acchiappando il tale per il bavero assestandogli un fendente alla coscia.
«Affanculo Ruggero». Gli urlai. Poi mi girai giusto in tempo per vedere il ghignoso sparire dietro l’angolo dell’automobile. Lo sforzo mi fece barcollare, ma ebbi la prontezza di parare il colpo di Ruggero P. La sua testata andò contro la mia mano aperta. Gli affondai il destro nello stomaco e quello si piegò in due tossendo e sbuffando. Bastardi, vili bastardi, trattare così un amico. Tutte le volte che erano stati miei ospiti al bancone, tutte le dritte che avevo dato loro, tutte le poesie sprecate, poesie che parlavano di amicizia, di fedeltà, di gratitudine e di onore. Tutte sprecate. Porci, non erano altro che dei sudici maiali. Imprecai ad alta voce tra me e me e calciai ripetutamente Ruggero P. allo stomaco. Si lamentava, implorava pietà, e più implorava, più calciavo. Ruggero P. non appariva più impavido. Poi stufo, mi piegai al suolo e raccattai quel che rimaneva del mezzo sigaro, lo misi in bocca e lo riaccesi. Sapeva di sangue. Montai in macchina.
Mi diressi da Samantha, lei sicuramente avrebbe capito. D’altronde sebbene ci conoscessimo da pochi giorni, pareva avesse un debole per me e quando le donne le si pigliano all’inizio, c’è tutto da guadagnarci, è la loro fase idealista; devono ancora subire la trasformazione, ci siamo intesi.
Suonai al campanello e quando sentì la mia voce, non ebbe esitazioni. Salii lentamente per via del fianco destro, c’era dentro Belzebù che menava colpi col forcone. Samantha sgranò quegli occhi furbi da gran femmina e tirò fuori l’istinto da crocerossina insito in tutte le donne. Si prodigò con garze, disinfettanti e baci.
«Ma che ti è successo, Glauco?»
«Una divergenza di opinioni, una semplice e banale divergenza».
«Fa male? Forse è meglio che ti porti da un medico».
«Lascia perdere, voglio riposare un po’ poi me ne vado».
«No, stanotte dormi qui, hai bisogno di cure».
«Grazie bella, sei magnifica».
«Ma che succede, spiegati, voglio capire».
«E’ meglio di no, solo stammi vicino».
«Vuoi che ti stia vicino?»
«Sì, è importante».
«Quanto importante?»
«Più di quanto immagini, stammi vicino».
«Ma cos’hai? Che ti succede?»
«Succede che sono un maledetto bastardo, un bastardo ricco».

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