“La verità, vi prego” è la posta del cuore della scrittura: inviami un tuo racconto o il primo capitolo del tuo romanzo e ti scriverò una lettera di valutazione franca, pubblica e gratuita. Per sapere come funziona leggi qui.
La lettera di oggi è per Giorgio Girace e il suo racconto “La rapina”.
Chi è Giorgio Girace:
Nasce a Salerno nel 1959, già autore di due romanzi “Salsa,
bachata e altre tentazioni” e “Salsa, passioni e tradimenti”, e
di una raccolta di poesie in fase di pubblicazione. Nonostante
il diploma in elettronica si considera più portato verso un indirizzo
umanistico moderno, e s’ispira notevolmente a quella beat generation del secolo
scorso che oggigiorno, più che mai, considera fatalmente di grande
attualità.
Caro Giorgio,
lo vedi quel bambino sott’acqua? Quello è il tuo potenziale lettore. Gli altri, distesi, più rilassati, che si lasciano tenere a galla dalle onde o addirittura si appoggiano, sono i lettori di romanzi. Il lettore di racconti, invece, trattiene il fiato e nuota forte per scendere giù e toccare il fondale, fa una fatica enorme, e allora tu lo devi ripagare.
Nei racconti più che in qualsiasi altra forma narrativa contano due cose: l’atmosfera e la tensione. Tu ce le hai tutte e due, ma non ti sforzi abbastanza per definirle, non le metti a fuoco, non le esasperi e non vai a vedere dove ti portano: resti sempre un passo indietro, senza avventurarti né di qua né di là e alla fine non ne ricavi niente.
Dici di rifarti alla beat generation, ma quello che vedo io è una bizzarra ambientazione western con un protagonista che sembra un po’ Godot e un po’ un personaggio dei fratelli Coen. È una cosa assai più buona del cercare di ricalcare la beat generation, ma tu non lo sai, non ne hai consapevolezza, e questo rovina tutto.
Una volta che hai scelto gli elementi da mettere in scena devi rimanere lì a gestirli, altrimenti si fa confusione e la tua storia non riesce a prendere la rotta. Sembra che tu ti sia ritrovato con tante piccole bombe in mano, ma non sai da che parte lanciarle, e per di più nessuna è innescata.
C’è l’ironia un po’ caustica:
«Cosa pensi di fare, Glauco?»
«Chi io?» chiesi sbadatamente «Probabilmente continuerò a sorbire ravioli.»
C’è lo sbeffeggio della società:
«Ehi Glauco, non mi racconti qualcosa di te? Che lavoro fai?»
«Vuoi sapere cosa faccio? Lavoro nel campo sociale, sono laureato in stratosgrafia».
«Cosa? E che vuol dire?»
«Hai presente i dislivelli culturali e generazionali creatisi all’interno delle masse sottodimensionate dal sistema capitalistico?»
«Beh no, cioè forse, e allora?»
«Ecco, mi applico in questo campo».
«Però, bello, e quanto ti danno al mese?»
C’è questo protagonista solitario, amato dalle donne, violento, che caccia fuori un romanticismo surreale:
Bastardi, vili bastardi, trattare così un amico. Tutte le volte che erano stati miei ospiti al bancone, tutte le dritte che avevo dato loro, tutte le poesie sprecate, poesie che parlavano di amicizia, di fedeltà, di gratitudine e di onore. Tutte sprecate. Porci, non erano altro che dei sudici maiali.
E sopra ogni cosa c’è un’azione, che è stata compiuta eppure non si vede, se ne parla soltanto. Questa è la cosa migliore del testo, è la cosa che, da sola, può essere in grado di moltiplicare atmosfera e tensione e tu non devi mai perderla di vista. Ogni movimento dei personaggi, ogni dialogo, ogni elemento surreale devono essere comandati da quell’azione nascosta, devono caricarsela sulle spalle e portarla da una parte all’altra del racconto, il che non significa a zonzo, ma da un punto all’altro in maniera precisa: in maniera da disegnare il percorso necessario della storia, fino alla sua conclusione.
Se farai questo ti renderai conto di non aver alcun bisogno di chiudere con l’effetto:
«Ma cos’hai? Che ti succede?»
«Succede che sono un maledetto bastardo, un bastardo ricco».
per comunicare al tuo lettore che, sì, è stato proprio Glauco a prendere i soldi del ghignoso.
Il tuo lettore è quello che si è tuffato per raggiungere il fondale, ricordi? È un tipo grintoso, sospetta già da un pezzo come stanno le cose, lo ha sempre saputo; vuole solo che tu lo conduca in questa scarna storia d’attesa, verso un finale che gli dia ragione senza darlo a vedere – come se fosse ovvio: perché lo è.
La rapina
Vecchia magra consolazione, piccola consolazione formato cappuccino.
Un mio amico, un certo Oscar, Oscar ghignoso, ebbe il coraggio di dire in giro che ero un “soffia” e quindi asserire che fosse ancora mio amico poteva ora risultava errato. Oscar ghignoso andava depennato dalla lista degli amici. Ma a dire il vero andava depennato già da tempo. Da parecchio Ruggero P. mi aveva fatto capire alcune cose sul ghignoso e cioè che era dotato di un sentimento odioso il quale era l’invidia. Cosa c’era poi da invidiare mi risultava oscuro. Possedevo due gambe, una testa ed un apparato genitale come tutti, e mi davo un gran da fare per sfruttare queste cose. Cercavo inoltre di muovermi con dignità ostentando sicurezza in ogni ambiente mantenendomi ben distante dai casini. Il ghignoso invece li adorava e per questo era segnalato. E probabilmente si era fatto in testa un quadro particolareggiato delle sue lune storte, specie quando meditava dietro le sbarre. Riteneva ci fosse un soffia e riteneva fossi io. Egli era certo che un amico potesse tradire così come si tradisce un sorriso, un’emozione. Peccato…
Ero al bar da Milena, seduto solitario in fondo al locale, vicino al WC. Mi facevo i fatti miei come spesso d’altronde. Sul tavolo oltre ai ravioli in brodo vi era un piccolo calice con una rosa bianca in bella mostra. Pensavo ad una bella donna conosciuta il giorno prima quando all’improvviso Ruggero P. si sedette trafelato di fronte a me.
«Ehi socio, hai sentito di Oscar?»
«Ciao Ruggero, no, dimmi». Ruggero era uno in gamba, cioè un impavido.
«Pare abbia fatto un buon colpo».
«Ah sì? Spiegati».
«Conosci la nuova banca popolare, quella appena aperta?»
«Certo la conosco. Bei pavimenti, belle piante, bell’arredamento».
«Precisamente. Proprio quella». Ruggero P. era un impavido, lo dicevano i suoi occhi: fermi, glaciali, addirittura spettrali, non tradivano emozione, non tradivano niente.
«Ebbene?»
«Ebbene l’ha ripulita: duecentomila Euro».
«Duecentomila hai detto? E tu come l’hai saputo?»
«Ora lo sanno tutti, anche la polizia. L’hanno già beccato».
«E i soldi?»
«I soldi non si trovano, ma ora il problema è un altro: secondo il ghignoso il soffia sei tu. Lo ha rivelato al suo compagno di cella. Non ha prove ma lo sospetta. Dice che ultimamente lo guardavi male e sprezzante».
«Io veramente non l’ho mai guardato male, anche se, ad essere sincero, non mi andava giù quel suo insistente ghigno». I ravioli si raffreddavano e ripresi a mangiarli in fretta. Ruggero P. era un bravo ragazzo ma quel suo sguardo non andava bene. Era sì un impavido ma gli occhi erano da assassino. Che fosse un bravo ragazzo lo sapevo io e qualcun altro solamente. Agli occhi di una qualunque persona, appariva male.
«Cosa pensi di fare, Glauco?»
«Chi io?» chiesi sbadatamente «Probabilmente continuerò a sorbire ravioli».
«Non prenderla alla leggera, il ghignoso vuole vendicarsi e quello è uno che mantiene la parola». Ora Ruggero dal suo ruolo di impavido sembrava volesse trasmettermi una sua recondita inquietudine, ma io me ne fottevo. A quel tempo possedevo molte sicurezze.
«Che faccia come crede, non mi troverà certo impreparato». Chiamai Milena e mi feci portare un altro quartino di rosso. La chiappona arrivò e mi riempì il bicchiere. Presi il bicchiere e lo vuotai nel contenitore, presi quest’ultimo e vi bevvi a canna.
«Sei un maiale, Glauco». Esclamò Milena. La guardai con aria interrogativa e ruttai sottovoce.
«Bene Ruggero, quel che dovevi riferirmi l’hai fatto, ora scusami che esco dal bar a sgranchirmi». Avevo bisogno di riflettere, uscii e inarcai la schiena. Il tempo non era male, il sole correva via di fretta ma la serata era fresca e calda, a seconda di come la si interpretava.
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