“La morte del padre” è il primo dei sei romanzi che compongono l’opera autobiografica di Karl Ove Knausgård intitolata “La mia battaglia” e pubblicata in Italia da Feltrinelli. Ho letto il libro fino alla pagina 69. Per finirlo sarei dovuta arrivare alla 505, ma non ne ho sentito il bisogno: avevo già la mia idea.
Forse avrei dovuto saperlo – e qui confesso: non mi piacciono quasi mai i romanzi molto lunghi. Per me è quasi garantito che siano romanzi troppo lunghi, di una lunghezza, cioè, non giustificata. Mi chiedo cosa ci sia da raccontare in tutte quelle pagine. Che cosa ci sia mai da non poterne fare a meno. Però ogni tanto ci provo lo stesso, e con Karl ci ho provato. Ed, ecco, se dovessi dire una cosa, se dovessi scegliere un solo motivo per cui questo romanzo è troppo lungo, direi: gli elenchi. Gli elenchi sono il motivo per cui durante la lettura pensavo beh, questo potevi anche non raccontarlo; beh, di questo potevi anche farne a meno.
Eppure io amo le liste: comprerei libri e libri solo fatti di liste (come la stupenda Enciclopedia capricciosa di tutto e di niente di Charles Dantzig). Sostengo che la lista sia un’eccezionale forma narrativa, al pari del racconto e del romanzo. Ma non credo bisognerebbe usarla come modalità narrativa.
È quello che fa Knausgård per costruire ogni pezzo del suo “La morte del padre”. Usa la modalità lista già dall’inizio della storia, quando vuole descrivere un cuore che smette di battere e cerca un effetto ossessivo per farlo:
Niente può fermare gli enormi sciami di batteri che cominciano a diffondersi all’interno del corpo. […] Penetrano sempre più profondamente in tutto quell’umido, in tutta quella oscurità. Raggiungono i canali di Havers, le cripte di Lieberkühn, le isole di Langerhans. Raggiungono la capsula di Bowman del Rene, la colonna di Clarke del Midollo Spinale, la substantia nigra del Mesencefalo. E raggiungono il cuore.
pag 11
lo stesso effetto che cerca di ottenere per descrivere la separazione tra la vita e la morte:
Nell’attimo stesso in cui la vita abbandona il corpo, il corpo appartiene al mondo dei morti e degli esseri inanimati. Le lampade, le valigie, i tappeti, le maniglie delle porte, le finestre. I campi, le paludi, i ruscelli, le montagne, le nuvole, il cielo. Niente di tutto questo ci è estraneo e sconosciuto.
pag 12
E poi subito dopo crea una lista d’immagini, ancora riguardo la morte, perché vuole dimostrare quanto possa rivelarsi un evento scenico:
Un padre e suo figlio vengono uccisi nel momento in cui il padre cerca di mettere in salvo il figlio durante uno scontro a fuoco in atto in una qualche città del Medio Oriente, e l’immagine che li ritrae avvinghiati l’uno all’altro […]
Una discesista cade, provocandosi la rottura dell’arteria femorale, il sangue che scorre a fiotti, lascia alle sue spalle una scia rossa sul pendio bianco […]
Un aereo decolla, mentre prende quota le fiamme divampano dalle ali, il cielo sopra le case della periferia è azzurro […]
Una sera un peschereccio affonda al largo della costa settentrionale norvegese, l’equipaggio composto di sette uomini annega […] mostrano le immagini del mare deserto […]
pag 15 -16
A un certo punto questa prima parte, più filosofica, si conclude; ma Karl va avanti con la modalità narrativa della lista e la usa per creare l’ambientazione della storia:
Si sentiva l’odore, simile a quello della polvere da sparo, della roccia che mio padre stava spaccando, di pino proveniente dai ciocchi di legna posti dietro il muretto di pietra, di terra appena smossa, di bosco, e nella leggera brezza che soffiava da nord di aroma di sale.
I più grandi facevano capannello con le loro biciclette […] I più piccoli giocavano a calciare il barattolo. Quelli che erano stati catturati stavano dentro un cerchio disegnato con il gesso sul marciapiede, gli altri erano acquattati nel bosco […]
Pile di barattoli di vernice, contenitori di vetro colmi di pennelli, ciocchi di legna da ardere, resti di assi, teli impermeabili ripiegati, pneumatici, il telaio di una bicicletta, alcune cassette porta attrezzi, scatole di chiodi e viti di ogni tipo e misura, contenitori per piantine riempiti con cartoni del latte da cui spuntavano fiori appena germogliati, sacchi di calce, un tubo per innaffiare attorcigliato e appoggiato alla parete, un pannello su cui si stagliavano tutti gli attrezzi possibili e immaginabili […]
pag 21 /23
E continuando a leggere non è che un infinito ripetersi di questa modalità declinata in svariati modi e qui allora bisogna dire che non succede certo per caso, è una scelta orchestrata: la conseguenza del tipo di visione che ha il protagonista/autore sulle cose: le guarda, le registra, le racconta.
Ovviamente provavo repulsione anche per il pollack bollito, il merluzzo nero bollito, l’aringa bollita, la sogliola bollita, lo sgombro bollito e lo scorfano bollito.
[…] spensi la luce per rimanere ad ascoltare al buio i rumori che produceva: la portiera che veniva richiusa, i passi sulla ghiaia, la porta d’ingresso che si apriva, il giaccone che veniva tolto, i passi sulle scale… […]
Ramazzo i pavimenti, faccio il bucato, preparo la cena, lavo i piatti, faccio la spesa, gioco con i bambini al parco, li riporto a casa, li svesto, gli faccio il bagno, sto con loro fino a quando non è venuta l’ora di andare a dormire, li metto a letto, stendo i panni ad asciugare, li piego e li ripongo nell’armadio, metto a posto, sparecchio, pulisco le sedie e rassetto la cucina.
C’era poco traffico, sfrecciammo attraverso Solsletta, Ryensletta, proseguendo lungo la spiaggia di Hamresanden, attraversammo il bosco in direzione di Timenes, sbucammo sulla E18, superammo il ponte di Varoddbrua, passammo davanti al liceo a Gimle prima di entrare in città.
Knausgård non è certo a corto di idee e per non mancare di figure retoriche che siano in perfetto accordo con la modalità lista in un paio di punti arrivano anche le anafore:
So che la finestra delle scale doveva essere così buia da riflettere l’immagine nel corridoio. So che la porta della stanza di Yngve doveva essere chiusa […] So che il mazzo di chiavi della mamma doveva trovarsi sparpagliato sul tavolo […] So che il vaso di ceramica […]
pag 35
C’era Monica, i cui genitori erano ebrei ungheresi […] C’era Hanne, una bella ragazza del quartiere di Vågsbygd […] C’era Siv, bionda, abbronzata e longilinea […] C’era Benedicte, dai lineamenti del viso affilati […] C’era Tone, dalle movenze così graziose […] C’era Anne, che aveva l’apparecchio ai denti […] C’era Hilde, con i capelli biondi e rubiconda […] c’era Irene, il punto di riferimento delle ragazze […] c’era Nina, dalla costituzione robusta e molto mascolina […] C’era Mette, piccola, ossuta e intrigante […]
pag 60-61
La modalità lista guida la narrazione anche in un punto classicamente tragicomico, come quello in cui il protagonista immagina di scrivere il proprio epitaffio. Ci sono molte motivazioni per cui s’inserisce una cosa del genere in un romanzo e di solito hanno a che fare con la volontà di trasmettere un senso d’ironia malinconica, un abbandono a quello che comunque succederà e su cui, però, potremmo almeno poter dire qualcosa.
Dunque io penso che Knausgård abbia perso l’occasione di dire qualcosa di cui non si può fare a meno, perché troppo concentrato a raccontare cos’ha registrato e visto, cosa gli è venuto in mente – senza passare per quella legge narrativa che si chiama selezione e che dovrebbe sempre guidare la scrittura, in special caso se ci si azzarda a parlare di morte.
Presto avrò quarant’anni, e quando ne avrò quaranta, presto diventeranno cinquanta. Quando ne avrò cinquanta, presto diventeranno sessanta. Quando ne avrò sessanta, presto diventeranno settanta. E poi sarà finita. Il mio epitaffio potrebbe suonare così: Qui riposa uno che imperterrito ha resistito. Alla fine proprio per questo è rimasto stecchito.
O magari:
Qui riposa un uomo che accondiscendente si mostrò e che metà della sua vita inutilmente sciupò […]
O piuttosto:
Qui riposa uno scrittore, un brav’uomo in verità […]
Ma se mi restassero ancora trent’anni di vita, non è scontato che rimarrei lo stesso. Qualcosa quindi di questo tipo?
Da parte di tutti noi, Nostro Signore […]
O forse, se sono fortunato, qualcosa di un po’ meno personale?
Qui riposano un uomo che a letto fumò
e sua moglie, che con lui nell’incendio bruciò […]
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