la verità vi prego
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La verità vi prego: la tua storia non è un trattato di sociologia

“La verità, vi prego” è la posta del cuore della scrittura: inviami un tuo racconto o il primo capitolo del tuo romanzo e ti scriverò una lettera di valutazione franca, pubblica e gratuita. Per sapere come funziona leggi qui.

La lettera di oggi è per Antonio Pecoraro e il suo racconto “Domenica di resurrezione”.

Chi è Antonio Pecoraro:
La letteratura, la musica, il cinema, tre passioni che sono
una presa di corrente che alternativamente collego e scollego.
Questa raccolta di miei scritti è un filo che collega alla
presa nel muro: la corrente generata proviene dalla centrale del sangue:
i miei studi – letture ricercate nel profondo – mai che facessero dormire;
comporre pezzi su chitarra e pianoforte; una fotografia o un video;
buttare giù pezzi per giornali.

Caro Antonio,

il tuo racconto ha un titolo così evocativo che prima ancora di leggerlo il livello dell’aspettativa si alza solo per quella parola che c’è dentro: resurrezione.  Ci hai pensato, quando lo hai deciso, che sarebbe successo? Che avresti dovuto tenere testa a grosse aspettative? La tua scelta potrebbe sembrare indovinata, perché in effetti è questo che un racconto dovrebbe fare: condurre un personaggio a vivere uno stato di cose che prima non c’era, che prima era in un altro modo; creare una piccola trasformazione. In un certo senso, ogni piccolo gesto, ogni parola e ogni evento che si decide d’inserire in una narrazione, dovrebbe avere, o almeno avviare, un movimento che abbia il carattere di una rinascita.

L’Armando del tuo racconto ci prova in diversi punti a “risorgere”, ad avviare questo movimento verso il cambiamento, ma ogni volta si ferma prima di cominciare, e dunque non riesce a narrarsi, solo, un po’, a descriversi. Dice che “ruba parole alla sua nuova lingua, ma le ruba anche alla sua lingua-madre, con quel poco di memoria che gli è rimasta” così sappiamo che è straniero nel luogo dove abita, e che forse è vecchio, o è arrivato troppo giovane. Dice che “è già ubriaco dal tardo mattino, vuole altra birra per la sua gola arsa” così capiamo che ha un’infelicità che lo spinge a bere, e che quello che beve non gli basta mai. Poi sappiamo che viene dal Marocco, che è arrivato in Italia 15 anni fa e che da allora zappa la terra per i caporali. Sappiamo che ha frequentato un corso di lingua italiana per stranieri organizzato dalla parrocchia e che lì ha conosciuto Halina, che è ucraina e non sopporta gli uomini che bevono.

Quello che non sappiamo, e non sapremo fino alla fine, è perché mai Armando abbia litigato con il suo amico italiano, che si chiama Armando anche lui:

“In questo dopo pranzo di Pasqua i fumi dell’alcool andarono in testa, gli umori erano diventati turbolenti. I due Armandi tra un bicchiere e l’altro iniziarono ad appiccicarsi dapprima con le parole grosse e poi con gli spintoni, erano amici, ma si sa, l’amicizia con l’alcool fa a botte pure lei spesso e volentieri. “Tu sì nù marrucchino e nù parlà”, non devi parlare, sosteneva l’Armantaliano; “io nun so fesso” rispondeva il maghrebino. Una lite senza ragione e alquanto sterile.”

E non riusciamo a capire cosa sia successo con Halina, seppure ci sembrava di stare dalla sua parte quando l’abbiamo incontrata:

“Lei i suoi ubriaconi li ha lasciati alle porte della lontana Poltava da un bel po’ e non ha intenzione di incontrarne più.”

e siamo stati  contenti quando abbiamo letto:

“Halina era da poco arrivata in Italia si sentiva spaesata in mezzo a tutta quella gente; Armando era gentile e dolce con lei, gli offriva da bere come un cavaliere alla sua dama, in qualunque caso mai si sognava… Così Halina gli regalò dieci minuti di amore rubato dietro alla canonica in penombra.”

e allora non possiamo accontentarci, subito dopo, di sapere solo che:

“I giorni seguenti Halina capì che se avesse regalato quei momenti d’amore, rubati e nascosti, agli Italiani, avrebbe avuto un futuro migliore.”

perché vorremmo anche noi sentire il cuore spaccarsi a “spicchi come un mandarino” come succede ad Armando, ma non possiamo se tu non ci racconti cosa sta succedendo.

Lo stile discontinuo, frammentario, che tu usi, potrebbe andar bene se fosse immaginato per dare una certa visione di quello che racconti, ma non va bene se la tua visione non è chiara. Ti faccio un esempio. Mettiamo che il tuo racconto è una stanza e io lettore sono quello che la vuole abitare; mi pianto lì all’ingresso della porta per guardarla: tu accendi la luce e io la vedo. Poi però la spegni e io per un attimo non la vedo più. Quello che deve succedere, quando tu riaccendi la luce, è che io la veda di nuovo. Dev’essere sempre lì, sempre quella stanza, solo che nei momenti di buio mi perdo qualcosa, e va bene che me la perdi, basta che poi, però, quando torna la luce, io ritrovi sempre la stessa stanza, sempre con le stesse cose dentro; anche se nel frattempo è un po’ cambiata, perché tu ti sei mosso, hai spostato qualcosa – e magari qualcosa ti è caduta a terra, e hai sporcato.

Ma tu qui sei scoordinato, confuso, e mescoli i tempi verbali, e mescoli  lo spazio-tempo dell’azione, ti perdi dietro le frasi-sentenza “un sud fin troppo dimenticato dai palazzi del potere”; “prima portavano i marchi adesso portano gli euri con la porta di Brandeburgo sopra”; “Armando zappava i pomodori sotto la serra del suo padrone”; “ma in questo cazzo di paese chi si salverà?” e non ti accorgi che l’unica cosa che importa è la storia, la specifica storia di Armando: quello che gli è successo con il suo amico italiano Armando anche lui, quello che gli è successo con il suo amore Halina; non ci fai caso fino al punto da perderli di vista e scrivere un finale in cui in poche righe appare uno che suona l’heavy metal, che si chiama Santino ed è il figlio di Concetta, e che con la storia di Armando non c’entrerà niente, anche perché poi Armando va in coma etilico, resta in ospedale per quattro settimane, e poi nulla, torna alla sua vita. (Se tu volessi davvero chiudere il cerchio, dovrebbe almeno tornare nello stesso posto in cui si trovava all’inizio).

E c’è un’altra cosa che lasci in sospeso, e che invece potrebbe aiutarti a trovare un senso intimo alla tua narrazione: la questione dei nomi. Gli Armando che si chiamano uguale prima di tutto; e anche gli stranieri che si ritrovano nomi completamenti diversi dai loro, che gli “autoctoni” gli affibbiano per assonanza, per semplicità, per strafottenza. Ma senza farci sociologia, non è quella il tuo campo, se vuoi raccontare una storia: tu devi solo prendere Halina, prendere l’uomo dell’autobus, prendere la vecchietta che ha bisogno della badante e mettere in scena il cambio d’identità di Halina: raccontare come diventa Anna. Attraverso azioni concrete, cose che succedono, cose in cui Armando sia protagonista. Non parole.

Un caro saluto,
Francesca de Lena

Domenica di resurrezione

Domenica di Pasqua. Resurrezione del Signore.
Primo pomeriggio afoso di un giorno di sole cocente, agnelli divorati e dolci con grano cotto. Un borgo agricolo e rurale di un sud fin troppo dimenticato dai palazzi del potere. Una chiesa, una scuola, bar ancora chiusi per orari festivi, piazza semideserta. Qualche cane randagio a far compagnia alle prime cicale con le ugole fresche di stagione. C’è qualcuno che rompe il muro del silenzio sotto gli occhi distratti del sole. Forse riposava pure lui, accoccolato sul divano del cielo. Armando grida parole rubate alla sua nuova lingua, ma le ruba anche alla sua lingua -madre con quel poco di memoria che gli è rimasta. Parole biascicate tra l’aria calda del basolato e l’aria frastornata dell’unico cane randagio come spettatore, Barone, che fino a qualche istante prima si godeva la siesta sotto un maestoso pino: “ Llà sciaallà! Ratémè nà béirra!! À Maronna cà nù va’ appìccia! “.
Armando è già ubriaco dal tardo mattino, vuole altra birra per la sua gola arsa. Oggi il pranzo era speciale: ha mangiato l’agnello come piace a lui; oggi è stato invitato a pranzo da Armando, un Italiano con la pelle scura più vecchio di lui, che gli è tanto amico e compagno di sbronze e tanto gli somiglia non soltanto per la pigmentazione. Sinforosa, la moglie di Armando l’Italiano, ha cucinato l’agnello con le patate, il tutto rosolato al forno e innaffiato con un vino rosso degli Alburni che è il fiore all’occhiello della produzione dell’Armando Taliano. Prima dell’agnello si sono fatti un piatto di maccaruni spezzati col sugo di castrato. La carne ovina: sapori e odori che Armando riconosce. Armando è un montagnaro, fin da piccolo pascolava il gregge: proviene dall’Atlante Sahariano del Marocco, dal suo villaggio sull’altopiano guarda il monte Chelia che è alto più di 2000 metri, perciò nella Piana non sopporta il caldo afoso delle serre. Sembra un paradosso: un africano che non sopporta il caldo del meridione Italiano. “Qui è più Africa del nostro Marocco” diceva ai compagni nelle pause del lavoro, asciugandosi il sudore col berretto a visiera che lo proteggeva dai raggi solari.
Armando è il nome che gli autoctoni di questa parte del sudditalia gli hanno affibbiato perché lui, in effetti, nel suo paese e sulla carta d’identità ha un altro nome: Ahmad che è quello che sua madre e suo padre avevano scelto per lui. Il nome nei paesi arabi è qualcosa di sacro guai a cambiarselo. Però in una migrazione forzata, volontaria ma sempre indotta dal bisogno di lavoro, può capitare questo ed altro. Sennò passare il mediterraneo su una carretta che fa acqua da tutte le parti uno ci pensa due volte. In Italia trovò subito dei caporali che gli semplificarono il nome: Ahmad? Armando! E poi si sa, c’è una specie di repulsione da parte dei caporali di pronunciare il nome di uno straniero che proviene da un paese più povero del nostro. Perché, poi, gli stessi caporali, agli stranieri della spiaggia, quelli ricchi, non si sogneranno mai di italianizzargli il nome o pronunciarli male. Così Kurt è e rimane Kurt, finanche l’impronunciabile Wolfgang rimane col nome d’origine, semmai viene ritoccato in italico – germanese: Worfgango! Ma questi si sa, sono stranieri ricchi vengono dalla Doiclandia, prima portavano i Marchi adesso portano gli euri con la porta di Brandeburgo sopra.
Nella piana del mais e delle serre invece Mustafa diventa Stefano, Mohamed diventa Mario, Abdul diventa Bruno, Jamal, Giacumino, e così via. Finanche le braccianti e badanti dell’Est non si salvano ed ecco un esercito di donne biondissime con gli occhi verdi che si chiamano tutte Maria, Anna, Angela, Halina-Rina e Greta-Grazielle. Il nome, l’unica certezza di rimanere aggrappati alle proprie radici. In questo cazzo di paese chi si salverà?

2 Comments

  1. Transit says

    Stong’ facenno ‘o paro e ‘o spar’, mi butto o non mi butto, un po’ come quella canzone di anni fa di Rocky Roberts, nel senso di scegliere se scriverti o meno. Da domenica scorsa a oggi sono passati quasi tre giorni ed ora eccomi qua. Ho avuto notizie del tuo blog, che prima non conoscevo, domenica scorsa nelle pagine dei libri di la Repubblica, nella rubrica curata da Loredana Lipperini. Ho bussato alla porta del tuo blog e mi è e stato aperto. Trovo la tua iniziativa interessante, perché coinvolge l’autore/gli autori che ti spediscono un racconto e altro e chi come te deve dare un giudizio complessivo, ragionato e critico. E poi ci sono i lettori fissi o di passaggio che possono entrare nel merito e prendere l’iniziativa scrivendo a loro volta. Al di là della bravura degli scrittori e la bontà dei loro racconti, trovo interessante il fatto che si possa intervenire e discutere. Circa un anno fa ho scritto un racconto, poi lasciato decantare in attesa dell’editing finale, sul cane di mia figlia che poi è diventato il cane di famiglia ma più ancora il mio cane. Nel mio piccolo orticello ho il vizio di leggere e scrivere, però ho anche il vizio di non completare le cose che scrivo. So che è una cosa a cui dovrei porre rimedio con tutte le mie forze. E in parte ci sono riuscito. Ma però(ma però non si dice ma però)vuoi o non vuoi pure i palazzi sgarrupati, e recintati – quann’ero guagliunciello, insieme agli altri della banda dei piedi neri, ci andavo per giocare e in cerca di fantasmi e delle nostre paure – , tengono il loro fascino inquietante.

    Non ricordo chi mi disse che è il cane che all’interno di un nucleo famigliare o umano sceglie il suo “padrone”. Nella mia famiglia evidentemente Lello ha scelto me. Il mio cane prima di chiamarsi Lello si chiamava Lilo, questo il nome che scelse per lui nostra figlia Francesca. Siamo stato noi poi che sentita l’inconsistenza del nome Lilo perché con la ultima l davvero deboluccio, per cui l’abbiamo rafforzata con l’aggiunta di un altra l e chiamandolo appunto Lello. Insomma Lilo era una specie di assaggio e basta. Praticamente al salatino abbiamo preferito ‘nu tarallo ‘nzogna e pepe e ‘na fella ‘e pane cu meza cucchiarella di raù ‘ncopp’. Oppure ‘na pizza fritta addù Starita o addè figliola ai Tribunali. Da allora Lilo pe’ nuje d’a famiglia è Lello.

    Doppo tutto stu paraustiello chiammate ad alta voce, comme si stesso annanzo a vuje, Lilo e Lello e dicite chi ve jenc’a vocca e vi da più soddisfazione. Insomma, ‘n’aperitivo, per esempio ‘nu Martini bianco, nun te basta solo ‘nu surzillo ma tutto chello ca ce stà dint’o bicciere, compreso fella ‘e limona e ‘o cubetto ‘e ghiaccio.

    Ecco, se mi decido, te vulesse mannà, sempre col tuo permesso, ‘o racconto di Lello, tra l’altro devi sapere che Lello è ‘nu cane dell’est Europa e tene ‘nu difetto ca nuje avimmo pensato che l’orine è nel trauma cha isso ha subito quanno è stato trasportato, nzieme a na mappatella e ati canilli, dall’Ungheria fino alla Terra dei Fuochi o come invece la chiamo io Terra d’e Gobbe e Gubbetelle.

    Un’altra cosa che trovo positiva e che tu sei un editor napulitan’. Chesto pecché se io scrivo mmiscanno italiano, non certo quello letterario dei nostri grandi scrittori italiani, purtroppo per mia incapacità, ma quello parlato, e ‘o napulitan’, tu fai al caso mio per uno scambio di idee. Ciò che invece vorrei sottoporre al tuo giudizio critico e di merito e anche tecnico è un manoscritto, adesso ricopiato al computer, a cui lavoro da circa vent’anni. Questo perché è materiale di stratificazioni e di memoria. Il protagonista e voce narrante è Guaglione. Al 95% il lavoro è completato anche se poi aggiungo sempre delle altre cose. Ecco, devo mettere la parola fine, ieri ne ho pensata una frase finale, perché pochi giorni fa ho scritto un altro incipit, e quindi, anche se i capitoli sono formati, bisogna fare una revisione, tagliare e aggiungere qua e là. E tu sai meglio di me che un lettore esterno riesce a vedere più freddamente rispetto all’autore. Ma ci sono anche altre questioni che vorrei sottoporti e confrontarmi. Per esempio se adottare un linguaggio misto tra italiano o dialetto o solo in italiano, in modo da giungere a tutti i lettori non della nostra regione. E poi il titolo da dare al libro. In testa e trascritti ne ho tre. Tra cui ‘O Guaglione. Gli altri due te li sottoporrò semmai in un e mail oppure a voce tramite telefono. E poi, ammesso e non concesso che da solo o con la tua supervisione di editing, finito il lavoro e la possibilità di pubblicare tramite un editore o attraverso qualche piattaforma digitale, davvero mi decidessi a dare il mio consenso. E’ un libro che vorrei, ammesso che avesse davvero da dire qualcosa, si pubblicasse dopo la mia morte. Questo perché so che se mi pubblicassero o mi autopubblicassi, al cento per cento, il primo giorno che mandano il libro in libreria muoio sul colpo. E, in verità vi dico: stù fatto ca mor’ overamente nun me piace.

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