Ecco il primo capitolo del romanzo “Preghiera debole” di Ivano Porpora che ha partecipato alla rubrica la verità, vi prego.
Per leggere la mia lettera di valutazione clicca qui.
Preghiera debole
martedì 9 dicembre 2008. Due giorni dopo.
Mi trema ancora la mano.
Quando appoggio la testa al cuscino, il cuscino mi sembra una pietra. Ho il volto segnato e smunto e sento una sensazione spiacevole per tutto il corpo, un brivido che mi rammenta quello che deve aver provato il condannato alla ghigliottina appoggiando la testa ai legni. In giro per l’argine si affollano luci di torce che si incrociano ogni tanto, a raddoppiare la loro intensità come se fossero riflettori di uno spettacolo; sento qualcuno che chiama, qualcuno che urla, cani disorganizzati; ho dovuto chiudere le imposte e controllare più volte che nemmeno uno spiraglio lasciasse passare qualcosa. Ho in cantina cibo a sufficienza per almeno un paio di settimane, e questo mi conforta un po’. Non ho fame: ho mangiato riso bianco qualche ora fa, ma continua a salirmi in gola. Il fuoco mi arde la faccia, rischiarando il volto e scaldando le parti del corpo esposte; tutto il resto, come nel casolare che ho occupato e come il panorama della golena intorno, piano che pare di vedere quasi la rotondità del mondo, risente del dicembre e del gelo, di insetti addormentati nei campi, di qualche isolata bestia che a debita distanza cerca di capire chi sia, perché sia lì, cosa sia questa musica. Le mie mani tremano; i pantaloni hanno una traccia sfondata. Lontano, rumore di treni – ma non ci sono treni a Viadana, solo un vagone senza rotaie nell’erba, un treno che una volta viaggiava e ora sta in un giardino; mi ricordo che a lei piaceva essere accompagnata alla stazione, vedere i volti della gente che sta e di quella che va.
“C’è un istante”, mi aveva detto, “in cui i due volti si scollano. In quell’istante, Romolo, vedi tutto. Nell’istante in cui le persone si sono voltate e fanno per andare, una al treno, l’altra a casa, vedi la loro anima. E daranno di tutto perché l’altro non la veda mai, quell’espressione”.
“Perché non vorresti che io vedessi la tua?” le avevo chiesto.
“Perché la tua espressione potrebbe essere diversa da quella che vorrei”.
“Che espressione vorresti da me?” le avevo chiesto ancora, grattandomi una crosta intorno al gomito che non m’ha mai abbandonato.
“Pietà” aveva sussurrato lei. Io quel Pietà non l’avevo sentito: solo catturato dalle labbra di lei.
Mi tremano ancora le mani, sporche di sangue. Sotto le unghie sangue; sangue che ho raspato dalle mie croste, poco fa, e che ora è invece sangue altrui, sangue che non appartiene più a un corpo quanto il suono di un megafono non esiste più nel momento in cui non c’è una voce a dargli voce.
L’amore, mi diceva Margherita, è un verbo che chiede soggetti e oggetti. Ma tutti abbiamo un punto di rottura. Tutti abbiamo un meccanismo che sembra tenere, fatto di acciai cromati e leve, guarnizioni, frizioni, olii. Poi arriva un corpo estraneo e il meccanismo, perfetto per sua natura, salta. Margherita, prima di saltare, probabilmente pensava solo Tu; il fazzoletto con la M ricamata a terra.
Cosa può pensare un meccanismo rotto? Forse il meccanismo rotto pensa la stessa cosa del meccanismo che va a rompere. E allora mentre mi addormento, conscio che nessun sonno sarà mai più uguale ai sonni di prima, ricordo i Tu di lei che riverberano nei Tu miei.
“Chi va a prendere la birra?”.
“Tu”.
“No, tu!”.
“No, tu!”.
Quelli di lei a chiedere, quelli miei a dire.
Il paese si dimenticherà di lei, dei suoi, di me. I tempi passeranno, le foglie che erano state foglie andranno a terra e diventeranno concime per nuovi pioppi, per nuove foglie, e questi animali che fuori sembrano cantare solo per me torneranno a terra. Perfino questi muri che ora mi circondano saranno mangiati presto o tardi dall’umidità e usurati dal tempo, e resteranno rovine avvinte dalle radici o superate dalle rampicanti.
Intanto, però, dormo. E mentre mi addormento mi trema ancora la mano.
Questo quaderno racconta dell’amore mio per Margherita, che è la cosa che mi ha reso per un certo periodo di tempo felice. Quel tempo, quei settantotto giorni con Margherita, io lo ricordo come un tempo in cui una pianta, che sono io, ha stretto le sue radici forti intorno a un’altra pianta, che è lei. Poi la pianta grande ha soffocato la pianta piccola, e il monatto che sono io non ha nemmeno avuto le forze di caricare sul proprio carro la vittima non della peste ma sua, e portarla via. La mia inettitudine non mi ha impedito di vedere la diversa stazza delle due piante – piccolo io, grande lei – né la diversa fragilità delle due piante, o la qualità delle fragilità. Io di questo periodo di tempo, di questi settantotto giorni non ringrazierò abbastanza il cielo. Il fatto che a questo periodo di tempo di felicità sia succeduta l’infelicità non è cosa ascrivibile al cielo ma a me, che sono un inetto.
E allora piango, e il mio piangere diventa il pianto di un salice piangente, le cui foglie si riversano tutte a terra e della cui ombra nessun bambino potrà mai godere.
Piango pensando a quello che ho fatto; a quello che non ho fatto. Dio, se esiste un Dio in cielo, quello che ho fatto e quello che non ho fatto lo sa – e non c’è punizione paragonabile a quel suo sguardo. Piango pensando alla mia preghiera, che mille volte mi ha aiutato quando ero piccolo e ora non ha aiutato altri da me.