La verità, vi prego – “Un’ombra nella nebbia”

Ecco il racconto “Un’ombra nella nebbia” di Massimo Concu che ha partecipato alla rubrica la verità, vi prego.
Per leggere la mia lettera di valutazione clicca qui.

 

La mezzanotte era trascorsa da un pezzo. La nebbia avanzava nelle strade di San Francisco. Il detective privato Sam Bogart varcò la soglia del Blue Dahlia. La luce, che pioveva dall’alto, scolpiva l’orchestra sul palco. Gli spettatori, ai tavolini, scomparivano nella restante oscurità. Il fumo aleggiava ovunque. L’uomo pensò che la nebbia fosse penetrata dalle fessure. Billie Holliday cantava Riffin’ the scotch. L’aveva incisa dieci anni prima, con Benny Goodman, senza successo; ma non l’abbandonò, i fan dovevano amarla, per questo continuava a proporla. L’intensità della esecuzione la rese una delle più richieste del repertorio. Non avrebbe riservato alla canzone il trattamento dei genitori con lei. Nel ’33 non era nessuno, ora la chiamavano The Lady ed era famosa. Bogart sostò davanti alla porta per accendersi una sigaretta. Tirò una lunga boccata e prestò attenzione alla sua voce. Gli arrivava nell’animo come una carezza di velluto. Nessuna sapeva essere così sentimentale. Una volta, dopo uno spettacolo, gli parlò della sua vita. Raccontò dei genitori adolescenti che l’abbandonarono, della solitudine, dello stupro a subito a dieci anni, della prostituzione e della galera. Lui, invece, avrebbe voluto sfogarsi per una donna che lo aveva lasciato. Il senso del ridicolo lo convinse a desistere. Aveva davanti una bambina cresciuta troppo in fretta. Lo commuoveva, anche se non lo avrebbe mai dato a vedere. Nel suo lavoro la tenerezza era un lusso che non si poteva permettere. Lo avevano capito in tante, per ultima Ilsa la sua compagna. A rientro dal lavoro gli ripeteva che il mestiere lo doveva appendere all’attaccapanni con l’impermeabile. Ma non c’era verso di cambiarlo. Così se ne andò. Gli lasciò un biglietto dove scrisse che si era stufata di amare un vestito e non un uomo. A Bogart mancavano i modi, mancava il tempo, a volte anche i soldi. Da quella sera aveva perso pure lei. Il testo della canzone raccontava di un amore perduto e di un altro che bruciava. Nel suo caso le cose coincidevano. Piegò la bocca verso il basso con un ghigno sarcastico. Era il momento adatto per sbronzarsi. Il bar stava sull’altro capo della sala. Lo raggiunse e si sedette in fondo al bancone. Non voleva disturbare ed essere disturbato. Victor, il barista, si avvicinò. Lo conosceva bene e intuì. Fu laconico nel salutarlo, chiese se volesse il solito. Lui rispose doppio e lasciasse pure la bottiglia. Alle sue spalle, la canzone era finita. Lo scrosciare dell’applauso gli arrivò come una frustata. Quella sera avvertiva tutto moltiplicato. Funzionava al contrario. Quando arginava i solchi profondi della malinconia la superficie rimaneva esposta. Ci avrebbe pensato il cognac a lenire i sensi. Il primo bicchiere scese d’un fiato, giusto per ricordare il motivo del suo ingresso. Il secondo seguì la stessa sorte, per rafforzarlo. Il terzo volle assaporarlo con calma. Al quarto già scordava perché fosse entrato. Intanto, Billie Holiday aveva attaccato con Embraceable you. Bogart però non se n’era accorto, andava perdendosi in altri flussi. L’alcool gli scorreva dentro come un fiume. Lo allontanava dalla realtà, trascinandolo verso un onnivoro cuore di tenebra.
Doveva essere dannatamente vero, perché Bogart si sentiva chiamare. Forse era arrivato a destinazione e il nulla lo reclamava a sé. Aprì gli occhi e sembrò che possedesse le vaghe sembianze di Victor. Non ne fu sorpreso. Era così che lo immaginava, come il mondo quotidiano ma con la consapevolezza di esserci. Perché, nel mondo reale, non sempre lo era. Ritrovò quanto aveva lasciato: il bancone dove perse coscienza, la sala in cui Billie cantava, lei stessa che lo guardava compassionevole. Se c’erano anche gli angeli allora ne poteva valere la pena. Victor gli scrollò la spalla, disse che dovevano chiudere. Solo allora il detective si rese conto di essere sprofondato in un grande sonno. Anche se intorpidito sentì una botta allo stomaco. Brutto segno, ricominciava. Bofonchiò delle scuse e si alzò, dirigendosi all’uscita. La cantante gli offrì un passaggio. Lui la ringraziò, ma preferiva rientrare a piedi.
L’uomo si affacciò in strada. Riusciva appena a intuire la città. La nebbia l’aveva soffocata nella suo abbraccio impalpabile. Sembrava si fosse preso anche il tempo. Bogart non aveva la più pallida idea dell’ora che si era fatta. Non portava l’orologio quando si sbronzava. Un brivido al collo lo indusse ad abbottonarsi l’impermeabile. L’umidità penetrava come un ricordo sgradevole. Strinse la cinghia ai fianchi e tirò su il bavero. Quindi si avviò verso casa. In qualche modo sarebbe riuscito a trovarla. Procedeva a passo incerto. L’alcool gli aveva rammollito le gambe. A poco a poco la sua figura si dissolse nella condensa. Sperando che il nulla, che lo circondava, lo volesse davvero con sé.

4 Comments

  1. Pingback: La verità, vi prego: “Un’ombra nella nebbia” di Massimo Concu | I libri degli altri

  2. massimo concu says

    Direi che non ci siamo proprio. O, forse, ci siamo completamente. Non è che le influenze cinematografiche siano evidenti: sono dichiarate fin dall’inizio. Inoltre sai bene in che contesto il racconto è inserito. Se fai del noir ambientato negli anni ’40 il cinema è imprescindibile. Il travaso fra esso e la letteratura era continuo. Sarà mica questo il motivo per cui, quel racconto, ha quella impostazione? Poni molte domande, ma manca l’unica che avrebbe avuto risposta. Se si può fare del cinema con la letteratura, perché non fare letteratura col cinema? La tua critica è la conferma, nella forma rovesciata, che ci sono riuscito. I superlativi, che usi, sono troppa grazia. Ma li accetto volentieri. Il racconto procede secondo il loro accumulo. E’ un artificio retorico che ho ritenuto necessario nella narrazione svolta. Non volevo reinventare nulla, perché, se utilizzo quegli elementi, c’è poco da reinventare. Ho dato loro vitalità nel tempo necessario alla lettura. Il tuo no suona come si. Quindi si: il motivo mi era super chiaro. Io, che sono modesto, mi sarei limitato ad affermare che era chiaro. Ma visto che lo scrivi tu …
    Sulle domande che poni, direi che si può proseguire oltre. Addirittura chiedersi perché San Francisco! Via di questo passo uno si potrebbe interrogare sulla marca di sigarette o della brillantina (per fortuna il mio personaggio non l’usa, ma ti giuro che volevo farlo). Via di questo passo uno non uscirebbe mai di casa.
    Le quindici righe occupate dalla Holliday possono essere poche, molte, giuste, dipende dall’uso che se ne fa. Definirle moltissime su settanta mi sembra una esagerazione dovuta al taglio critico che hai dato. Soprattutto è sbagliato. Perché c’è interazione fra i due, in quanto i problemi del protagonista sono posti davanti alle grandi tragedie della vita, che lei esprime, ma anche perché le due canzoni che cito hanno i testi che rimandano alla situazione sentimentale del protagonista. Lo scavo sulla sua figura c’è, in questo caso. Non l’hai colto, mi sembra. E’ ermetismo? Evidentemente no, visto che va a confluire verso l’abbandono da parte della donna (A proposito, anche il nome Ilsa ha una sua spiegazione cinematografica). Per cui quello che si racconta qui è la storia di una rottura sentimentale e di una solitudine, individuata da elementi concreti e ambientali. Chiedi cosa succede al “mio”, come lo definisci, Sam? Ce l’hai sotto gli occhi. E’ stato appena abbandonato e va ad affogare il dolore nell’alcool. Da cosa si capisce che la rottura è fresca? Dal fatto che “quella sera avvertiva tutto moltiplicato” Chi è il “mio” personaggio? Uno che non riesce a imprimere una chiave positiva ai suoi amori. Da cosa si capisce? Dal fatto che Ilsa è solo l’ultimo dei fallimenti. Perché gli accade questo? Perché il mestiere lo ha indurito fino a quel punto. Perché non basta spogliarsi dall’impermeabile per liberarsi dalla propria scorza di ruvidità. Questa è concretezza e quindi, per usare le tue parole, è autenticità. Ecco cosa gli è capitato: è stato lasciato. Che “al centro deve capitargli qualcosa” mi sembra esemplificativo del tuo approccio al racconto. Perché deve capitare qualcosa e, soprattutto, perché al centro? In realtà è già successo, ci troviamo in media res ed emerge per gradi. Il ritmo è dettato dai vari elementi che dettano il climax. Non sono vezzi estetici, ma hanno una funzione precisa. Non gli rubano la scena, ma concorrono a rappresentare “esternamente” ciò che lui si porta dentro in quel momento e, più in generale, come uomo. Se lascia perdere i suoi problemi, quando parlò in un altro momento con la Holliday, è perché ha la consapevolezza di se stesso e della ineluttabilità del proprio fato. Più consapevole di così … Certo, si potrebbero sviluppare gli elementi che indichi alla fine. Sono aperto a tutti i suggerimenti. Non è detto che non lo faccia. Perché no? Non c’è alcun motivo per cui ami l’identità che l’impermeabile rappresenta. Semplicemente se l’è ritrovata giorno dopo giorno col suo lavoro e l’ha cambiato. E’ già scritto, lo si potrebbe specificare in questa forma, ma la sostanza non cambia. Così vale per la realtà da cui si sente estraniato o dagli angeli che non ha mai visto. Ma, parafrasando le tue parole, “permettono il lusso di dire” molto con “poco”. Questo è l’impianto del racconto. In ciò sta la sua novità. Nell’averlo concretizzato per “atmosfera”, senza tralasciare la sostanza del personaggio e della sua storia.
    Grazie, la tua è stata una lettura molto stimolante. Mi ha rafforzato nella mia convinzione e ricambio il caro saluto

    Massimo Concu

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    • La cosa importante è che la mia lettura per te sia stata stimolante: questo mi fa piacere.
      Dichiarare le proprie influenze è un gioco molto sottile che in narrativa si può fare quando si ha una schiacciante consapevolezza e maestria nel mestiere e, anche in quel caso, a patto che sia funzionale a un nuovo racconto.
      Io, come lettore, della tua storia so solo quello che scrivi tu: dunque non so che il testo delle canzoni che citi ha correlazione con i personaggi e non so che se fai del noir ambientato negli anni ’40 il cinema è imprescindibile (ma chi l’ha detto?).
      Se pongo molte domande è per stimolarti a darne risposta nella tua scrittura; che io ti debba porre l’unica domanda che avrebbe avuto una risposta, mi pare un’operazione inutile.
      In generale, se ammetti che ce ne sia solo una alla quale si può rispondere, mi sembra evidente che questo sia un problema. Se poi tu ritieni che di fronte alle domande che io, da lettore, ti pongo, puoi proseguire oltre, per me, figurati, va benissimo così.
      Non vedo relazione tra lo spronarti a porti le domande necessarie alla costruzione di un personaggio e di una storia e il non uscire di casa. Su questo ragionamento non posso seguirti, mi spiace.
      Che le quindici righe possano essere giuste o sbagliate a seconda dell’uso che se ne fa è certamente esatto. Nel tuo testo non se ne fa un buon uso: è di questo che stiamo parlando.
      La scansione temporale degli eventi che tu dai per scontata, non lo è. Nessun elemento mi dice che Sam sia appena stato lasciato: potrebbe sentire tutto moltiplicato già da molto tempo, o non solo per quei motivi. Del fatto che non riesca a imprimere una chiave positiva ai suoi amori e che Ilsa sia solo l’ultimo dei fallimenti e che questo gli accada perché il mestiere lo ha indurito fino a quel punto e che abbia la consapevolezza di se stesso e della ineluttabilità del proprio fato; che si sia ritrovato la sua identità semplicemente giorno dopo giorno col suo lavoro e che questo l’abbia cambiato; che si senta estraniato dalla realtà o dagli angeli che non ha mai visto (?) io lettore non ne so niente, non lo vedo. Lo sai tu che lo hai immaginato, ma dovresti fare lo sforzo di immaginarlo in modo che sia evidente anche a me, se desideri comunicarmi la tua storia. Il punto della questione è essenzialmente questo: la scrittura, per diventare pubblica, deve riuscire nello sforzo di comunicare, altrimenti resta scrittura privata.
      Far succede qualcosa al centro non vuol dire “per forza” al centro, mi dispiace se questa mia espressione è stata fuorviante. Non ho affrontato la questione della posizione degli eventi perché qui eventi non ce ne sono, le cose non accadono. E, sì, devono accadere per forza se parliamo di un racconto. Altrimenti non è una storia, è altro: un testo, un ritratto, un gioco di rimandi e citazioni fine a se stesso. D’altronde se dici che non volevi reinventare nulla, perché, se utilizzo quegli elementi, c’è poco da reinventare, siamo d’accordo. È proprio il motivo per cui non possiamo chiamarla storia.

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  3. deborahdonato says

    Caro Massimo, la mia scrittura è stata “vivisezionata” prima della tua e ti chiedo perché hai scelto di fare analizzare ad una lettrice professionista il tuo racconto. So che fa male, come in ogni attività della vita, prendere atto dei propri difetti, ma credo che uno dei pregi della scrittura è il suo essere innanzitutto onestà verso se stessi. Personalmente, credo che uno spazio di valutazione gratuita e condivisa sia un bellissimo luogo di confronto. Inoltre, per mia formazione teorica, credo che l’autore non è quasi mai il miglior lettore della propria opera (ed io mi riferisco anche ai grandi e affermati autori).

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