la verità vi prego
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La verità vi prego: attenzione alla trappola delle citazioni

“La verità, vi prego” è la posta del cuore della scrittura: inviami un tuo racconto o il primo capitolo del tuo romanzo e ti scriverò una lettera di valutazione franca, pubblica e gratuita. Per sapere come funziona leggi qui.

La lettera di oggi è per Massimo Concu e il suo racconto “Un’ombra nella nebbia”.

Chi è Massimo Concu:
Sono nato a Samassi -CA- nel 1959 dove vivo e svolgo la mia attività.
Come poeta ho all’attivo due raccolte, diverse plaquette e pubblicazioni
poetiche e critiche presso riviste del settore. Come artista visivo,
poeta visuale in modo particolare ma non solo, partecipo regolarmente alle mostre.
Ricordo brevemente mie opere nelle Biennali di Alessandria e
nelle manifestazioni organizzate dal Museo della Carale di Ivrea,
dove attualmente una mia poesia verbo visiva fa parte della esposizione permanente.

Caro Massimo,

direi che le tue influenze cinematografiche sono piuttosto evidenti. Questo non è necessariamente un problema, non voglio identificarlo subito come tale: prima parliamone. Che le cose che amiamo e che ci piacciono siano importanti per la costruzione della nostra scrittura è un fatto, ed è un buon fatto. Come potrei amare la perfezione del racconto senza aver mai letto Čechov? Come potrei desiderare di scrivere io stessa un racconto perfetto senza provare a copiare da lui? I nostri riferimenti culturali e (anche) emozionali sono il terreno su cui gettiamo le fondamenta della nostra narrazione, dunque necessari: non si costruisce niente di buono che sia campato in aria. Detto questo: è importante avere piena consapevolezza delle cose che c’influenzano; e pieno controllo: selezionare, metabolizzare, reinventare.

Il tuo racconto ha talmente tanto cinema che all’inizio non ho potuto fare a meno di pensare fosse una citazione, o anche una parodia. È passata la mezzanotte e siamo a San Francisco. Il protagonista è un detective privato di nome Sam Bogart. Entra in un locale che si chiama Blue Dahlia. Basterebbe questo, e invece c’è altro: la nebbia, il fumo, l’orchestra, Billie Holliday, l’impermeabile, la mancanza di modi, il barista Victor a cui viene ordinato il solito cognac, per lo più doppio. È difficile manovrare tanto materiale senza un’evidentissima motivazione e un precisissimo obiettivo. I superlativi sono d’obbligo: se decidi di muoverti in tali intrecci non basta che ti sia chiaro il come e il perché: ti dev’essere super-chiaro.

Occorre che ti faccia delle domande su Sam Bogart e su chi è e su cosa desidera e cosa gli manca e cosa gli succede; e, prima di tutto: su perché si chiama così. E perché San Francisco, la nebbia, la mezzanotte e perché abitudini da locali notturni d’oltreoceano. Occorre che tu non abbia alcun dubbio sul fatto che la tua storia non possa essere raccontata se non in questo modo.
Se usi degli elementi solo perché ti affascinano o ti ci riconosci, manchi il passaggio che ti permette di metabolizzare – cioè di appropriarti in modo consapevole e fatale di un immaginario preesistente; e di reinventare. Se non ti preoccupi di fare tua la scena in cui si muove il tuo protagonista non re-inventi niente: riutilizzi elementi altrui.

Succede quindi che il tuo Sam entra in un locale in cui la cantante Billie Holliday e le informazioni sulle sue canzoni e sulla sua infanzia gli rubano la scena del racconto per quindici righe (moltissime, vista la brevità del testo). Succede che anche Victor il barista e l’atmosfera del bar gli rubano la scena, e anche il suo stesso impermeabile e la sua sigaretta gli rubano la scena: perché sono riferimenti “amici”: alludono a un patrimonio di finzione che tutti noi conosciamo. Per il tuo protagonista diventa impossibile reggere il confronto con quei dettagli stereotipati; è inutile affannarsi: l’attenzione del lettore è sviata da un pezzo. Visualizzare quei dettagli di cui abbiamo già sentito parlare è un lavoro più semplice, mentre l’immagine di Sam, che devi costruire tu, resta per noi incerta, invisibile.

Sappiamo che a Sam Bogart lo scrosciare dell’applauso gli arrivò come una frustrata, ma non ne conosciamo la ragione, perché al momento di raccontarla subentra l’ermetismo:

  • Quella sera avvertiva tutto moltiplicato.
  • Quando arginava i solchi profondi della malinconia la superficie rimaneva esposta.
  • […] andava perdendosi in altri flussi.
  • Lo allontanava dalla realtà, trascinandolo verso un onnivoro cuore di tenebra.

L’unico riferimento concreto alla vita di Sam è la sua compagna Ilsa che gli ripeteva che il mestiere lo doveva appendere all’attaccapanni con l’impermeabile, e che resta inascoltata. E dunque Ilsa se ne va, ma non sappiamo dove, né quando, né se tornerà, né cos’ha fatto Sam per trattenerla, né se ha fatto qualcosa. Sappiamo solo che Ilva gli lasciò un biglietto dove scrisse che si era stufata di amare un vestito e non un uomo e che questa frase, come il resto del testo, ricalca un certo tipo di narrazione, affascinante e empatica, ma proprio per questo poco autentica.

L’autenticità la si trova con la concretezza. Cosa succede al tuo Sam? Qual è la sua storia? Un racconto può, sì, essere fatto principalmente d’atmosfera, ma qualcosa, anche piccola, anche apparentemente insignificante, deve pur accadere. Sam non può essere lo stesso di sempre dall’inizio alla fine del racconto. Al centro deve capitargli qualcosa: deve rompersi o aggiustarsi o anche solo incrinarsi, ma – se non lui – noi che leggiamo di lui dobbiamo essere consapevoli che le cose non sono più come quelle di prima: sono cambiate.

Resta il fatto che il tipo di narrazione e di scrittura a cui ti rifai è forte e passionale e allora forse dovresti ricominciare proprio da lì. Da quella cosa dell’amare un vestito e da cose come Era così che lo immaginava, come il mondo quotidiano ma con la consapevolezza di esserci oppure Se c’erano anche gli angeli allora ne poteva valere la pena.
Perché se è vero che queste sono tipiche frasi “d’impatto”, frasi che si permettono il lusso di dire poco “sfruttando” l’immaginario collettivo che si portano dietro, è vero anche che sono cariche di sentimenti di nostalgia, durezza e speranza – e che se impari a modellare questi sentimenti concentrandoti su Sam e la sua storia, e su quello che significa per te, in maniera autentica, allora sei a metà dell’opera.

Un caro saluto,
Francesca de Lena

Un’ombra nella nebbia

La mezzanotte era trascorsa da un pezzo. La nebbia avanzava nelle strade di San Francisco. Il detective privato Sam Bogart varcò la soglia del Blue Dahlia. La luce, che pioveva dall’alto, scolpiva l’orchestra sul palco. Gli spettatori, ai tavolini, scomparivano nella restante oscurità. Il fumo aleggiava ovunque. L’uomo pensò che la nebbia fosse penetrata dalle fessure. Billie Holliday cantava Riffin’ the scotch. L’aveva incisa dieci anni prima, con Benny Goodman, senza successo; ma non l’abbandonò, i fan dovevano amarla, per questo continuava a proporla. L’intensità della esecuzione la rese una delle più richieste del repertorio. Non avrebbe riservato alla canzone il trattamento dei genitori con lei. Nel ’33 non era nessuno, ora la chiamavano The Lady ed era famosa. Bogart sostò davanti alla porta per accendersi una sigaretta. Tirò una lunga boccata e prestò attenzione alla sua voce. Gli arrivava nell’animo come una carezza di velluto. Nessuna sapeva essere così sentimentale. Una volta, dopo uno spettacolo, gli parlò della sua vita. Raccontò dei genitori adolescenti che l’abbandonarono, della solitudine, dello stupro a subito a dieci anni, della prostituzione e della galera. Lui, invece, avrebbe voluto sfogarsi per una donna che lo aveva lasciato. Il senso del ridicolo lo convinse a desistere. Aveva davanti una bambina cresciuta troppo in fretta. Lo commuoveva, anche se non lo avrebbe mai dato a vedere. Nel suo lavoro la tenerezza era un lusso che non si poteva permettere. Lo avevano capito in tante, per ultima Ilsa la sua compagna. A rientro dal lavoro gli ripeteva che il mestiere lo doveva appendere all’attaccapanni con l’impermeabile. Ma non c’era verso di cambiarlo. Così se ne andò. Gli lasciò un biglietto dove scrisse che si era stufata di amare un vestito e non un uomo. A Bogart mancavano i modi, mancava il tempo, a volte anche i soldi. Da quella sera aveva perso pure lei. Il testo della canzone raccontava di un amore perduto e di un altro che bruciava. Nel suo caso le cose coincidevano. Piegò la bocca verso il basso con un ghigno sarcastico. Era il momento adatto per sbronzarsi. Il bar stava sull’altro capo della sala. Lo raggiunse e si sedette in fondo al bancone. Non voleva disturbare ed essere disturbato. Victor, il barista, si avvicinò. Lo conosceva bene e intuì. Fu laconico nel salutarlo, chiese se volesse il solito. Lui rispose doppio e lasciasse pure la bottiglia. Alle sue spalle, la canzone era finita. Lo scrosciare dell’applauso gli arrivò come una frustata. Quella sera avvertiva tutto moltiplicato. Funzionava al contrario. Quando arginava i solchi profondi della malinconia la superficie rimaneva esposta. Ci avrebbe pensato il cognac a lenire i sensi. Il primo bicchiere scese d’un fiato, giusto per ricordare il motivo del suo ingresso. Il secondo seguì la stessa sorte, per rafforzarlo. Il terzo volle assaporarlo con calma. Al quarto già scordava perché fosse entrato. Intanto, Billie Holiday aveva attaccato con Embraceable you. Bogart però non se n’era accorto, andava perdendosi in altri flussi. L’alcool gli scorreva dentro come un fiume. Lo allontanava dalla realtà, trascinandolo verso un onnivoro cuore di tenebra.
Doveva essere dannatamente vero, perché Bogart si sentiva chiamare. Forse era arrivato a destinazione e il nulla lo reclamava a sé. Aprì gli occhi e sembrò che possedesse le vaghe sembianze di Victor. Non ne fu sorpreso. Era così che lo immaginava, come il mondo quotidiano ma con la consapevolezza di esserci. Perché, nel mondo reale, non sempre lo era.

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