C’è la questione delle domande in testa.
Mi chiedo: si possono fare domande per dare informazioni al lettore? Mi dico che in narrativa si può fare tutto, basta che funzioni. Allora riformulo: funzionano le domande che spesso gli aspiranti scrittori mettono in testa ai propri personaggi? Quelle domande del tipo:
E ora, cosa avrebbe fatto? Sarebbe mai riuscita a dimenticare, a passare oltre quell’anno terribile in cui la sua vita era stata devastata da un uomo che non la meritava? Sarebbe riuscita a tornare al lavoro, quel lavoro che le persone che le volevano bene le avevano in qualche modo “conservato” come pegno di fiducia e gratitudine? E sarebbe riuscita a lavarsi di dosso quell’odore di rabbia e passione che lui le aveva trasmesso e che ora le faceva male, pur continuando a sembrarle tanto affascinante? Sarah se lo chiedeva spesso. Se avrebbe trovato la forza di andare avanti. Se ce l’avrebbe fatta. Forse lui sarebbe cambiato davvero un giorno? Forse l’avrebbe aspettata fuori casa con un mazzo di rose e le avrebbe sussurrato parole d’amore? E quel bambino, che lei desiderava tanto, forse un giorno sarebbe arrivato?
No, non funzionano. Riassumono gli eventi invece di metterli in scena. Spiattellano l’intimità del personaggio in modo riassuntivo e banalizzante; riducono tutto a: buono-cattivo; sto male-sto bene; paura-speranza. Evitano molta fatica, illudendo chi scrive che al lettore possa bastare spiegargli le cose come stanno, quello che il personaggio sente. Ma al lettore non interessa che gli venga spiegata qualcosa, e non gli interessa neanche cosa sente il personaggio. Il lettore vuole vivere la storia che sta leggendo. E non è solo una questione di show don’t tell (anche se molta questione è ancora tutta lì, e conoscere la formula – che ormai conoscono tutti – non significa averla applicata).
Non solo l’azione, ma anche il pensiero ha bisogno di essere vissuto dal lettore, per funzionare. E al lettore non piace vivere un pensiero riassuntivo e banalizzante.
Poi c’è la questione delle domande-dialogo.
Prendiamo la penultima puntata di True detective. La serie televisiva HBO per i primi sei episodi ha una struttura e dei contenuti, per così dire, introspettivi. Tranne che per alcuni passaggi (l’azione adrenalinica di Rust tra i trafficanti di droga) mantiene una sua coerenza interna, va avanti poco e per gradi, s’interessa ai personaggi più che al caso da risolvere. Funziona. Però, poi, alla settima puntata, True detective cambia.
I due protagonisti*, ex poliziotti, ex partner di lavoro ed ex amici, si rivedono dopo molti anni e sono seduti a un bar intenti a domandarsi e rispondersi cose che diano al lettore le informazioni che gli mancano.
- Perché siamo qui? chiede Marty a Rust: così Marty può spiegarcelo.
- Tu che ne pensi? chiede Rust a Marty: così Marty può dire “Penso che non mi sembri molto in salute, Rust. Lo sguardo nel vuoto, il modo di parlare. Sembri un po’ instabile.” Che è quello che pensiamo noi.
- A questo punto Rust ha campo libero per spiegare e riassumere, aiutato da queste domande che Marty gli pone:
- per quale ragione?
- perché proprio adesso? Cazzo Rust che fai? Hai allontanato tutte le persone della tua vita e alla fine ricominci da me a rotazione?
- perché dovrei? Dicono che non hai un alibi e sembra che alcuni testimoni ti abbiano visto al lago Charles sulla scena del crimine. Hai un magazzino e non lasci che lo perquisiscano.
- perché non collabori?
- sei innocente? Aiutali a smettere di perdere tempo.
- perché dovrei aiutarti? dammi un motivo.
In questo modo, per rispondere a queste domande, Rust ci dice dove eravamo rimasti, cosa è successo negli ultimi dieci anni, cosa dovranno fare adesso, e perché.
Ora, quello che voglio dire è che l’indagine e la ricerca della soluzione del caso non sono molto importanti per la storia che True detective ha raccontato fino al sesto episodio. Fin qui si è raccontata la vita e il carattere di due uomini che fanno i poliziotti e sono incasinati fino ai capelli; e sono dannati, per motivi diversi, entrambi.
E, però, d’improvviso, c’è la trama da sciogliere. Perché la trama dev’esserci per forza e, se c’è, bisogna per forza che si risolva, e da questa regola non si scappa.
E allora Nic Pizzolatto, lo sceneggiatore, prende la penultima puntata di True Detective e la fa diventare uno spiegone di 50 minuti. Parte dalla prima scena nel bar e va avanti così fino alla fine, di domanda in risposta, per mettere tutto in chiaro. Funziona? Sì, funziona**. Ma non è bello.
*uno un po’ più protagonista dell’altro, o forse è solo che io mi concentro di più su Matthew McConaughey
** tranne che per una scena in cui Rust si trasforma in Diabolick, costume nero compreso. Quella no, non funziona proprio.
nota: tutte le immagini sono di Nigel Evan Dennis e le trovate su http://www.wekeeptheotherbadmenfromthedoor.com/
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Scusami se mi permetto di commentare, ma non mi trovi d’accordo (almeno non in generale). Credo che dipenda innanzitutto dal piano dell’opera, se insomma in questa prevalga ad esempio il piano della trama oppure no. In ogni caso, perché dovrebbe essere inutile a priori mettere in testa al proprio personaggio una domanda del tipo “Sarebbe mai riuscita a dimenticare, a passare oltre quell’anno terribile in cui la sua vita era stata devastata da un uomo che non la meritava?” Se ad esempio la trama prevede di raccontare quello che accade nei 10 anni successivi e l’autore decide di non spiegare questo evento, ma soltanto di farci capire che il personaggio viene da un anno terribile senza poi descriverlo, non vedo perché questa soluzione non dovrebbe funzionare. Certo, poi concordo con te che mettere in testa al personaggio tutta una serie di domande in fila ha poco senso, ma quello è un esempio un po’ al limite…
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Ciao Simone, non ti scusare! I commenti sono qui apposta!
Io nell’articolo volevo parlare proprio della serie di domande in fila, che non ha senso mettere perché appiattisce la narrazione, “spiega” troppo e annoia. A dir la verità volevo fare un esempio ancora più brutto di quello che ho scritto, ma non ci sono riuscita. In ogni caso, ti assicuro, non è per niente un esempio al limite. Direi che è quasi la norma, tra gli aspiranti scrittori.
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Ho scoperto True Detective da poco. Ho visto il quarto e il quinto episodio. Grazie all’on demand adesso il primo e il secondo. Come alcune serie di qualità Usa può insegnare molto nell’arte della narrazione. Appena arriverò al settimo ripenserò a questo articolo per comprendere meglio il tuo giudizio sul funziona ma non è bello.
Ma il punto sono le domande in sequenza.
Questo è quello che combina Buzzati nel Deserto dei tartari:
“E dietro, che cosa c’era? Di là di quell’inospitale edificio, di là dei merli, delle casematte, delle polveriere, che chiudevano la vista, quale mondo si apriva? Come appariva il regno del Nord, il pietroso deserto per dove nessuno era mai passato? La carta – ricordava vagamente Drogo – segnava al di là del confine una vasta zona con pochissimi nomi, ma dall’alto della fortezza si sarebbe visto almeno qualche paese, qualche prato, una casa, oppure soltanto la desolazione di una landa disabitata?”
Sicuramente sono poco eleganti, ma possono essere efficaci. Il problema è saperli gestire con sapienza narrativa, cosa non facile per l’aspirante. Richiede talento, ma soprattutto esperienza. Lo scivolone è molto probabile.
Dal mio punto di vista queste catene sono poco emotive perché se le pone il personaggio e non il lettore. Meglio creare la situazione della domanda e farla percepire al lettore. Se crei la situazione, rimarcarla dopo è un errore, crei ridondanza o sminuisci la consapevolezza di chi legge. Illuminante in tal senso un tuo precedente post: fidarsi del lettore.
In questi casi preferisco di gran lunga la soluzione di Manzoni. Una domanda secca e capitale.
Don Abbondio di fronte ai bravi ti brucia con:
“Che fare?”
Tornare indietro o affrontarli. Questo tipo di domanda non è del personaggio ma per il lettore. In qualche modo chi legge diventa partecipe dell’interrogativo. Tu che faresti sapendo quando il don è fifone e quanto sono bravi quelli?
Escamotage ottimo per tirare per la giacchetta il lettore, pardon per la berretta…
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