Guardo un documentario su Franco Fontana e lo ascolto parlare degli esercizi che propone agli allievi dei corsi che tiene in mezzo mondo, come quello al Guggenheim di New York, in cui dice ai suoi allievi che lui non è un insegnante: lui è un maestro. E il maestro è quello che ti porta davanti alle cose e poi tu le devi vedere.
Questa cosa di vedere le cose che già ci sono, che sono lì e tu le devi vedere, è un’attitudine zen alla vita che quando si tratta di arte funziona un po’ con tutto. Mentre ascolto Franco Fontana elogiare quest’attitudine zen, mi viene in mente il bel manuale di scrittura creativa di Natalie Goldberg dal titolo Writing down the bones che in Italia la casa editrice Ubaldini ha tradotto in Scrivere zen (ma erano gli anni ’80 e bisognava inserirlo in collana).
Dice Fontana che uno degli esercizi che fa fare, per esempio, è quello sul rosso: sul colore rosso. Dice così:
Non è la pellicola che registra il colore, che fa il colore. Sei tu che lo fai diventare colore.
Fontana fa vedere ai suoi allievi un foglio in cui disegna un puntino nero. Poi chiede loro cosa vedono nel foglio e tutti rispondono Vediamo un puntino nero. Esattamente! dice, allora, Fontana. Vedete, dice soddisfatto, che il piccolo condiziona il più? Nessuno mi dice: Vedo un grande spazio bianco. Tutti vedete un puntino nero.
Adesso a me viene un’altra cosa in mente e cioè che in altre occasioni ho ascoltato artisti parlare di questa stessa attitudine zen, e che però per quegli artisti il risultato positivo dell’esercizio si sarebbe ottenuto nel caso opposto: sei zen se, invece del puntino nero che vedono tutti, tu vedi il grande spazio bianco che c’è attorno.
E quindi la prima cosa che penso riguardo quest’intervista, l’esercizio di Fontana e la traduzione dei titoli in italiano è che lo zen ognuno se lo fa a modo proprio.
Dunque l’esercizio che gli allievi di Fontana devono compiere, tenendo a mente il concetto puntino nero/spazio bianco, è andare in giro a fotografare il rosso pensando che quando poi Fontana vedrà le loro diapositive non vorrà vedere una bella fotografia: vorrà vederere il rosso da oggetto diventare soggetto. Voglio che quando io guardo la fotografia, dice Fontana, togliendo il rosso la foto “decada” d’interesse e che quindi il colore diventi primario, protagonista.
Nel manuale della Goldberg, in cui ci sono decine d’esercizi per spronarti a mettere la penna sul foglio e scrivere senza farti venire le paturnie, c’è anche questo:
Scegliete un colore – per esempio il rosa – e andate a fare una passeggiata di un quarto d’ora. Durante la passeggiata prendete mentalmente nota di tutto ciò che è rosa. Quindi tornate al quaderno, e scrivete per un quarto d’ora.
La Goldberg nei suoi esercizi ci tiene molto alla questione del tempo: darsi un tempo di scrittura che non sia meno e non sia più di quello stabilito e in questo modo “costringere” la propria intuizione in uno spazio/forma ben definito. A Fontana non pare importi del tempo. Lui non ne fa una questione di cronometro ma di esperienza: Dopo dieci, dodici, quindici foto, dice, dopo che hanno girato per fotografare il rosso, vedono rosso dappertutto. E questo cosa vuol dire? chiede Fontana. Vuol dire che l’hanno trovato, risponde. Vuol dire che hanno capito cosa devono fare.
A questo punto, l’ultima cosa che a me viene in mente riguardo a questa storia dello zen e dei colori è che l’importante non è tanto che sia rosso o rosa lo scopo del tuo esercizio o che si tratti di fotografia o di scrittura. (E questa cosa che mi viene in mente detta così mi sembra abbastanza banale da poter rientrare nel mio personale modo di parlare dello zen). L’importante è, sì, gettarsi nell’esercizio – nell’arte, nell’espressione, nel proprio intimo – ma la questione non è tutta lì.
La creatività non viene fuori lasciandosi andare alla creatività senza remore.
Questo esercizio, questi esercizi, trovano senso solo nel contesto dello spazio bianco del foglio e della passeggiata. Trovano senso nella lettura, nello studio e nella tecnica. Nell’ideazione della propria idea di rosso e di rosa, che è un procedimento che richiede tempo, analisi, prove e consapevolezza. Se non si concede alla propria idea di rimanere in testa per un po’, e poi di essere analizzata, pensata, testata, assorbita e migliorata, si ottiene un rosso o un rosa qualsiasi.
Se, quando si parla di creatività, non si aggiunge questa seconda parte, se si profetizza l’avvento della creatività per tutti – che ci coglierà nel momento in cui ci spoglieremo finalmente delle nostre costruzioni mentali – non si dice la verità. Si mente.
Oppure, si omette volontariamente una parte della verità.
Chi come me guarda il documentario dedicato a Fontana non vuole davvero imparare a fare buone fotografie. Per questo Fontana può permettersi di dire, sorridendo all’intervistatore: «Poi, sai, chi vuol capire, capisca».
Perché tanto io non sono davvero un allievo del suo corso. Perché tanto, a me, non vuole dare davvero gli strumenti per capire.
Tutte le fotografie sono di
©Franco Fontana
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In alcuni ambiti è normale pensare che prima di tirar fuori la creatività ci vuole lo “studio” (si pensi alla musica, alla danza o alla ginnastica) in altri, molto spesso la ricerca della creatività sembra la soluzione a tutto (scrittura, fotografia) soluzione non solo per gli allievi ma anche per insegnanti che così facendo si auto-assolvono. Sarà colpa dell’autofocus?
Sergio Caputo direbbe: Bimba se sapessi che monotonia / Tutte queste storie sulla fantasia / Guarda che mestiere che mi tocca fare / solo per riuscire a galleggiare n questo pazzo mare…
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