All posts filed under: fuori serie

I Golden Globe 2021: le nuove serie da vedere in un campionato che ha escluso la serie vincente.

La notte fra il 9 e il 10 febbraio 2020 non ho dormito. Non era ancora esplosa (almeno a livello visibile da quaggiù, in mezzo alla massa) quella che poi sarebbe diventata la causa principale di insonnia dei mesi successivi, eppure mi ricordo che quella notte sono rimasta sveglia e felice per un motivo molto preciso: seguire gli Academy Awards in compagnia, seppure virtuale, dalla pagina di Visionari, e commentare i vincitori. Soprattutto, festeggiare Parasite, perché a vincere l’anno scorso è stato, per la prima volta, quello che era davvero il mio film preferito.  Parte della bellezza dei premi, che siano cinematografici o letterari, risiede nella loro componente collettiva. Il potere aggregante delle storie che si trasforma in rituale tifoso. Il tifo bello, quello per e non quello contro, quello per cui si cammina nel mondo all’interno di una comunità immaginaria aggregata da un riconoscimento profondo (in un simbolo, in una maglietta, in una storia), quello per cui se vince il tuo film preferito sei felice – ma se non lo candidano neanche, ti passa …

“SanPa”: un’analisi testuale del documentario

Durante il primo episodio della seconda stagione di Dear White People, Sam White si trova nel pieno di un dibattito sulla neutralità o meno della forma documentaristica. Per avvalorare la sua tesi, la vediamo a cercare online “Documentari che non sono propaganda”. La ricerca non dà nessun risultato.  La scena iperbolica svolge la duplice funzione di punchline comica (Dear White People, per chi non lo sapesse, è una comedy brillante, molto tagliente e ben scritta) e di gancio per il dialogo successivo, in cui Sam afferma che non è tanto l’obiettivo del documentario in sé a dover essere più o meno palese, quanto il nostro sguardo a doversi mantenere il più aperto possibile rispetto alla complessità della verità in senso ampio, che include anche le verità non dette.  Ecco, quello che dice Sam mi ritrovo a ripetermelo ogni volta che approccio un documentario, di qualunque tipo e argomento. Lo guardo mantenendo sempre un piede fuori dalla porta, per timore di essere trascinata dal meccanismo di “educazione veicolata”, di manipolazione, che si può innescare. Questo per …

La divertentissima parodia che non vedremo mai: “Utopia” di Gillian Flynn

Quando Utopia di Dennis Kelly fece la sua comparsa sugli schermi era il 2013. Era un tempo in cui Game of Thrones aveva già animato eserciti di fan che viaggiavano in Nord Europa solo per andare a visitare la barriera. Più indietro negli anni, nel 1979, Jean Francois Lyotard parlava di grands récits e petit récits, e non sapeva né poteva immaginare che la sua analisi della “condizione” postmoderna sarebbe stata applicata, in futuro, anche alle serie TV. Da me.  Ecco, mi piace pensare che la fine di Game of Thrones abbia creato quel genere di spartiacque che Lyotard intercetta tra modernismo e postmodernismo, tra grandi narrazioni e grandi ideologie, e piccole narrazioni, destabilizzanti, parodiche, ripetitive e, tuttavia, fortemente innovative. Non è un giudizio di valore sulle serie pre e post GoT il mio (se ci fosse bisogno di specificarlo, sono un’amante della letteratura postmoderna), è solo una constatazione curiosa.  Era il 2013, dicevo, e scegliere una serie da vedere era questione di poco, non c’era bisogno di ore di scrolling su Netflix, bastava che …

“I May Destroy You”: il come prima del cosa.

SPOILER ALERT: in questo articolo si fa riferimento a dettagli della serie nel titolo in maniera profusa, per cui se odiate gli spoiler vi conviene leggerlo con la mano davanti agli occhi 😉 Qualche giorno fa, Francesca De Lena scriveva, su Facebook, una cosa che dice sempre e che non ci stancheremo mai di ripetere qui: non è tanto il “cosa” si racconta a essere rilevante quanto il “come”. Ecco, se per I May Destroy You, come per la maggior parte delle storie che scelgo di analizzare, il cosa ha comunque sempre un suo accordo con le mie ragioni d’interesse, quello che colpisce più di tutto in questa serie è di sicuro il come, sotto più punti di vista. Ma partiamo dal principio.  Proprio la prima scena, sì.  La prima scena stabilisce non solo l’attacco, il tono, ma è una scelta precisa di messa a fuoco. Quando questa si limita a un’inquadratura fissa di qualche secondo, sappiamo che quell’inquadratura non è lì per caso, che anche se immediatamente dopo finiamo da qualche altra parte nell’universo …

La fantascienza ci restituirà il futuro

“Perché non è vero che la vita è sempre bella, che va vissuta a piene mani, che nelle piccole cose sta la felicità. Sciocchezze. Siamo su una canoa senza remi e la corrente non si ferma. Questo è tutto.”  Questa è una citazione da Gli immortali, di Alberto Giuliani, una delle letture che stanno accompagnando un’insonnia comparsa senza preavviso, tra le altre novità di questa primavera. Trovo che sia una perfetta fotografia dell’umore del tempo, e anche il resto del libro, a suo modo, lo è. Il narratore fa un viaggio a metà tra l’autofiction e il reportage, alla scoperta di luoghi dove si scrive il futuro, quello che non vuole arrendersi alla fine, quello che non vuole restare solo un’ipotesi nel presente. Tra astronauti che si preparano alla vita su Marte, cyborg umanoidi, cani clonati e bunker sotterranei costruiti per resistere alla “fine” del mondo, Giuliani rincorre una domanda: come si sopravvive all’improvvisa consapevolezza della propria mortalità? È una domanda che riecheggia nell’aria (quest’aria di cui in queste settimane abbiamo sempre più fame) ma …

Il tormento, l’estasi e l’identità di confine: la serie tv “Undone”.

Un incidente stradale, così comincia Undone. Una donna sfreccia piangendo agli incroci deserti di una cittadina del sud degli Stati Uniti. A un certo punto vede suo padre morto, e un’auto le finisce addosso, mandandola a sbattere contro un palo. Sangue, vetri rotti, e la prima frase, in flashback: “I’m so bored of living”, sono stanca di vivere. Così Undone aggancia lo spettatore, trascinandolo nel momento esatto di rottura dell’equilibrio nella vita della protagonista e tornando poi indietro a raccontare l’antefatto di quell’incidente.  Indietro? Avanti? Mai come in questa serie il tempo è relativo.  Undone, un viaggio allucinato di scoperta  Non è facilissimo riassumere Undone, serie animata di Amazon Prime uscita nell’autunno del 2019, nata dalle stesse menti creatrici di BoJack Horseman, un’altra grandissima, sebbene diversa, serie animata: Kate Purdy and Raphael Bob-Waksberg. È la storia di Alma, che, dopo essere finita in coma per via del suddetto incidente, comincia ad avere delle visioni del padre che le chiede di scoprire la verità sulla sua morte, e tutto il suo mondo e la sua percezione …

Contro JOJO RABBIT e le storie innocue

La candidatura agli Oscar come miglior film e migliore sceneggiatura (e migliore attrice non protagonista per Scarlett Johansson) di Jojo Rabbit me la spiego solo con l’amore e il gusto che Hollywood prova da sempre a ridicolizzare il personaggio che più di ogni altro nella storia identifica il male assoluto: Adolf Hitler. Non è un gesto narrativo facile, quello di ridicolizzare il male, è anzi un gesto coraggioso e complicatissimo e infatti i precedenti non sono numerosi, nonostante il tempo passato sia ormai molto lungo. Però questi precedenti ci sono, e sono memorabili, e, come ogni opera d’arte, al di là delle intenzioni e della bontà dell’idea, Jojo Rabbit non può fare a meno di confrontarcisi, uscendone molto male. Fuori discorso ogni prospettiva moralistica: tutto si può (e si deve) raccontare in tutti i modi possibili. Si può ridere dell’olocausto? Sì, si può ridere, perché ridere è un’azione umana come piangere, commuoversi, immedesimarsi, ricordare, ma soprattutto è un’azione artistica dimostrativa e catartica. Però quando si tocca un macigno grosso come l’olocausto non basta chiedersi il …

L’età della diva: Feud

Quante volte abbiamo sentito la frase “le donne sono le peggiori nemiche delle altre donne”? E quante di queste volte abbiamo fatto seguire lo sforzo di chiederci, con un minimo di onestà intellettuale, perché? Non perché lo siano, ovviamente non lo sono, è una cavolata come qualunque generalizzazione di questo tipo, ma perché certe cavolate risultino tanto confortanti da mettere radici profondissime e faticosissime da dissotterrare. Ryan Murphy se la pone questa domanda. Lo fa con la consapevolezza di avere il potere di dare una risposta. Lo fa in Feud: Bette & Joan, una serie che farebbe bene a tutti vedere, anche solo per l’esercizio di pensiero di capire come funziona, e a “chi” serve davvero, la manipolazione della narrazione dominante. La serie di FX mette in scena la celebre rivalità tra le due dive holliwoodiane Joan Crawford e Bette Davis, interpretate qui da Jessica Lange e Susan Sarandon. Partendo dall’introduzione di una narrazione a posteriori, elaborata attraverso un finto documentario nella serie in cui a parlare sono altre dive hollywoodiane a conoscenza dei fatti …

“Daybreak”: la fine del mondo non è poi la fine del mondo.

Non c’è nessun aspetto più determinante in una storia del punto di vista. Questo non solo vale per tutte le storie che rientrano nell’ambito della finzione, ma è il motivo primario per cui il racconto del reale, la Storia, è così sfuggente alla significazione univoca. Quello che accade, infatti, quando dei personaggi e il mondo che abitano passano da un “autore” (che sia esso scrittore o semplice “voce narrante orale” poco importa) a un altro, è che quei personaggi e quel mondo diventano altri personaggi, altro mondo. Nelle narrazioni che fanno passaggi transmediali, questo aspetto risulta particolarmente visibile e analizzabile. Cosa succede a un racconto quando passa dal potere creativo individuale di uno scrittore a quello collettivo di coloro che lavorano a una serie, per esempio? Di norma lo sguardo si allarga, l’universo narrativo si espande, la storia cambia. A confermare questa tesi, arriva la serie Netflix di Brad Peyton e Aron Eli Coleite, Daybreak, tratta dalla graphic novel omonima di Brian Ralph, che però con quest’ultima ha in comune ben poco oltre il titolo. …

Euphoria: rappresentare la generazione post 11 settembre

C’è stato un periodo molto preciso degli anni 2000 in cui sono uscite, quasi contemporaneamente, tre serie teen: una ambientata a Bristol, in Inghilterra, una a New York, o meglio, nell’Upper East Side (che dire New York in effetti è mancanza di precisione), e una a Beverly Hills. Quelle ambientate negli USA hanno a poco a poco perso il mio interesse, tanto che delle ultime stagioni, lo confesso, ho solo letto i riassunti degli episodi. La serie britannica è diventata invece il mio standard di riferimento per quanto riguarda i teen drama. E sì, mi riferisco a Skins. Il motivo principale per cui Skins vinceva è perché aveva un cast di attori emergenti strepitosi e vivissimi, che riuscivano a riportare in scena dei personaggi adolescenti credibili scritti benissimo, liberi dall’incombenza di ogni tipo di paternalismo moralizzante. Ed è proprio a Skins che ho pensato in diversi momenti, in quelli migliori, di Euphoria. In altri, decisamente no. Euphoria Euphoria racconta le vicende di un gruppo di liceali in una non precisata e eterotopica cittadina suburbana, presumibilmente …