fuori serie, studio & analisi critica
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L’età della diva: Feud

Quante volte abbiamo sentito la frase “le donne sono le peggiori nemiche delle altre donne”? E quante di queste volte abbiamo fatto seguire lo sforzo di chiederci, con un minimo di onestà intellettuale, perché? Non perché lo siano, ovviamente non lo sono, è una cavolata come qualunque generalizzazione di questo tipo, ma perché certe cavolate risultino tanto confortanti da mettere radici profondissime e faticosissime da dissotterrare. Ryan Murphy se la pone questa domanda. Lo fa con la consapevolezza di avere il potere di dare una risposta. Lo fa in Feud: Bette & Joan, una serie che farebbe bene a tutti vedere, anche solo per l’esercizio di pensiero di capire come funziona, e a “chi” serve davvero, la manipolazione della narrazione dominante.

La serie di FX mette in scena la celebre rivalità tra le due dive holliwoodiane Joan Crawford e Bette Davis, interpretate qui da Jessica Lange e Susan Sarandon. Partendo dall’introduzione di una narrazione a posteriori, elaborata attraverso un finto documentario nella serie in cui a parlare sono altre dive hollywoodiane a conoscenza dei fatti (e questo ulteriore livello di narrazione, seppure forse non necessario, contribuisce a creare il senso della leggenda che ruota intorno alle protagoniste, una leggenda di cui non si può avere certezza assoluta) assistiamo quindi allo sviluppo di una vera e propria faida, fomentata dalla casa di produzione e dai giornali, che si evolve in un’escalation drammatica durante e dopo le riprese del film Che fine ha fatto Baby Jane? . Attraverso le sue scene ricche e “barocche”, Murphy dà una rappresentazione spietata di Hollywood e dei meccanismi dominanti all’interno di quel sistema.

Tre livelli di parodia

Di Ryan Murphy, la prima cosa da dire è che è un eccellente parodista, nel senso postmoderno del termine. Murphy riprende le narrazioni classiche, dalla struttura assolutamente prestabilita, ma anche dallo stile molto riconoscibile, le riscrive e le sovverte. Feud infatti è prima di tutto una storia del cinema classico Hollywoodiano, di cui riprende l’uso delle musiche, i primi piani carichi di espressività, le movenze ampie, le scene emblematiche. Jessica Lange, nello specifico, richiama alla mente Gloria Swanson in più di una scena, rendendo tutta la serie una matrioska di riferimenti incastonati l’uno nell’altro.

Ad aggiungere un altro livello di riscrittura c’è il film nella serie, Che fine ha fatto Baby Jane?, di cui Murphy fa una sorta di parafrasi attraverso i personaggi di Davis e Crawford, che finiscono per sovrapporsi con Jane e Blanche nella loro storia di amicizia impedita dalle circostanze legate alla fama e al successo nello spettacolo, in questa piccola Hollywood in cui le voci girano e l’aria è pesante, come quella che si respira nella casa del film. C’è infine un ulteriore livello di riconfigurazione di un genere cinematografico, l’hagsploitation di cui si parla nella serie, il thriller/horror con protagoniste donne un tempo famose, ormai non più giovani (hag significa “strega, vecchia megera”), rappresentate come mentalmente instabili e terrificanti, un genere che ha sempre riguardato solo ed esclusivamente le donne di Hollywood, e mai e poi mai gli uomini.

“I used to make the culture”: Hollywood in Feud

Nell’incarnazione dei due motori dell’intrattenimento (i soldi e i media), ci sono i personaggi di Jack Warner e di Hedda Hopper. Quando vediamo comparire Jack Warner, il produttore della Warner Bros, steso su un lettino da massaggi, e gli sentiamo pronunciare la frase “Te le scoperesti?”, come discrimine per la scelta di finanziare o meno un film con due protagoniste femminili, abbiamo la netta sensazione di trovarci di fronte una serie post-Weinstein, post ottobre del 2017, post #metoo. Non è così. Feud è uscita prima, ed è la dimostrazione che il casting couch è una pratica nata con Hollywood.

Jack Warner è il classico produttore che manipola le giovani attrici per poi usufruirne a suo piacimento, i suoi scatti d’ira e le sue maniere disgustose sono emblema dell’abuso di potere sistemico, un abuso consapevole di creare la narrazione egemonica. “I used to make the culture” dice a un certo punto, con la consapevolezza del dominio sul potere formativo delle narrazioni prodotte dal cinema hollywoodiano. Warner è lo sguardo che seleziona, il potere economico, colui che innesca i fatti. Ma a mantenere acceso l’intrattenimento c’è l’informazione, incarnata da Hedda Hopper, che in quel momento storico poteva dire con decisione: “La mia opinione è l’unica che conta”.

La diva e l’artista

La questione della faida tra Davis e Crawford viene avanzata dall’interesse economico del produttore, perché l’odio vende, e la competizione è la base del libero mercato, e viene portata avanti dalla stampa, che manipola le narrazioni, scrivendole e costruendole a proprio uso e consumo. Il sistema mediatico che ruota intorno al film crea quindi la catfight narrative tra le due donne, proiettata al mercato. Come sosteneva Quinn King in UnReal: “We don’t make it up, we make it happen.” (non creiamo le cose, le facciamo succedere), la collaborazione tra i due poteri congiunti di Warner e Hopper fa sì che non ci sia speranza per le due attrici, incastrate e intrappolate in un destino di odio e livore.

La dicotomia su cui si fonda la rivalità tra le due star è quella tra diva e artista. Joan Crawford, la donna più desiderata del mondo, e Bette Davis, quella con più talento. Di Bette Davis ci viene detto subito che è una grandissima attrice, la più grande di tutte secondo Olivia de Havilland, “difficile, costosa, troppo potente per essere una donna”. Davis lavora senza sosta, la vediamo, anche fuori dal set, lavorare al copione, provare costantemente, mentre vediamo Crawford impegnata nel mantenimento del suo corpo da diva. Tra le due, di sicuro il personaggio di Crawford risulta quello più tragico. Impigliata in uno sguardo che è sempre piegato al desiderio altrui, sempre maschile ed etero-riferito, Joan Crawford risulta persa nella disperazione dell’età che avanza e dell’impossibilità di restare dentro quella prigione, nonché di uscirne. Il suo essere bella e diva le ha impedito di essere presa sul serio come professionista, e infatti ammira e invidia Bette Davis perché ha tutto quello che lei non ha mai avuto: il rispetto professionale.

Quello che sembra fare Murphy è anche mostrare i limiti di questa posizione, e lo fa proprio nella scelta di un’attrice come Jessica Lange. Jessica Lange è Joan Crawford: una bravissima attrice, con due premi Oscar, definita in passato dalla sua incredibile bellezza, e disseppellita dall’oblio da Ryan Murphy che ne ha fatto la sua musa (seppure, forse, costringendola sempre nello stesso ruolo).

Ageism: invecchiare sotto i riflettori

Il genere dell’hagsploitation che Ryan Murphy inscrive qui viene definito da Jack Warner come la pratica di “distruggere i propri idoli”, sottoporre inarrivabili icone di bellezza, fama e fascino a una storia degradante. Come già accennato, questa pratica non interpella gli attori. L’età è il fattore determinante del successo di un’attrice. Laddove un attore acquisisce fascino con l’età, l’attrice, ci viene detto, scompare. Il sessismo di Hollywood è un sessismo ageista, che discrimina su una doppia istanza di desiderabilità.
Alcune cose sono cambiate, o stanno cambiando, forse.

Penso a Catherine The Great, miniserie HBO il cui maggiore, forse unico, punto di interesse è il fatto che Helen Mirren, una donna di 74 anni, si ritrova a interpretare un ruolo che va all’incirca dai 40 fino ai 67 anni. Questa scelta di casting rivoluzionaria purtroppo non esplode sullo schermo, ma avrebbe potuto farlo se la serie avesse osato spingere di più sulla tematica della sessualità di Caterina. Il potere erotico di un corpo fuori norma (perché considerato fuori età) nel contesto generale di corpi estremamente più giovani, il desiderio che oltrepassa la superficie di ciò che è considerato lo standard per esporsi in tutta la sua natura istintiva, fisica, anteriore: ecco, questa sarebbe stata una di quelle storie che avremmo voluto goderci. Tuttavia, vedere Helen Mirren correre per i corridoi con le guance arrossate fa comunque il suo effetto.

Il modo in cui Hollywood trattava l’invecchiamento delle sue dive è di sicuro cambiato negli ultimi anni, il limite di età si è spostato in avanti, l’importanza e la ridefinizione dei ruoli da poter interpretare è aumentata, e sono cambiate le dive, più autonome e potenti, perché dotate di quel potere economico che prima le vedeva solo come oggetti e di cui, oggi, sono invece soggetti – a riprova che più che attendere che sia chi si trova ai posti di manovra a cambiare il modo di rappresentarti, la cosa più furba da fare è sedercisi, a quei posti di manovra. Tuttavia questo tema resta comunque di forte attualità, per il mondo in cui viviamo, in cui la narrazione implicita sembra essere l’eterno presente (“non ci sono vecchi, non si muore più” si diceva in Boris), e in cui comunque la maggioranza delle produzioni cinematografiche continua a mostrare corpi giovani.

L’idea della rincorsa impossibile del tempo che passa è il cuore della serie di Murphy. “Vorrei un po’ di più, solo un po’ di più”, dicono sia Jack Warner che Joan Crawford: un altro film di successo, altri cinque anni di bellezza e riflettori, un altro Oscar. Tutti i personaggi, in qualche modo, sono affranti da una stessa ossessione: l’ossessione della morte, del passato che incombe sull’assenza di futuro. E forse è questo a rendere così vicina, così nostra, una leggenda lontana nello spazio e nel tempo come Feud.

Perché.
Torniamo alla frase dell’inizio. La sfiducia reciproca alimentata da tutte le parti in causa riesce con successo a tenere Joan e Bette lontane, serve a depotenziarle, a isolarle, mentre intrattiene e alimenta la sua stessa retorica attraverso i media. Serve al mantenimento, non solo negli Studios, dello status quo. Ricordiamocelo ogni volta che qualcuno, anche distrattamente, reitera una generalizzazione discriminante come questa. Ricordiamoci che, anche se non abbiamo la forza di Murphy di dare una risposta, abbiamo comunque sempre il potere di domandarci perché.

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