Abbiamo assistito spesso alla discussione sul metodo che un lettore critico deve porsi rispetto a un testo. Il nostro punto di vista è che il metodo smonta-frasi senza contesto allo scopo di deriderle sia inopportuno, perché non ci piace deridere il lavoro degli altri, ma sia soprattutto fallace: quasi tutti i testi, soprattutto se romanzi, hanno in mezzo delle frasi brutte, insensate, sciatte o altro: fate la prova anche con i migliori classici e troverete abbastanza frasi da farvi dire “che?” e spingervi a scriverne una recensione sarcastica.
D’altro canto, siamo dell’idea che i testi “parlino” da sé, e che una serie di stralci messi in mostra, senza alcun accompagnamento critico, di analisi sull’autore, sul momento storico dell’uscita del romanzo, sui temi trattati, ecc, qualcosa da dire ce l’abbiano e siano in grado di significare almeno in parte la riuscita o la non riuscita di una scrittura. Questo è il nostro esperimento, la nostra camera di smontaggio.
smontaggio di Valentina Grotta
IL SALTO: ELEGIA PER UN AMICO
di Sarah Manguso
traduzione di Gioia Guerzoni
NNE
I SENTIMENTI DOCUMENTATI
Sull’edizione del giovedì del Riverdale Press c’era un articolo che cominciava con Ieri notte un uomo bianco non identificato è stato travolto da un treno della Metro-North che entrava nella stazione di Riverdale in West 254th Street. L’uomo è morto sul colpo.
Il macchinista aveva dichiarato alla polizia che l’uomo era solo e si era buttato sui binari. La polizia aveva rimosso il corpo e cercato i documenti, invano. I 425 passeggeri erano stati trasferiti su un altro treno, che era ripartito con una ventina di minuti di ritardo.
Se fossi una giornalista, avrei parlato con tutti e preso nota di tutto. Sarei andata in ospedale e avrei interrogato chiunque si trovasse nel reparto psichiatrico quando il mio amico, Harris, è uscito dalla porta. Solo così questo libro avrebbe potuto essere un resoconto accurato della verità.
Per scrivere i fatti in maniera responsabile, con sufficienti ricerche per confermarli, avrei dovuto chiedere a diverse persone dell’ultima volta in cui l’avevano visto. Ma ho paura a fare domande ai suoi genitori. Ho paura di parlare con la sua ultima amante. Ho paura di incontrare i medici, il macchinista.
Per tre anni ho studiato orchestrazione klezmer, fisica dei temporali, mappe dell’Europa dell’Est. Pensavo di poter barattare la mia vita con quelle ricerche inutili, infaticabili. Avevo talmente paura delle risposte che non ho fatto domande, e ora sono passati tre anni. Ormai nessuno ricorda più i dettagli di quel 23 luglio 2008.
Il dizionario definisce la psicosi come una condizione anormale della mente, il che non è molto specifico. La definizione clinica restringe il campo a una perdita di contatto con la realtà, ma come si può entrare in contatto con un’astrazione? La diagnosi dipende dalle affermazioni di una persona le cui affermazioni sono, per definizione clinica, inaffidabili. Le allucinazioni e le convinzioni illusorie potrebbero far parte di un comportamento insolito o bizzarro, una difficoltà nelle interazioni sociali e un’incapacità di svolgere le comuni attività quotidiane. Non c’è niente da misurare, solo giudizi su cosa è insolito o bizzarro, cosa costituisce una difficoltà o incapacità.
Negli ultimi undici anni ho preso vari farmaci psicotropi e sperimentato vari effetti collaterali, alcuni incredibilmente strani. Uno di questi, la discinesia, è spesso caratterizzato da movimenti ripetitivi, involontari, inutili, come fare smorfie, tirare fuori la lingua, far schioccare le labbra, contrarre e protendere le labbra. è un effetto collaterale molto diffuso dell’uso prolungato di farmaci antipsicotici. Negli ultimi mesi dei quattro anni in cui ho preso l’olanzapina, ogni volta che mentivo o dicevo qualcosa di anche solo vagamente insincero, la spalla destra scattava in alto e la testa si abbassava di colpo per incontrarla.
Ero abbastanza brava a incorporare il movimento involontario nei movimenti casuali, regolari che la gente giurava di non aver notato, ma dopo mesi, visto che i sintomi non se ne andavano, avevo sostituito l’olanzapina con la quetiapina, e la mia spalla aveva smesso di scattare.
Gli antipsicotici comportano il rischio di una vasta gamma di effetti collaterali, orientazione spaziale compromessa, risposte sensoriali compromesse. L’acatisia è più difficile da spiegare perché le parole usate per descriverne l’esperienza soggettiva sono inutilmente astratte: tormento, irrequietezza, sensazione di arti che tirano, spingono, ruotano, desiderio di muoversi, difficoltà a rimanere fermi. La parola è stata coniata nel 1901 da un medico ceco, Ladislav Haškovec, in una rivista medica francese. Per un crudele scherzo del destino, i suoi indicatori oggettivi sono indistinguibili da quelli dell’ansia. Haškovec riportò due casi di un curioso disturbo del movimento. In un caso: Il paziente aveva un passo normale, ma appena si sedeva cominciava a sobbalzare come se fosse in sella a un cavallo. Per due settimane aveva anche avuto “le formiche” alle dita, e per un periodo più breve aveva sentito qualcosa contrarsi in bocca. Quando veniva costretto a sedersi, all’improvviso saltava in piedi, poi si rimetteva seduto. I suoi movimenti sembravano automatici, involontari, guidati, e il paziente li viveva così. Nell’altro caso: Il paziente non riusciva a stare seduto, nemmeno per poco. Appena si sedeva, scattava in piedi con violenza, che fosse da solo o in un luogo pubblico. A volte doveva afferrare il tavolo per impedirsi di saltar su. Quando riusciva a sedersi, gli rimaneva la sensazione di saltare.
L’acatisia acquisì rilevanza clinica negli anni Cinquanta, quando vennero sviluppati i primi farmaci antipsicotici potenti. La condizione sembrava manifestarsi più di frequente a dosaggi più alti. Alcuni studi ora mostrano che, con dosaggi clinici, il 75% dei pazienti soffre di acatisia. Sofferenze straordinarie. Inquietudine intollerabile. Disagio insopportabile. Sono le parole usate dalle riviste mediche. Gli antipsicotici di seconda generazione, che presentano meno rischi di effetti collaterali – quelli relativi alla rete neurale implicata nella coordinazione motoria – sono stati introdotti negli anni Novanta, e hanno iniziato a sostituire quelli di prima generazione. L’acatisia esiste ancora, però. Ma oggi è un effetto collaterale riconosciuto degli antipsicotici e anche degli antiemetici un tempo usati come antipsicotici. È possibile che alcune persone siano più soggette di altre. Il fenomeno è riconosciuto ma può essere difficile diagnosticarlo quando i sintomi si sviluppano gradualmente o senza adeguata supervisione clinica. Spesso i pazienti fanno fatica a tradurlo in parole, e di conseguenza viene interpretato erroneamente come ansia acuta, depressione, psicosi, agitazione, mania, terrore, rabbia. Se ci fosse un modo per descrivere con maggiore chiarezza l’esperienza di questo disturbo, per i medici sarebbe più semplice diagnosticarlo, curarlo e prevenirne le conseguenze più comuni, che nella letteratura medica sono identificate prevalentemente in omicidio e suicidio – in particolare saltando nel vuoto.
MODI DI DESCRIVERE L’AMORE
Un pomeriggio d’estate, Harris mi propose di uscire con lui per un attimo, lontani dalla musica e dalla folla.
Mi portò fuori. Il sole bruciava. Eravamo sul lato di un palazzo e io parlavo di qualcosa finché Harris non capì che non sarebbe riuscito a dirmi quello che voleva. Tornammo dentro.
Vorrei tanto mostrarti il mio pene, disse, come se fosse un dipinto o un paese. Dio, vorrei proprio farlo. In molti dicevano che fosse un organo maestoso, il più grande che avessero mai visto. Vivevamo ancora con altri tre ragazzi in quel loft spoglio, e quando ero a casa annullavo quasi del tutto il mio sesso, così quando i maschi valutavano altre donne io potevo ascoltare e persino partecipare un poco, senza farmi schiacciare dall’ irrilevanza della mia femminilità. Per anni ascoltai senza provare niente battute sui cazzi, aneddoti crudeli e giudizi. Alcune donne, parlandone tra loro, avevano confermato il primato del pene di Harris.
Alla fine l’avevamo accettato nel nostro mondo, come la stempiatura di un coinquilino e le lamentazioni di un altro. Harris era quello con l’orecchio per la musica, la bici pieghevole, e il pene enorme. A parte un paio di baci da ubriachi, Harris e io non avevamo mai cercato di toccarci, quindi il suo pene con me era al sicuro, privo di responsabilità e di potere. Potevamo parlarne come se fosse un fantastico ristorante in un’altra città. Per anni avevamo ripreso con passione l’argomento del suo pene eccezionale. Discutendone, ogni volta riflettevamo sui nostri sentimenti – sarei mai riuscita a farmi mostrare quell’organo meraviglioso? Ci saremmo ripresi? E se non fossimo riusciti a riprenderci, ne sarebbe valsa la pena, vederlo anche solo per un istante? Se fossimo finiti a letto non avremmo mai potuto parlare così del suo pene. Ora fa parte dei grandi misteri.
Non avevo ancora vent’anni, e stavo davanti a un ragazzo con una chitarra bianca, a un concerto a casa di qualcuno in una città del Massachusetts. Lui suonava e si guardava le dita e guardava in giro per la stanza, ma non guardava mai me. Mi concesse di provare desiderio, fu come un dono. Avevo bisogno di goderne, di patirlo. La voglia urlava in me. Urla ovunque, quella furia beata. Ecco cosa mi aveva fatto il ragazzo con la chitarra bianca. È confortante sapere che l’altro ti amerà sempre più di quanto tu ami lui. Se dura abbastanza a lungo, succede una cosa singolare – incominci ad amare l’altro di più proprio perché ti ama di più. Poi, quando muore, ti chiederai come la sua morte abbia potuto incenerirti completamente – eppure ecco, esci dalle fiamme in una forma che non riconosci più.
RIUSCIRE A DESCRIVERE LA MORTE
Avevo scritto il mio necrologio subito dopo il college. Mi sembrava indispensabile, come sapere il mio codice fiscale. Ogni tanto lo modificavo, aggiungendo nomi di libri e di città. Scrissi anche il messaggio che sarebbe stato trovato vicino al mio cadavere. Per anni lo avevo salvato nel mio archivio in modo da trovarlo in caso di bisogno, ma ora non mi serve più. Ora lo salvo per ricordarmi quanta strada ho fatto da quel luogo dove nessuno viene ad aiutarti. Lo scorso anno un mio collega, con cui andavo spesso a bere qualcosa e a parlare delle sue e delle mie poesie, si è messo in bocca la canna di una pistola e ha premuto il grilletto. Ho provato un’eco di quell’antica sensazione – che ero avanzata di una tacca, che ero di una morte più vicina alla soglia – ma era un’eco debole. Mi sono sentita isolata dalla mia morte da quando ho iniziato a prendere un nuovo farmaco. Non ho più l’urgenza di scrivere poesia, ma ho barattato la poesia per una vita più lunga, ben sapendo di farlo. Un tempo credevo che la morte sarebbe arrivata quando fossi stata pronta a superare quell’ultima soglia. Finito di soffrire, avrei aperto la porta. Ci credo ancora, ma ora credo che la porta l’aprirà qualcuno o qualcos’altro.
Harris e io eravamo seduti a McCarren Park in un pomeriggio di sole. Forse avevamo preso un gelato. Faceva molto caldo, così caldo che io, con un vestitino e le infradito di gomma, ero uscita solo con le chiavi di casa in mano, e avevo risalito Bedford Avenue per incontrare il mio amico sul prato polveroso. Rimanemmo sull’erba finché non fu quasi buio. Harris aveva accennato a una festa dove si ballava, nel Queens. Io non potevo andarci perché non avevo un maglione per l’aria condizionata della metro, né scarpe adeguate, né il portafoglio, non avevo niente. Faceva così caldo che non avevo messo nemmeno le mutande. Harris mi convinse ad andare con lui alla festa, disse che avrebbe pensato lui al biglietto e a tutto il resto. Il nostro amico Victor era appena morto. Mi sentivo triste, ma soprattutto mi sentivo in salvo. Ormai Victor era morto e io potevo prendere la linea G di notte senza mutande. Ora che Victor era morto, io non sarei mai morta. Non avremmo avuto più niente a che fare con la morte, noi che avevamo parlato con Victor, o gli avevamo scritto nella settimana in cui era morto. Avevamo ventotto, ventinove, trent’anni. Victor aveva esaurito la nostra dose di tragedia. Sarebbe passato parecchio tempo prima che toccasse a qualcun altro.
IL CORAGGIO DI DIRE COSE VERE MA CATTIVE
Il dolore che porto con me ora, e che a volte si attenua senza preavviso, non è il suo. Questo dolore è mio, e a differenza del mio amico, non cerco di nasconderlo. Lascio che ricopra tutto. Urlo in casa. Piango in metropolitana. Dico a tutti quelli che conosco che il mio amico si è buttato sotto un treno.
Tre mesi dopo il funerale, decisi di non partecipare al concerto commemorativo che era stato organizzato dai suoi amici perché non volevo andare avanti senza Harris. Gli altri potevano rimanere in lutto, obbedienti, io non ci stavo.
Sto allevando il minuscolo bambino irrazionale della morte di Harris. Si nasconde, poi spunta, ed esige tutta la mia attenzione e la mia energia. Io limito la sua sfera d’azione: quando insegno non ci penso, quando corro non ci penso, quando sono con altri non ci penso. Ma poi si sorprende e devo andare a casa e stare con lui, prendermene cura. Mi impegno a prendermi cura di quel bambino irrazionale. Sta imparando a comportarsi bene. Non penso di poter vivere senza Harris, gli dico.
Ti sorprenderà scoprire di quante cose puoi fare a meno, mi dice.
A volte vorrei che fosse morto qualcun altro – tipo quelli che si piazzano davanti alle porte della metro quando si aprono o che buttano a terra i gusci delle noccioline. Il pensiero arriva come un lampo – posso riportarlo in vita!