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Euphoria: rappresentare la generazione post 11 settembre

C’è stato un periodo molto preciso degli anni 2000 in cui sono uscite, quasi contemporaneamente, tre serie teen: una ambientata a Bristol, in Inghilterra, una a New York, o meglio, nell’Upper East Side (che dire New York in effetti è mancanza di precisione), e una a Beverly Hills. Quelle ambientate negli USA hanno a poco a poco perso il mio interesse, tanto che delle ultime stagioni, lo confesso, ho solo letto i riassunti degli episodi. La serie britannica è diventata invece il mio standard di riferimento per quanto riguarda i teen drama. E sì, mi riferisco a Skins. Il motivo principale per cui Skins vinceva è perché aveva un cast di attori emergenti strepitosi e vivissimi, che riuscivano a riportare in scena dei personaggi adolescenti credibili scritti benissimo, liberi dall’incombenza di ogni tipo di paternalismo moralizzante. Ed è proprio a Skins che ho pensato in diversi momenti, in quelli migliori, di Euphoria. In altri, decisamente no.

Euphoria

Euphoria racconta le vicende di un gruppo di liceali in una non precisata e eterotopica cittadina suburbana, presumibilmente californiana, nonostante non ci sia dato saperlo per certo. Gli unici luoghi a cui viene dato un nome sono quelli in cui non si è, e questa precisa scelta narrativa, più che privare l’ambientazione di connotazioni, aggiunge pezzi, atmosfera, ampiezza. L’estate scorsa, prima ancora che andasse in onda, la serie si è imposta sui social con un hype alle stelle. Le aspettative amplificate dalla fortissima presenza online dei protagonisti e da una campagna di promozione fortemente accattivante sembravano precursori di un prodotto artisticamente e narrativamente rivoluzionario. Be’, non è stato proprio così. Euphoria è una serie che riesce a sollevare delle tracce, soprattutto nelle scelte dei personaggi e di alcuni dei temi affrontati, lasciando però dei fili sospesi qua e là e perdendosi un po’ per strada.

La questione del target

Se la produzione di Euphoria è partita come un chiaro tentativo della rete di appassionare i più giovani, il fatto che Euphoria non sia priva di quell’istanza pedagogica di fondo la cui assenza rendeva Skins una serie davvero rivoluzionaria, sembra dirci il contrario. Il target di riferimento non è infatti così palese. La voce narrante principale è quella di Rue che, soprattutto quando parla di nudes, porno, dickpic, sembra rivolgersi a uno spettatore adulto, lasciando così intendere che più che una serie per i teen si tratti di una serie sui teen.

Alcuni dei momenti in questo senso più problematici riguardano la narrazione del rapporto di Rue con la tossicodipendenza, narrazione che si completa con una lettera dolorosa della madre, spostando il punto di vista dalla ragazza verso l’esterno, quasi a voler “educare” lo sguardo sull’abuso e sui suoi effetti per le persone intorno al tossicodipendente. Inoltre, un momento dai chiarissimi toni moralizzatori è la precisa scelta narrativa del racconto dell’interruzione di gravidanza di Cassie, una scelta non proprio felice (la ragazza non è sedata, l’intervento ci viene rappresentato come un momento fortemente doloroso), decisamente manipolatoria, il cui unico scopo è fare da monito verso la giovane donna che guarda la scena e vede a cosa andrebbe incontro nel caso si ritrovasse nella stessa situazione.

I marcatori di posizione

Ci sono, tuttavia, degli aspetti di novità nella serie, aspetti che la spostano dal piano della classica narrazione teen per farne un prodotto non esattamente rivoluzionario, ma “diverso”. Questi aspetti hanno a che fare con la scelta della generazione narrata e dei temi scelti. Nei primi minuti della serie ci vengono assegnati tre marcatori di posizione: tempo, spazio e classe sociale. Ci viene detto che Rue è di famiglia middle-class, come lo sono la maggior parte dei personaggi rappresentati. Tutti vivono in un american suburb, ed ecco perché parliamo di eterotopicità: una cittadina uguale a tante altre, che più che un luogo è uno spazio culturalmente connotato, ricco di contenuto immaginativo, determinato in contrapposizione binaria con la città. Soprattutto, ci viene detto che Rue nasce a tre giorni dall’11 settembre. Questa data è il preciso marcatore temporale di spartizione tra i millennials e la generazione Z, ed è una data portatrice di diverse indicazioni.

Rue è nata nel bel mezzo di un trauma collettivo, in un’America devastata che passava le giornate davanti allo schermo a guardare e riguardare quelle scene, immersa in un dibattito che spaziava tra libertà, sicurezza, scelte di guerra, opzioni di sorveglianza e tutta una serie di elementi che hanno sconvolto completamente il mondo globalizzato. L’11 settembre ha tirato fuori, negli anni successivi, il peggio degli Stati Uniti. I concetti di eccezionalismo e libertà si sono riconfigurati su un discorso pubblico intriso di paura, razzismo, individualismo, politica aggressiva, discriminazione. Monsin Hamid ci restituisce perfettamente quel clima nelle pagine de Il fondamentalista riluttante. Ed è in quel clima che sono cresciuti i nostri protagonisti: senza aver vissuto in prima persona la ferita dell’evento scatenante, si sono ritrovati all’interno di una narrazione del mondo che, da che loro hanno memoria, ha sempre viaggiato sui binari dell’incertezza e dell’angoscia. Quello che ci appare chiaro dalle storie di Euphoria è che cosa significa essere adolescenti in un panorama di crisi permanente, in cui la narrazione collettiva è una narrazione fatta di toni paranoici e spaventati, sempre sull’orlo dell’apocalisse. Rue lo dice chiaramente, motivando così la sua scelta di riprendere a farsi:

“Il mondo sta per finire e io non ho ancora nemmeno preso il diploma” (S01E01)

Personaggi e relazioni

La generazione che ci viene rappresentata come apatica, cinica, senza sogni (fatta eccezione per Jules, che è l’unica che esprime un desiderio di futuro) è in realtà una generazione che non si riesce a proiettare fuori dal liceo, che sembra essere bloccata in quella posizione. Questi ragazzi sono l’immagine palese della rottura dell’American Dream. Lo vediamo soprattutto in Maddy, che non ha voglia di “fare niente” nella vita, e nel personaggio di McKay, personaggio portatore di ambiguità e complessità che speriamo di vedere maggiormente sviluppate in una seconda stagione, che dopo essersi reso conto della bugia interna alla success story, la classica narrazione americana dell’avrai successo se ti impegni abbastanza (portatrice del giudizio intrinseco parallelo: se non hai successo, significa che non ti sei impegnato abbastanza), decide di lasciar perdere. Non esiste più il classico personaggio overachiever da teen drama, una Joey Potter, una Rory Gilmore, una Blair Waldorf. Sam Levinson fa completamente a pezzi questa dinamica, lasciando i sogni intatti solo in Jules.

Jules, unico personaggio ottimista, proiettato in avanti, tutto sommato “felice”, e in questo rappresenta una forte svolta narrativa nello stereotipo della narrazione trans. Jules non è predeterminata dal trauma, le sue azioni si svolgono con la consapevolezza di chi si muove in uno spazio marginale rispetto al resto del gruppo, senza però vittimizzarsi neanche minimamente. Jules inoltre rappresenta “lo straniero” contro cui si accanisce suburbia, ma, anche in questo senso, la ragazza non si frantuma di fronte all’accanimento della famiglia Jacobs. Mantiene sempre una sorta di controllo, di agency.

Veniamo al rapporto tra Maddy e Nate, una relazione complicata non solo dai problemi relazionali di Nate, ma anche dallo scontro di tipo sociale tra i due. Maddy è un’immigrata di seconda generazione, ed è portatrice di una retorica inerente alla narrazione di questa tipologia di personaggio, la retorica della rivincita e dell’emancipazione economica. La sua dissociazione dalla famiglia, esplicitata dalla lite con la madre in doppia lingua, è una dissociazione funzionale alla scalata sociale. Tuttavia, non sembra esserci un lieto fine in questo senso per Maddy, che non gode della benevolenza della famiglia Jacobs.

La famiglia di Nate è l’emblema della realtà suburbana. In Euphoria, la cartolina di suburbia resta un’immagine bidimensionale che non fa neanche lo sforzo di celare il senso di cupezza interna, fatta di bugie e violenza, dove cose terribili accadono per mano del più influente dei cittadini, Cal Jacobs, colui che ha materialmente costruito la città – e infatti lo vediamo anche in una scena ambientata in un cantiere, segno che la città non sta smettendo di “crescere”, che suburbia è in continua espansione. Nate Jacobs è il prodotto dell’educazione alla competitività aggressiva, all’arrivismo, alla mascolinità tossica. Sin da bambino ha respirato questo tipo di retorica, e la figura del padre dalla doppia vita (richiamo all’American Beauty di Sam Mendes), in questo senso, rappresenta un po’ una sorta di schizofrenia di Nate, che vive sempre sull’orlo della crisi e dell’accesso di rabbia. Tutto il suo sguardo su Maddy è spaventoso: nella narrazione di Nate, Maddy è la ragazza da proteggere dai pericoli esterni, la proiezione della retorica della damsel in distress, finalizzata alla funzione di accrescimento del personaggio maschile, alla sua affermazione di forza. Il povero Tyler Clarkson sembra quasi un prop, uno strumento di scena del gioco di ruolo crudele per cui Maddy si presta a un bisogno di Nate, quello di proteggerla, come di solito si piega ai suoi desideri sessuali.

I temi e le rappresentazioni

Tra i punti di maggiore interesse sollevati da Euphoria, c’è la narrazione normalizzante dello slutshaming, privato della sua forza distruttrice e addirittura capovolto, da Kat, che lo trasforma in uno strumento di empowerment. Se di norma i teen drama degli ultimi anni ci hanno abituati alla narrazione tragica e ineluttabile degli effetti dello slutshaming, Euphoria apre alla possibilità di una visione alternativa, rimettendo le ragazze che lo subiscono in una posizione attiva, non sacrificale, e privando così la pratica dell’aura di orrore di cui è solita essere rivestita. Non si tratta di giustificarlo, tutt’altro. Si tratta di deponteziarlo.

Inoltre, uno dei meriti maggiori di Euphoria, qualunque sia il target a cui si rivolge, è quello di non aver paura di mostrare l’effetto principale della pornografia: quello di costituire cioè una piattaforma di educazione sessuale, che ci piaccia o meno. Come abbiamo già detto in passato a proposito di The Deuce, è importante prendere atto di questo discorso, anche in funzione di un’assunzione di responsabilità. La scena della prima volta tra Cassie e McKay, con l’uso della voce narrante esplicativa di Rue, ci dice molto su quello che i più giovani possono arrivare a pensare di “dover fare”, e di “doversi far piacere”. Tutto questo avviene senza giudizi morali, senza manipolazioni delle reazioni del pubblico (al contrario della narrazione dell’aborto), e viene inoltre utilizzato per sollevare un altro discorso: quello del consenso. Cassie non rifiuta il chocking di per sé, rifiuta la sorpresa:

“Non farlo più, a meno che non sia io a chiedertelo” (S01E01),

dice.

Ed è in queste cose che Euphoria vince, nelle questioni sollevate e nel potenziale di discussione intrinseco, più che nella trama in sé. Per quella, aspettiamo la seconda stagione, e speriamo bene.

2 Comments

  1. Alessandra says

    Ho guardato Euphoria durante l’estate, in lingua originale, prima che uscisse per il mercato italiano e – dunque – prima dell’Hype che ha preceduto la nostra versione. Durante la visione lo consigliai a tutti e pregai che uscisse anche qui, nonostante io – personalmente – già quarantenne, non ami le serie che trattano di temi adoloscenziali o comunque i teen movies. A mio parere, invece, la forza di questa serie sta nella bravura dei giovani attori e degli sceneggiatori; quel che mi ha colpito da subito è proprio l’assenza di una trama vera e propria e di un filo conduttore, oltre che il tentativo di non trattare personaggi inquadrati nel classico canone (eroe positivo, eroe negativo, protagonista benevolo, nemico, ecc.) ma di connotare tutti quanti di aspetti sia negativi che positivi (come qualsiasi essere umano è, al di fuori del mondo del cinema), talvolta contraddittori, dando dunque una visione d’insieme molto realistica rispetto ad altri serial o telefilm dello stesso genere o per lo stesso pubblico che sono solitamente molto più stereotipati e patinati. Quel che mi ha infatti deluso, verso gli ultimi episodi e comunque a stagione terminata, è stato proprio il fatto che abbia preso una direzione forzata (forse proprio per aprire la serie ad una seconda stagione), inquadrandosi all’interno di una trama e di un personaggio già visti e scontati: mi riferisco al ruolo di Nate e agli eventi di cui è protagonista. Mi è dunque parso, a quel punto, la copia di tanti altri prodotti del genere (addirittura di vecchi telefilm o soap opera americane) che si riducono alla presentazione e risoluzione di un evento, spesso drammatico, ben preciso e sempre uguale. Sono del parere, insomma, che dovesse rimanere molto più sfocato, onirico, insoluto, con una trama verticale più che orizzontale, lasciando lo spettatore smarrito e presentando qualcosa di nuovo (come nei primi episodi), dove non fosse possibile doversi per forza identificare nell’uno o nell’altro, dove la divisione bene/male non fosse così canonica e classica, dunque cinematografica.
    Alessandra

    Piace a 1 persona

    • Ciao Alessandra, sono d’accordo con te su tutto. I giovani interpreti e i loro personaggi, sono probabilmente il vero punto di forza della serie. Val la pena vederla anche solo per Zendaya, che è davvero bravissima. Come scrivi, la piega che ha preso la trama di Nate negli ultimi episodi risulta forzata, scontata, ma anche, devo dire, non necessaria e un po’ buttata lì. Io credo che se fosse rimasta, per dire, solo una storia di dipendenza, e delle difficoltà legate a questa, sarebbe stata una storia che avrei ascoltato con più passione. Grazie del tuo commento, se sei su Facebook ti invito a iscriverti al nostro gruppo, Visionari! Trovi il link nell’articolo, l’argomento del mese sono le miniserie, stiamo vedendo “Feud: Bette & Joan” e “Catherine the Great”.

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