fuori serie, studio & analisi critica
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“Quando si tratta di scopare siamo tutti bestie selvagge”. “The Deuce” e la riscrittura porno di Cappuccetto Rosso.

di Chiara M. Coscia

Vi siete mai chiesti come mai abbiamo paura dei lupi?
I lupi sono animali schivi, in Italia specie protetta che rasenta il rischio dell’estinzione, parenti prossimi di quello che consideriamo da sempre l’animale amico per eccellenza: il cane – eppure da sempre consideriamo il lupo come bestia selvaggia e feroce.
Probabilmente la colpa è di Cappuccetto Rosso. Le fiabe, come i miti, i testi sacri e le leggende, sono i testi autoritari per eccellenza. E la scelta del termine – autoritario – non è esagerata. Sin dall’infanzia veniamo sottoposti – più o meno metodicamente, più o meno consapevolmente – a una serie di meccanismi di modellizzazione veicolati in questi racconti che cominciano e finiscono tutti allo stesso modo, che sono corredati da immagini bidimensionali senza tempo, ambientati in luoghi inesistenti, e che hanno il preciso scopo di insegnarci come stare al mondo. Le principesse sono tutte bellissime e bionde, e quando sono more hanno la pelle bianca come il latte. I principi sono tutti coraggiosi e forti. E le bambine che disobbediscono alla mamma finiscono divorate nella pancia del lupo, che è sempre molto, molto cattivo. È la funzione primaria delle fiabe quella di essere meccanismi culturali di formazione potentissimi.
Lo sa anche David Simon, che ha usato proprio la fiaba di Cappuccetto Rosso nella seconda stagione della sua ultima serie TV, The Deuce.

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The Deuce  (HBO, 2017), il cui mondo narrativo è pieno, multistrato, e innervato in tutti i livelli della città di New York, ruota intorno alla nascita dell’industria del porno negli anni Settanta. Sin dai primi episodi, nella narrazione del mondo della prostituzione e in generale nel mercato del sesso, la serie ci racconta la misoginia penetrata e penetrante, presente in tutti i livelli di quel mondo, dal cliente al pimp – il pappone, dai poliziotti ai gangster, fino a essere perpetrata dalle lavoratrici stesse. Tuttavia, The Deuce sollecita nel racconto una distanza critica fortissima tra noi e lo sguardo maschile automatico che ci verrebbe da applicare, senza mai stanziarsi in una narrazione della prostituzione come veicolo di piacere maschile puro e semplice, ma lasciandoci intravedere ogni complessità del discorso femminile in atto. La mercificazione del corpo è esplicita, la diseguaglianza estrema in termini di gender è obiettiva, i meccanismi subdoli, volgari e violenti del sesso a pagamento sono rappresentati senza filtri né enfasi titillante ed eccitante. Vediamo corpi nudi fare sesso, si parla di sesso, ci ritroviamo proiettati sul set dei primi film porno, ma c’è più erotismo in un episodio a caso di Grey’s Anatomy che in The Deuce. Questo perché il sesso e il corpo sono rappresentati nella propria essenza transazionale, più che sessuale.

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foto di jon moore

Quelli di Candy, Ruby, Lori, Darleen, Ashley e le altre sono corpi politici, non corpi privati. Lo sguardo maschile è compensato dalla prepotenza delle figure femminili, iper-presenti e magnifiche. Gli showrunners della serie, David Simon e George Pelecanos, non hanno avuto paura ad affidare la regia di molti degli episodi a donne, pensando al benessere e alla riuscita finale della serie – e a ragione. A partire dal casting, a cura di Alexa Fogel. Il corpo femminile non è condensato nella solita e sempre uguale immagine della sex worker bellissima e perfettamente sfatta, sempre bianca, sempre magra, sempre giovanissima. I dettami della donna bianca/Barbie/perfetto oggetto sessuale sono stravolti in questa serie che ci mostra corpi di tutte le forme e dimensioni, corpi veritieri, senza espliciti segni di chirurgia plastica, portatori di seni di ogni taglia, forma e colore. C’è una molteplicità e un realismo nella scelta dei corpi che raramente troviamo in una serie TV statunitense. Infatti, se talvolta il Regno Unito ci regala personaggi bellissimi e credibilissimi nei loro capelli unti e nel grigiore delle loro occhiaie, un elemento di riconoscibilità immediata nelle serie TV americane è la bellezza uniforme e onnipresente degli attori. Soprattutto delle attrici. Ma in The Deuce no.
Il lavoro eclettico e iper-realistico di casting trova eco in un dialogo del primo episodio.
CeCe e Reggie Love, due dei papponi protagonisti della serie, discutono di corpi femminili. Reggie, riferendosi a una donna nera dalle forme generose, afferma che non potrebbe mai averla tra le sue ragazze, perché i suoi clienti sono bianchi, e per loro un corpo così sarebbe troppo, li intimidirebbe. “Troppo culo” dice.

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In The Deuce troviamo la storia di Eileen aka Candy (interpretata da Maggie Gyllenhaal, che è anche produttrice della serie) che è una perfetta storia di autodeterminazione e auto-affermazione femminista.
Negli anni Settanta il mercato del sesso nella zona intorno a Times Square è in pieno fulgore, e mentre dal punto di vista dei maschi coinvolti (tutti) la ripetitività dell’atto e la soddisfazione fisiologica ai fini monetari sono tutto ciò che questo mercato rappresenta, Candy, ex sex worker votatasi a fare prima l’attrice e poi, pian piano, l’assistente alla regia in una piccola casa di produzione porno dell’East Coast, intravede la possibilità di fornire un racconto che sia artisticamente e realisticamente valido, affascinante, caotico, eccitante, e soprattutto non più sempre e inesorabilmente eterodiretto. La sua crescita professionale dalla strada alla macchina da presa, che è un po’ il viaggio dell’eroe americano self-made man (in questo caso woman), un po’ incarnazione dell’ascesa del sogno americano più profondo, si muove sui binari dell’espressione creativa e artistica e dell’autodeterminazione sessuale.Nel primo episodio della seconda stagione, Harvey Wasserman (interpretato da David Krumholtz), regista porno e mentore di Candy, prova a smontare le velleità artistiche e di ricerca presenti nelle inquadrature girate dalla donna, indugianti e focalizzate sull’inconscio femminile, di cui Candy prova a mostrare la caoticità e complessità nel momento del piacere assoluto, e le ricorda che “Agli uomini non importa stare nella testa di lei”. La ragion d’essere del porno è la gratificazione del piacere maschile.
Ma Candy non si rassegna. La sua è una ricerca privata, che parte dalla necessità personale di trasformazione. In quanto lavoro, per lei, da mercificante il sesso può – e deve – diventare performativo. ed ecco che Candy, nella sua ricerca di una narrazione che metta in scena il sesso come “la fame, il terrore, il rischio” sceglie proprio Cappuccetto Rosso come testo da riscrivere in chiave porno.

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Le fiabe nascono come testi oralmente tramandati e hanno vissuto una formalizzazione letteraria tra il 1600 e il 1800, per mano di studiosi, letterati, linguisti che, come Charles Perrault e i Fratelli Grimm, erano tutti consapevoli della valenza sociologica e ordinativa di questi testi. In questo senso, la prima scrittura in sé delle fiabe è stata un’operazione di secondo grado, una ri-formulazione del testo, privato così della morbidezza e della duttilità del testo orale, e immobilizzato per sempre in una versione. La struttura formale delle fiabe – della cui formalizzazione si è occupato più di tutti Vladimir Propp nel 1928, con quel testo sacro di narratologia che è proprio Morfologia della Fiaba – si specchia nella struttura formale del porno.
Nella fiaba esiste una struttura tripartita che parte da una trasgressione iniziale e termina in una ricomposizione finale: rottura-iniziazione-ritorno o emancipazione. Il rituale iniziatico di trasformazione passa attraverso questi tre passaggi. Anche il film porno classico ha dei passaggi molto precisi, sempre uguali, sempre gli stessi. Comincia sempre con un incontro casuale e finisce sempre con il proprio personalissimo lieto fine: l’orgia. Le fiabe partono dagli argomenti più profondamente umani che ci siano, amore e potere, e ne stabiliscono i pattern di avanzamento in maniera strutturata e precisa. Il porno, per quanto ci piace pensare sia meno mainstream delle fiabe (ma è davvero così?), ha un ruolo cruciale nello stabilire dei pattern non solo di immaginario, ma anche di comportamento sessuale.
Questo discorso è stato recentemente sollevato dallo spot del Salon Erotico de Barcelona.
Da anni la comunicazione del Salone si fa sempre più politica e attenta all’attualità, mirando a mostrare come il porno faccia parte della nostra quotidianità e come tale vada discusso e affrontato, senza ipocrisie né finti moralismi.
Nel video di presentazione dell’edizione di quest’anno, il Salon è andato oltre. Il titolo del video è Senza educazione sessuale:

In una società senza educazione sessuale, il porno fa da manuale di istruzioni. E questo significa che non solo ci insegna il “come”, ma detta anche i confini di ciò che è lecito e normalizzato. E quindi una donna ubriaca diventa un’opportunità, se non oppone resistenza non è stupro, e tutta una serie di costanti sessiste iper-presenti nella pornografia da sempre – ma forse diventati ancora più assimilabili dall’arrivo dell’amatoriale. Nel finale del video del Salon Erotico de Barcelone, viene detto che “Il porno è il corso di educazione sessuale, forse l’unico, a cui i nostri figli parteciperanno.” Ecco perché l’industria deve farsi carico di questa responsabilità, ed ecco perché è necessario che il porno cambi. E per cambiare, il porno ha bisogno che le donne abbiano un ruolo sempre più attivo e creativo nell’industria.
Sia la fiaba che il porno sono veicoli di circolazione ideologica, soprattutto per quanto riguarda quell’ideologia del gender di cui tanto si parla e troppo spesso a sproposito (interpretando il concetto in maniera diametralmente opposta a quello che è davvero un condizionamento ideologico di gender). Nel loro essere astoriche, acroniche, universali, le fiabe e le narrazioni porno possiedono un potere enorme di introiettabilità, e la variabilità infinita del contenuto ha comunque, sempre, un’estrema tensione alla struttura e alla stabilizzazione all’interno di una cornice preformata.
E se la versione di Perrault di Cappuccetto Rosso – la prima versione scritta della fiaba che risale al 1697 – terminava con la morte della bambina nella pancia del lupo, e con tanto di monito alle giovinette (sì, alle giovinette) che disobbediscono all’autorità, in quella dei Fratelli Grimm (1857) interviene un nuovo personaggio, il cacciatore – il maschio salvatore – a liberare non una ma ben due donne dalla pancia del lupo.
Insomma, sembra proprio non esserci soluzione di autonomia per la povera Cappuccetto: o viene salvata da un maschio, o muore nella pancia di un altro maschio. Almeno fino agli anni Settanta del Novecento.

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foro di carson arias

Come Candy, infatti, e negli stessi anni in cui David Simon posiziona Candy, altre autrici hanno utilizzato le fiabe come punto di partenza di una narrazione personale, che da autoritaria diventasse sovversiva.
La più famosa riscrittura di Cappuccetto Rosso l’ha fatta Angela Carter, in La camera di sangue (1979), una raccolta di riscritture di fiabe classiche, come Barbablù, Biancaneve, La Bella e la Bestia, in cui Cappuccetto Rosso compare in tre versioni diverse. Nella prima, “Il Licantropo”, Cappuccetto Rosso uccide sia il Lupo che la Nonna, rivelatasi essere essa stessa il Lupo, lapidandola a morte, e vivendo poi felice e contenta nella casa dell’anziana. Nella seconda versione, “La compagnia di lupi”, Cappuccetto Rosso finisce a letto con il lupo, che le si mostra sotto le sembianze di un ragazzo affascinante ma che comunque ha divorato la nonna. Nella terza versione, “Lupo-Alice”, Cappuccetto Rosso è una bambina allevata dai lupi.
Oltre ad Angela Carter, anche Anne Sexton ha riscritto le fiabe classiche, in una raccolta di poesie intitolata Transformations (1971), in cui la versione dei Fratelli Grimm di Cappuccetto Rosso viene attualizzata nell’America suburbana in pieno sviluppo al tempo e rielaborata in chiave parodica.
Come per queste autrici, la Cappuccetto Rosso di Candy si trova a occupare una posizione diversa da quella classica. È una ragazzina che vive per strada, a New York, in quella stessa New York e in quelle stesse strade in cui la regista ha lavorato e che l’hanno formata, cambiata, segnata. Il suo è un racconto ambientato nello spaventoso bosco urbano della 52esima, in cui la ragazzina terrorizzata dal lupo cattivo è interpretata da una promessa del porno, nonché sex worker, Lori, che vive con il suo pappone un rapporto morboso di totale dipendenza-abuso e che alla fine del film di Candy avrà la sua rivalsa sul lupo cattivo, interpretato (guarda un po’) proprio da uno dei pimps, reinventatosi attore porno. La serie fa un incredibile lavoro di mise en abyme attraverso il racconto del film nello show, che Candy riesce a finanziare solo prestandosi alle richieste sessuali di un produttore di Los Angeles, e che viene girato nello stesso episodio in cui vediamo tutti i papponi di New York soccombere all’avanzata dei tentativi di decriminalizzazione della prostituzione e del cinema porno, entrambi fattori di depotenziamento di ruolo.
Attraverso la riscrittura, la fiaba riacquista il potenziale di incantamento, stupore, meraviglia, proprio nello stravolgimento del meccanismo di aspettativa che ingenera. Solo attraverso una rifunzionalizzazione della fiaba può avvenire la trasformazione.
E così nel finale del film di Candy, la passività della donna nell’atto sessuale viene rivoltata, riscritta. “Non c’è bisogno del cacciatore”, dice la regista, nonché attrice nelle vesti della nonna di Cappuccetto Rosso, mentre insieme alla fanciulla si accinge a divorare il lupo, legato al letto, reso vittima passiva del piacere (come accade sempre alle donne nel porno), e pronto a lasciarsi mangiare.

foto di copertina di ian dooley

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