studio & analisi critica, tropici
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Fare un buco nell’acqua

I tropi narrativi sono quegli strumenti di cui si serve chi racconta una storia. Personaggi, ambientazioni, espedienti: come immagini stock, come munizioni immagazzinate in un arsenale, i tropes sono mezzi a disposizione di chi scrive, pronti sugli scaffali, strutture riconoscibili da riempire di contenuto. Qual è il confine tra tropi e cliché? Quali sono gli esempi di tropi ben dosati e quali i luoghi comuni da scardinare?

Tropo #3: acqua e da dove arriva

Dove c’è una narrazione consapevole l’acqua segnala sempre qualche cambiamento in arrivo: nell’arte l’acqua non scorre invano, o non dovrebbe. Questo è ancora più vero quando l’acqua arriva dal cielo. La pioggia è presagio di ciò che andrà a fecondare. La pioggia segnala una svolta della vicenda, spesso una maggiore consapevolezza. L’esempio più noto viene dai Promessi sposi, simbolo e fatto si racchiudo così nel temporale:

Appena infatti ebbe Renzo passata la soglia del lazzaretto e preso a diritta, per ritrovar la viottola di dov’era sboccato la mattina sotto le mura, principiò come una grandine di goccioloni radi e impetuosi, che battendo e risaltando sulla strada bianca e arida, sollevavano un minuto polverìo; in un momento, diventaron fitti; me prima che arrivasse alla viottola, la veniva giù a secchie. Renzo, in vece d’inquietarsene, ci sguazzava dentro.

Renzo non sa ancora che la divinità manzoniana manda la pioggia per scacciare i miasmi della peste. Ma lo scopriremo noi lettori (e studenti, sic). Allo stesso modo Giuseppe Pontiggia ne La grande sera traveste la consapevolezza di sospetto e gelosia: c’è una donna. È affacciata alla finestra, spia i passanti per riconoscere l’uomo che sta aspettando da più di un’ora, il suo amante: è in ritardo. Attenzione, Pontiggia ci aveva già avvisato: Un appuntamento mancato è il nome di questo capitolo, ma serve altro alla protagonista per risvegliarsi dal suo sonno a occhi aperti, non piove, stavolta nevica.

Le aveva detto, mentre aspettavano il taxi, sotto la pensilina, la neve che scendeva da un cielo buio: “il problema non è conquistare una donna, ma lasciarla”. Poi aveva sorriso a testa bassa, il bavero del cappotto rialzato davanti al viso. In quegli istanti lo odiava, lo vedeva decidere il destino di una persona come la sorte di un insetto, quando lo si schiaccia con la scarpa (Giuseppe Pontiggia, La grande sera, p. 11).

Il sospetto della donna diventa quasi certezza per il lettore: dopo appena dieci pagine Pontiggia rivela: ha paura che lui la lasci, e sarebbe la prima volta! Ma il fratello dell’uomo commenta sbrigativamente: «potrebbe cominciare ora. La maturità non è l’età delle svolte?»

Fare una doccia fredda?

La rivelazione può essere anche molto più profana e arrivare in un bagno, sotto il sifone dell’acqua. È la versione parastatale della pioggia, una magia da quattro soldi, ma pur sempre magia: è acqua calda. Su questo presupposto si potrebbero dividere gli scrittori in due partiti: tra artisti da temporale o artisti da bagno schiuma. Abraham B. Yehoshua nel suo L’amante sfrutta entrambe le opzioni, e con grande bravura illustra la differenza che passa tra pioggia e l’acqua calda di un bagno: dalla prima arriva la disillusione, dalla seconda, perché trucco da quattro soldi, l’agnizione tragica, il riconoscimento del proprio ruolo di servo pagliaccio. Uno dei protagonisti del suo L’amante si chiama Na’im, è un meccanico arabo di forse quindici anni: il padrone dell’autofficina, Adam, gli chiede di aiutarlo durante un lavoro notturno. Adam è generoso, ma anche superficiale: ordina a Na’im di presentarsi a casa sua con spazzolino e pigiama: alle due di notte andranno a lavorare. Na’im è entusiasta dell’invito (anche perché così potrà rivedere la figlia di Adam, Dafi). Na’im ha l’entusiasmo degli adolescenti: è già sotto casa di Adam tre ore prima dell’appuntamento: sospira, passeggia senza meta in quel favoloso quartiere ebraico. Ma ovviamente:

Ero proprio disperato. Quella pioggia tremenda mi faceva ammattire, mi entrava nel cervello. Mi pentivo già di tutta la faccenda, persino dell’amore. Ero lì solo per la strada, di fronte alle persiane chiuse, erano già le quattro passate e lui non si vedeva […] forse si era dimenticato di me e del lavoro notturno […] alla fine Adam mi ha preso per un braccio e mi ha tirato in casa, come se solo in quel momento si fosse accorto di quanto ero bagnato (Abraham B. Yehoshua, L’amante, p. 199).

Na’im è dentro la casa della sua amata Dafi, vive il suo sogno, che presto diventa incubo: tremante e gelato sta sporcando di fango la casa pulita: «per forza hanno dovuto cacciarmi in bagno». La moglie di Adam riempie la vasca con acqua calda e insiste perché Na’im ci entri dentro.

Sono rimasto per tanto tempo nell’acqua, mi sono lavato e rilavato, poi ho aperto il tappo e con l’asciugamano ho cominciato a pulire la vasca che si era sporcata tutta […] era già buio, e non sapevo dove si accende la luce, e così, al buio, mi sono messo il pigiama, che era proprio cosa da pazzi […] e me ne stavo seduto lì al buio, in silenzio. Loro però cominciavano a inquietarsi. Adam ha aperto la porta e appena mi ha visto con quel pigiama è scoppiato a ridere, e la ragazza [Dafi, n.d.r] che gli stava dietro, m’ha guardato e si è messa a ridere anche lei, anche io ho provato a ridere insieme a loro, perché non fossero imbarazzati delle loro risate, ma non so come – il riso si è trasformato in pianto (Abraham B. Yehoshua, L’amante, p. 200).

Ogni tanto piove anche nei romanzi di Roberto Bolaño: sono ammirato dalla sua cifra stilistica: nonostante nei suoi libri (magari per decine di pagine) non succeda nulla di importante, nonostante racconti spesso il superfluo, è sempre un bel superfluo – per raccontarlo bene bisogna possedere il genio. Improvvisamente in queste narrazioni l’espatriato sudamericano ritorna a galla. Poco male se il cileno Bolaño qui si travesta da tedesco e si ribattezzi come Udo Berger (protagonista de Il terzo Reich). Ecco che piove in scena, Udo ha appena capito una cosa sulla sua vita: è soltanto un buco nell’acqua.

All’Hotel del Mar dopo la pioggia la sera si tinge di blu venato d’oro. Rimango a lungo nel ristorante senza far altro che guardare la gente che rientra in albergo col volto stanco e affamato […] all’improvviso, in apparenza senza motivo, ho pensato che sono solo. Che soltanto Conrad e Rex Douglas (che conosco unicamente per via epistolare) sono miei amici. Il resto è vuoto e buio. Chiamate a cui nessuno risponde. Vegetali. Solo in un paese devastato, ricordo. In un’Europa in preda all’amnesia, senza epos e senza eroismo. (Roberto Bolaño, Il terzo Reich, p. 106).

 

 

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