di Luigi Loi
I tropi narrativi sono quegli strumenti di cui si serve chi racconta una storia. Personaggi, ambientazioni, espedienti: come immagini stock, come munizioni immagazzinate in un arsenale, i tropes sono mezzi a disposizione di chi scrive, pronti sugli scaffali, strutture riconoscibili da riempire di contenuto. Qual è il confine tra tropi e cliché? Quali sono gli esempi di tropi ben dosati e quali i luoghi comuni da scardinare?
Tropo #1: la periferia italiana
«Nella storia del romanzo italiano la borgata è sostanzialmente un’invenzione pasoliniana; lo ha immaginato lui per primo, quel mondo abitato da “esseri ontologicamente indigenti, di cui la tradizione non aveva ancora preso nota”» (Gianluigi Simonetti, La letteratura circostante, pg 360)
La periferia italiana è il palcoscenico di tutte le bildungsroman d’ambientazione realista, o di tutti i reportage con una certa ambizione politica, perché la storia della città italiane è sempre la storia di chi acquista casa in Via dei Condotti a Roma (o Via Monte Napoleone a Milano) partendo da Torre Maura (o da Viale Famagosta).
Il palcoscenico della periferia a cui il romanzo italiano è rimasto fedele fino ad oggi ha come protagonista il buon selvaggio (plasticamente rappresentato da i ragazzi de La canta delle Marane, documentario sulle periferie cittadine del 1961). Nei decenni il buon selvaggio ha acquisito buone doti di osservatore e mimetismo:
Non mi devo lamentare troppo, sentirmi straniero in questo momento non è un handicap, anzi è un grande vantaggio per interpretare meglio la parte. Intendiamoci qui non si tratta di recitare in un film, ma di portare a termine una missione molto rischiosa […] Vado a zonzo per un’oretta e mezza come un vagabondo senza meta. Mi faccio piazza della Radio e ponte Marconi avanti e indietro. Voglio familiarizzare subito con il quartiere. Osservo attentamente le facciate dei palazzi, la varietà è impressionante, come le facce delle persone che mi passano davanti. Ci sono fisionomie di tutti i tipi: giovani neri e asiatici che vendono merce contraffatta sui marciapiedi, bambini arabi che passeggiano con il papà e la mamma col velo, fimmini [sic.] rom con gonne lunghe che chiedono l’elemosina. Insomma sono nell’Italia del futuro, come dicono i sociologi! (Amara Lakhous, Divorzio all’islamica a viale Marconi, pg 12)
Al buon selvaggio s’oppone il selvaggio tout court: il suo orizzonte logico ed etico è inficiato dal determinismo geografico e quindi sociale: vedi il Numero 8, uno dei malviventi di Ostia che Giancarlo De Cataldo descrive nel suo Suburra. Al contrario di quanto avveniva in Pasolini la periferia ha cessato di essere luogo dei pedoni, ma è diventata luogo di auto e ruote: la misura è il chilometro, lo scenario è irrigato da tangenziali, rotatorie e centri commerciali. La periferia non è più quella dove Benjamin fa passeggiare il flâneur, ma è un altrove che si oppone geograficamente alla città e alla sua borghesia:
Ci sono rovi che occupano praticamente i tre quarti dello spazio idealmente pensato per i pedoni. Ci sono radici di alberi che hanno sollevato cemento, deformando il marciapiede a proprio piacimento. Ci sono immondizie che sono state inglobate nel terreno, come fossero frutto della fantasia a volte incomprensibile di certi artisti moderni (Vitaliano Trevisan, I quindicimila passi, pg 125).
La periferia dei romanzi italiani è un limes fisico e ideale: non è mai uno spazio neutro, perché lo si oltrepassa, e anche la più imparziale descrizione è descrizione di viaggio, spesso in auto, perché la periferia è lontana per antonomasia:
Uscito dalla Tangenziale Ovest, prendo la Statale 494, sette chilometri, seguo le indicazioni per il centro commerciale Viva. Evito di entrare nella rotatoria che porta al centro commerciale, percorro novecento metri fino al semaforo, giro a sinistra, imbocco la Provinciale per cinque chilometri. Davanti al concessionario di tagliaerba giapponesi svolto a destra, percorro una strada sempre più stretta, fino a che diventa una stradina appena sufficiente al passaggio della mia macchina. (Giorgio Falco, L’ubicazione del bene, pg 53)
Oggi guardo fuori del finestrino e mi sembra che di questo percorso, dalla prima volta che balzai sopra questi vagoni a undici anni, non sia cambiata neanche una pietra. Si passa Porta Maggiore e si esce dalle mura, per trovarsi lanciati verso Tor Pignattara, la prima “Tor”. La città inizia a mutare, sempre più procedendo lungo la Casilina si va dal disordine alla decadenza e a al degrado fino all’ultima stazione, la periferia più desolata. Eccola, la famosa Tor Bella Monaca: già ai tempi della mia infanzia una banlieue anche esteticamente, palazzoni di mille piani che minacciavano di chiuderti dentro senza farti mai più uscire. (Amir Issaaa, Vivo per questo, pg 19).
E anche quando la narrazione si avvicina al fantastico e s’allontana dal realistico, la città del romanzo italiano sembra avere grande nostalgia della locomozione, soprattutto quando lo sprawl ha invaso anche il centro storico e tutto è periferia:
Tram e autobus si facevano attendere per ore, sotto le pensiline si moriva di freddo d’inverno e ci si arrostiva d’estate. I pochi convogli che viaggiavano erano sempre stipati di corpi e per salire a bordo bisognava farsi largo a spallate. La città era abbandonata a sé stessa, gli autisti ascoltavano musica a tutto volume asserragliati dentro le postazioni di guida protette da vetri antiproiettile. Ormai quasi nessuno possedeva più automobili […] Poi, una mattina, tutti avevano aspettato invano, e senza riflettere si erano messi in marcia lungo le rotaie (Luciano Funetta, Il grido, pg 32).
Non è un caso che la periferia sia così percepita nella nostra cultura, anzi, è specchio della nostra società: una delle poche in Europa che fonda ancora la sua industria pesante su acciaierie obsolete e catene di montaggio auto, quindi sul sacro “mangia, bevi, Fiat”. O, in altre parole: se la tua casa è sempre nella periferia di qualcun’altro, comprati almeno un’auto per fare aperitivo in centro.
Ho visto che hai parlato del romanzo Suburra: hai visto il film che ne è stato tratto?
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@wwayne, sì ho visto il film e la prima stagione della serie
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Allora ti è piaciuto proprio! Anche quest’altro film è strepitoso: https://wwayne.wordpress.com/2014/09/04/adoro-questuomo/. Se non l’hai visto, te lo consiglio caldamente. Grazie per la risposta! 🙂
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Grazie a te per il thread 😉
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Articolo interessante davvero ma non ho capito se questi sono esempi di tropoi ben dosati oppure no…non posso giudicare da sola perchè non ho letto questi libri e immagino che la differenza sia da far risalire soprautto alla quantità. E neppure ho capito bene la differenza, secondo te, con ciò che si definisce clichè.
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