di Fabrizio Coscia
«Scrivo di dove sono nella vita». Ho letto qualche anno fa questa frase pronunciata da Alice Munro in un’intervista radiofonica alla CBC del 1987, riportata nell’introduzione del Meridiano dedicato alla grande scrittrice canadese. Da allora non l’ho più dimenticata, perché rispecchia ciò che credo sia il compito di uno scrittore, ammesso che uno scrittore debba avere un compito: ovvero trovare le parole giuste per rispondere a una domanda impellente, la domanda che ci interroga su dove siamo nella vita. Tutto ciò che non riguarda questa risposta è superfluo, inessenziale, è gioco letterario, intrattenimento.
Mi viene in mente, allora, quel passo biblico in cui Adamo, in Genesi, dopo aver commesso il peccato originale, si nasconde con Eva tra gli alberi dell’Eden agli occhi di Dio. «Come bisogna interpretare che Dio onnisciente dica ad Adamo: “Dove sei?”», domandano al Rav della Russia nel racconto chassidico riportato da Martin Buber nel Cammino dell’uomo. E il rabbino risponde: «In ogni tempo Dio interpella ogni uomo: “Dove sei nel tuo mondo? Dei giorni e degli anni a te assegnati ne sono già trascorsi molti: nel frattempo tu fin dove sei arrivato nel tuo mondo?”». Così, commenta Buber, «per sfuggire alla responsabilità della vita che si è vissuta, l’esistenza viene trasformata in un congegno di nascondimento». Ed è proprio in questa situazione che la domanda del Signore – «Dove sei? A che punto ti trovi?» – coglie l’uomo, per costringerlo a rivelarsi. Ecco, io credo che la scrittura, la letteratura siano proprio la risposta a questa domanda che rompe il «congegno di nascondimento» in cui si trasforma prima o poi inevitabilmente la nostra esistenza; credo che la scrittura, la letteratura siano questa assunzione di responsabilità.
Scrivere per dire dove si è nella vita, a che punto si è arrivati nel proprio mondo. Ma che cosa significa dire dove si è nella vita? Significa trovare le parole esatte per raccontare il luogo dove siamo, in quel momento particolare della nostra vita, nel passaggio del tempo. Significa, cioè, rispondere, dare conto, testimoniare della posizione che occupiamo nel nostro mondo, senza infingimenti, intanto che passano gli anni a nostra disposizione. La scrittura, cioè, può nascere solo da questa risposta etica. Parlo di etica nel senso in cui il filosofo Alain Badiou definisce la sola etica possibile oggi, come una forma di fedeltà alle verità che accadono nelle situazioni dell’esistenza («o più precisamente: la sola etica è quella interna ai processi di verità, alla fatica che fa avvenire in questo mondo alcune verità»). Si noti la declinazione al plurale della parola «verità», con la lettera minuscola, mentre la stessa parola diventerebbe pericolosissima se si declinasse al singolare, e con la lettera maiuscola. Così come la parola «Storia», a cui ho sempre preferito il suo plurale in minuscolo: «storie». E del resto lo scrittore, fedele a questa morale non generale ma specifica, scrive proprio per raccontare storie che a loro volta raccontano di se stesso e della sua vita, di «alcune verità», cioè, della sua autobiografia più intima, che riguardano il suo stare al mondo e che avvengono al prezzo di molta fatica. E poco cambia se la scrittura è saggistica, narrativa, romanzesca, ibrida o quel che sia. Ciò che conta è a quale domanda lo scrittore sta rispondendo nel momento in cui scrive.

foto di ilkka karkkainen
Per quanto mi riguarda, ho sempre fatto mia la celebre frase di Proust del Tempo ritrovato, dove l’autore della Recherche scrive che «la vita vera, la vita finalmente riscoperta e illuminata, la sola vita, dunque, pienamente vissuta, è la letteratura». La vita più autentica coincide, dunque, con l’atto della scrittura e non con l’atto stesso del vivere. O meglio: non si è mai così vigili, così sensitivamente partecipi e consapevoli di se stessi e della propria visione della vita come quando si scrive. Anche la più esaltante delle storie d’amore, nel momento in cui viene vissuta, ci rende ebbri e inconsapevoli di ciò che si sta vivendo: solo nella scrittura (o nella lettura) l’esperienza si illumina di senso, trovando posto, collocandosi in un tempo specifico. In effetti, a pensarci bene, non esiste niente di più innaturale della scrittura e della lettura, niente che ci allontani di più dal mondo animale di cui pure facciamo parte, al punto che il nostro stesso cervello si è modificato radicalmente dal momento in cui l’uomo ha iniziato, in una certa fase della sua evoluzione, a scrivere e a leggere.
Quando penso alla mia infanzia, ad esempio, i momenti più intensi, più autentici, più formativi corrispondono alle mie prime letture (il terrificante Zio lupo della fiabe italiane di Italo Calvino, riportato nel volume dei Quindici, i racconti di H. P. Lovecraft, Michele Strogoff); o a quando creavo il buio nella mia camera tirando le tende alle finestre e mi sedevo ad ascoltare immerso in quella placenta di oscurità i dischi a 33 giri che raccontavano in forma drammatizzata i grandi classici: Moby Dick, I promessi sposi, I tre moschettieri, Ventimila leghe sotto i mari (gli incunaboli degli audiolibri, in effetti). Già allora la letteratura per me si offriva come ferita e balsamo: la ferita di una rivelazione dolorosa, di una disappartenenza radicale, e il balsamo di una consolazione estetica, di una carezzevole promessa di gioia. Così, quando ho iniziato a scrivere i miei primi racconti, l’ho fatto per emulazione, perché volevo ricreare con le mie parole quella stessa meravigliosa ambiguità – quella ferita e quel balsamo – di cui avevo fatto esperienza come lettore, senza sapere ancora che in realtà cercando quelle parole, stavo cercando «alcune verità» su me stesso, come avrei continuato a fare anche da adulto, ogni volta che avrei cominciato a scrivere un libro.
C’è un racconto di Henry James che è tra i miei preferiti: si intitola La vita privata, è stato scritto tra il 1892 il 1893, e racconta la storia di Claire Vawdrey, un celebre scrittore che manda il suo simulacro-fantasma nei salotti e nei dintorni di una pensione svizzera, a svolgere una intensa vita sociale, intrattenendo rapporti mondani con gli ospiti, mentre lui, il suo io più autentico, indisturbato continua a scrivere nella sua stanza. È, questo sdoppiamento, la tipica scissione dello scrittore che lo stesso Proust (ancora lui), nell’abbozzo di un saggio giovanile, intitolato La poesia o le leggi misteriose, indicava come insanabile: in ogni scrittore ci sono almeno due individui, spiegava Proust, l’uomo comune, pratico, inserito nella sua rete di relazioni sociali, rispettoso delle leggi e delle tradizioni; e l’uomo poetico, «chiuso nella sua stanza», alieno da tutto e da tutti, quasi in modo criminoso dedito esclusivamente alla sua opera.

foto di steinar engeland
In questo James e Proust erano affini: entrambi intenti a distillare dalla dissipazione della vita mondana, l’esperienza che nutrirà l’atto sacro dell’arte. Affini anche le loro intelligenze, che come una rete di ragno sottilissima e preziosa, creavano architetture formali in cui intrappolare la realtà, per renderne intellegibile la sua dimensione più complessa. In fondo quella scissione di cui parlano entrambi è inevitabile. Chiunque scriva lo sa e la vive, più o meno angosciosamente, e sa che tutto ciò che Vawdrey demandava al suo doppio è altrettanto necessario della solitudine, anche se lo ritiene uno spreco, un’inutile perdita di tempo, perché senza dissipazione non può esserci concentrazione, senza mondanità non può esserci sacralità, e soprattutto senza esperienza non può esserci scrittura. E che cosa fa l’«uomo poetico» se non dire di dove si trova nella vita, mentre l’«uomo comune» che è in lui è intento a viverla, la vita, la vita pura e semplice, per lo più inconsapevolmente? Per quel che può valere, credo che davvero tutto esista per mettere capo a un libro.
La religione monoteista nasce da questa stessa fede: non si è sottolineato ancora abbastanza il fatto che il Dio delle Scritture, Jahvé, sia di fatto un’invenzione letteraria, uno dei più straordinari personaggi che sia mai stato creato, così come lo stesso Gesù dei Vangeli. Ma se tutto esiste per essere testimoniato nella scrittura, se in principio è davvero il Verbo, questa testimonianza, per essere autentica, deve trovare la propria voce. Non è tanto una questione di cosa testimoniare per uno scrittore, ma di come farlo. Insomma, scrivere di dove si è nella vita significa trovare il modo più adeguato, più giusto, più intonato per dirlo. È una questione di stile, insomma, più che di confessione. Solo trovando la propria voce si riesce a rompere quel «congegno di nascondimento» di cui parlava Buber e nel quale siamo tutti, chi più chi meno, coinvolti. E non è detto che una volta trovatala, sarà sempre la stessa.
Non si smette mai di cercarla, ogni volta che si riprende a scrivere, la propria voce, perché a ogni libro nuovo corrisponde una nuova posizione che abbiamo raggiunto nel nostro mondo (più avanti o più indietro di prima). «Dove sei?». «Dove sei nel tuo mondo? Dei giorni e degli anni a te assegnati ne sono già trascorsi molti: nel frattempo tu fin dove sei arrivato nel tuo mondo?». La domanda è sempre la stessa, la risposta invece non può che variare, perché cambiamo noi, cambia il mondo che ci circonda, cambiano le persone che accompagnano il nostro cammino, cambia la nostra visione della vita, cambiano le verità della nostra esistenza. E per fortuna, vorrei anche dire. Perché altrimenti si smetterebbe di scrivere. E di leggere.
Leggere un libro, per quanto lo scrittore si sforza di dire che non sia autobiografico, possiede una parte della vita dell’autore, è semplicemente un fatto involontario. Diamo quel che siamo.
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E’ un tale gesto di supponenza, questo attribuire alla propria esistenza la qualità della consapevolezza. Allora raccontarla cosa sarà? Probabilmente un segno, umilissimo, della coscienza della necessità.
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