Durante il primo episodio della seconda stagione di Dear White People, Sam White si trova nel pieno di un dibattito sulla neutralità o meno della forma documentaristica. Per avvalorare la sua tesi, la vediamo a cercare online “Documentari che non sono propaganda”.
La ricerca non dà nessun risultato.
La scena iperbolica svolge la duplice funzione di punchline comica (Dear White People, per chi non lo sapesse, è una comedy brillante, molto tagliente e ben scritta) e di gancio per il dialogo successivo, in cui Sam afferma che non è tanto l’obiettivo del documentario in sé a dover essere più o meno palese, quanto il nostro sguardo a doversi mantenere il più aperto possibile rispetto alla complessità della verità in senso ampio, che include anche le verità non dette.
Ecco, quello che dice Sam mi ritrovo a ripetermelo ogni volta che approccio un documentario, di qualunque tipo e argomento. Lo guardo mantenendo sempre un piede fuori dalla porta, per timore di essere trascinata dal meccanismo di “educazione veicolata”, di manipolazione, che si può innescare. Questo per quanto riguarda l’aspetto contenutistico. Ma il mio primo interesse va sempre, sempre, alle narrazioni. Al modo, più o meno efficace, in cui quei contenuti vengono veicolati. Quello che cerco nella narrazione documentaristica non è la neutralità, che non mi è mai sembrata (in nessun caso) un valore assoluto da rincorrere a tutti i costi, bensì la possibilità di valutare più punti di vista possibili senza l’imposizione di uno sguardo unico.
Ecco, è prima di tutto dentro questo discorso che SanPa mi è piaciuta. Molto.

SanPa: un’infinità di materiale d’archivio in cinque ore di miniserie
La miniserie di Gianluca Neri è comparsa nella home di Netflix il 30 dicembre scorso, improvvisamente, a chiusura di un anno assurdo, in un momento in cui nessuno avrebbe mai previsto si sentisse il bisogno di affrontare un capitolo così doloroso della storia italiana. Eppure da una settimana non si parla d’altro.
Si tratta di un progetto lungo, elaborato dall’ideatore negli ultimi due anni e sviluppato, grazie a Netflix, con modalità di ricerca e lavoro molto precise e rigorose. Lo racconta lo stesso showrunner in un’ottima intervista che potete leggere qui (dove si fa riferimento anche ad alcune scene lasciate fuori). “Potevamo fare altre tre serie con il materiale che c’era”, dice Neri. Materiale passato al vaglio in una writers room “all’americana”, elaborato dalla regista documentarista Cosima Spander e dal montaggio di Valerio Bonelli.
Interviste, foto d’archivio, filmati d’epoca, pochissime ricostruzioni narrative, uso sapiente delle ambientazioni, una regia discreta che si prende il giusto tempo, senza affrettare la visione nella tentazione del mistery drama, modalità dentro cui spesso i documentari ricadono (anche quelli che parlano di cibo o malattie).
Talvolta la realtà supera ogni immaginazione, espressione tediosa per riassumere come i fatti reali non hanno il senso compiuto e “necessario” di quelli immaginari, avvengono in maniera random, inaspettata, con colpi di scena posizionati quasi sempre al momento sbagliato. La qualità di SanPa sta proprio nel riuscire, in 5 episodi, a condensare, riordinare, strutturare la realtà mantenendo lo spettatore agganciato ai saliscendi della storia, tra colpi di scena, cliffhanger, momenti di forte drammaticità e altri in cui raffreddarsi per continuare a seguire una trama che ruota tutta intorno a un personaggio centrale. Tutto questo senza l’ausilio di una voce narrante esterna, di un narratore unico interno alla storia, o di eccessivo uso di musica e ricostruzioni drammatiche (a parte l’utilizzo didascalico di alcune scene di cui non parlerò).

L’uso della forma: genere o contenitore?
Un documentario è una sorta di scavo archeologico, in cui si raccolgono pezzi su pezzi provando a rimetterli insieme nelle modalità più coerenti possibili. Il risultato non è detto sia perfettamente aderente alla forma d’origine di quei pezzi, ma è una lente attraverso la quale osservarne la storia. In questo caso, le voci dei personaggi -Walter Delogu, Andrea Muccioli, Fabio Cantelli, Vincenzo Andreucci, Red Ronnie- colmano i video d’archivio montati a raccontare la storia, con le loro interviste che fanno non solo da commento critico, ma vanno anche a riempire i vuoti, talvolta confermando, talvolta contraddicendo le immagini. La relazione con lo spettatore si costruisce sul piano della realtà (storica e personale) e non su quello dell’immaginario, e questo crea un coinvolgimento unico, un’empatia che non ha pari in termini di profondità (ecco perché Making a Murderer, Tiger King, Wild Wild Country sono tra le serie con i rating più alti su Netflix).
Nel video che si trova tra i contenuti speciali di SanPa su Netflix, Carlo Gabardini racconta di come alcuni degli intervistati abbiano ringraziato la troupe alla fine del girato dicendo che erano trent’anni che aspettavano di poter raccontare la propria storia. Perché talvolta è possibile capire cosa è successo solo attraverso il racconto, e questa è, al di là del risultato finale, una possibilità che il documentario consente: è un megafono.
Ma soprattutto, documentare è, sempre, un tentativo di catturare il caos della realtà e dargli una struttura significativa, abbracciando anche i ritmi anti-narrativi che questa realtà può avere, piegando la scrittura al materiale, senza produrlo, e provare a smussare gli spigoli nella struttura compiuta di una storia. Questo lavoro è costantemente caricato di ambiguità e pericoli, anche etici, ecco perché i risultati migliori si ottengono abbracciando le incongruenze, le crepe della realtà, in un racconto multistrato che produce domande e dibattito più che risposte e certezze. In questo, SanPa riesce superbamente. Basta osservare quello che ha scatenato in termini di conversazione collettiva.
Altro aspetto formale che la miniserie manifesta è la possibilità di essere un contenitore di generi, di muoversi tra codici diversi senza mai perdere il centro del discorso, in un sapiente uso della forma nelle dimensioni dell’intrattenimento funzionante e avvincente, consapevole nell’uso di quell’empatia di cui parlavo prima.

SanPa, l’epopea di un eroe tra distopico, crime e biopic.
L’abbiamo già visto succedere in Wild Wild Country, la storia della comunità dei discepoli di Osho, che prende una piega sempre più cupa man mano che questa si allarga, si espande, aumenta di dimensioni e spessore. Una vicenda, sotto molti aspetti incredibilmente simile a quella di SanPa, che viene narrata ordinando i fatti in un’escalation dosata in maniera sapiente e con la giusta costruzione temporale. In SanPa accade la stessa cosa. Come nella migliore tradizione distopica, il punto di partenza è sempre il sogno di un mondo alternativo migliore, del bene che trionfa, della dimensione comunitaria che ristabilisce un ordine rotto. Eppure, man mano che la struttura piramidale si espande e si innalza, la distanza tra la cima e la base si allarga, e le cose cominciano ad andare male. Quello che però risulta chiaro a fine visione, e in tutte le narrazioni distopiche di questo tipo, è che laddove c’è un sogno di comunità che ruota intorno al leader carismatico di turno, questo sogno può funzionare solo finché i “discepoli” restano un’unica massa unificata e uniformata, disciplinata e obbediente, che non trasgredisce né mette in discussione l’autorità. L’unica individualità che ha diritto di esistere è quella del protagonista al vertice. Le altre sono solo accessorie. Alla fine della serie sappiamo che, attraversando discorsi sulla tossicodipendenza, sul ruolo della società, sul concetto di terapia in generale, abbiamo assistito al crollo di un eroe: Vincenzo Muccioli. Sua è la vicenda crime, che procede per cliffhanger al termine di ogni episodio (le catene, la cassetta), passa dalle immagini del cadavere di Maranzano al terrificante video dell’anello, scena in cui il personaggio di Muccioli praticamente nega l’esistenza dello stupro, tutto attraverso un racconto che è un po’ biopic dai toni epici, con alcune discese oscure degne di un buon horror.
Vincenzo Muccioli: un personaggio da serie TV complessa.
Il primo episodio si apre sulla voce e sul volto di Muccioli che parla a una platea. Nel giro dei primi cinque minuti, entriamo in un vocabolario che si muove ai margini del religioso: miracolo, eden, salvatore. La glorificazione di Muccioli è il nostro punto di partenza. Una figura cristologica, messa in parallelo con Gesù, che “raccoglie” i ragazzi come gli apostoli erano pescatori di anime, salvatore degli ultimi, della “feccia della società” che da lui veniva riportata a nuova vita. L’arco della sua storia si srotola in 5 episodi dai titoli espliciti: Nascita, Crescita, Fama, Declino, Caduta, che più che riferimenti alla comunità sotto la gestione del suo creatore parlano di lui, perché come ci viene detto nei primi minuti della serie: “la comunità era costruita a immagine e somiglianza di Vincenzo”.
Muccioli si stabilisce dall’inizio come un personaggio complesso, un uomo dal passato inquieto e dalle origini umili, alla costante ricerca dell’affermazione della propria importanza, della propria portata nel mondo. Un’ego famelico, che trova rappresentazione anche nella fisicità del personaggio: un omone dallo sguardo penetrante e dalla fame vorace (qui potrei aprire un capitolo a parte su come viene affrontata in maniera alquanto superficiale la questione del palese DCA di cui Muccioli soffriva, ma non lo farò). La serie, più che un’operazione di scavo sulla storia della comunità, è un’analisi approfondita di questo personaggio che ci viene raccontato con toni costantemente ondivaghi, tra l’esaltazione mistica e il racconto di un despota egomaniaco, un leader padrone e accentratore che aveva stabilito un governo che non prevedeva alcuna obiezione, alcuna alternativa alla sua idea. Il suo “esercito” è costituito da una categoria di persone al di là della semplice fragilità e necessità, sono persone che suscitano rifiuto, anche da parte delle famiglie. Quello che viene fuori dalla serie è che questo personaggio è riuscito a colmare il proprio bisogno di centralità, il proprio universo fatto di persone fragili, reietti, una miriade di ragazzi rifiutati dalla società borghese, proprio perché andava a inserirsi in una spaccatura interna a quella stessa società. Di fatto, la comunità chiusa risolve prima di tutto un problema familiare, sospendendo il dolore, la vistosità del problema, allontanandolo, delegando la punizione a qualcun’altro, senza doversene fare davvero carico con tutti i problemi e le difficoltà che un approccio terapeutico/inclusivo comporta. In questo, Vincenzo Muccioli rappresenta questo paese: patriarcale, arcaico, paternalistico, moralista, infestato dal desiderio dell’uomo forte, del leader carismatico che risolva i problemi, senza un vero senso sociale.
Se l’antieroe a cui la serialità ci ha abituato è in genere un personaggio dalla moralità dubbia e dalle caratteristiche riprovevoli immediatamente palesate, a cui ci appassioniamo perché man mano la scoperta innesca un meccanismo di ricerca della redenzione, una possibilità di umanità sotto la superficie, la figura di Muccioli non coincide con quella dell’antieroe quanto piuttosto di un dio di cui assistiamo al crollo. Tutto quel carisma, quell’imbarcarsi nell’impresa, la virtù implicita nell’obiettivo, si sfaldano man mano che si smonta la figura pubblica di Muccioli attraverso le scene dei processi e dei telegiornali d’epoca. E la parabola narrativa scende, per chiudersi, con cura, sugli ultimi fotogrammi, sul lungomare di Rimini. Ed è questo l’ultimo aspetto su cui vorrei riflettere prima di chiudere: l’ambientazione.
Rimini: un luna park che genera mostri
Nell’intervista di cui si parla prima, Selvaggia Lucarelli fa notare a Neri come su Netflix siano uscite quasi contemporaneamente sia SanPa che L’incredibile storia dell’isola delle rose, due narrazioni di comunità esterne, alternative allo stato, entrambe a Rimini. Neri sottolinea come Rimini sia una città divisa in due:
“C’è la città e c’è la macchina del divertimento. Diventa località di villeggiatura a basso costo per gli italiani da Mussolini in poi, quindi si riempie di locali, di strutture di divertimento. Arrivano molti stranieri, si crea una società più cosmopolita, libera, più trasgressiva in un posto relativamente piccolo. In più c’è l’insoddisfazione della provincia che per 9 mesi si spegne e che cerca qualcosa anche nel periodo di blackout.”
Rimini è una città duplice, una provincia incastrata nel sogno del divertimento per tre mesi all’anno, uno spazio che contemporaneamente si neutralizza e si inverte su se stesso in cui esistono due stagioni: alta e bassa. Pier Vittorio Tondelli descrive questa sensazione di spaesamento magnificamente nel romanzo che prende il titolo dalla città, Rimini, in cui la rappresenta come il luogo assoluto della seduzione di massa:
“Improvvisamente il cielo di un profondo blu notte si aprì sulla visione della riviera con le strisce luminose delle automobili, i fari, le insegne degli alberghi non più distinguibili se non in confusi bagliori luminosi. […] Poiché se da un lato tutta la vita notturna rifulgeva nel pieno del fervore estivo, dall’altro esistevano solo il buio, il profondo, lo sconosciuto; e quella strada che per chilometri e chilometri lambiva l’Adriatico offrendo festa, felicità e divertimento, […] segnava il confine fra la vita e il sogno di essa, la frontiera tra l’illusione luccicante del divertimento e il peso opaco della realtà.” (p.52)
e ancora più avanti “C’era dunque qualcosa di intimamente artificiale in ciò che aveva attorno, totalmente predisposto”(p.72). La logica del consumo pervade la città, che è luogo di spaccio di sogni e illusioni, che vengono consumate in fretta e a occhi chiusi sulla realtà, su quell’oscurità che sta dall’altra parte della strada. L’illusione del divertimento, l’illusione di un mondo diverso, l’illusione della salvezza.
Rimini è quella che Foucault chiamerebbe un’eterotopia, uno spazio altro, chiuso ma penetrabile, in cui sussiste la sospensione, che svolge una funzione di compensazione, o di illusione, rispetto allo spazio esterno. Il luna park e l’ospedale, per intenderci. Luoghi completi e complessi all’interno, rispecchianti l’esterno ma chiusi, in cui l’accesso è sempre delineato, il vocabolario si arricchisce di parole proprie, in cui si mescolano, talvolta, la fuga e il ritorno, il dolore e la cura, la casa e la dislocazione.
Come un’isola artificiale a largo della città, in acque internazionali.
O come una comunità sulla collina.