la verità vi prego
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La verità vi prego: non lasciare il lettore a zonzo nella scena

“La verità, vi prego” è la posta del cuore della scrittura: inviami un tuo racconto o il primo capitolo del tuo romanzo e ti scriverò una lettera di valutazione franca, pubblica e gratuita. Per sapere come funziona leggi qui.

La lettera di oggi è per Deborah Donato e il 1° capitolo del suo “L’esattezza dell’anima”.

Chi è Deborah Donato:
Mi sono laureata in Filosofia con una tesi sull’estetica e la semiotica di
Umberto Eco. Ho svolto un dottorato di ricerca occupandomi della filosofia di
Ludwig Wittgenstein e della fisica quantistica. Ho pubblicato I percorsi di Wittgenstein
(Rubbettino, premio CNR per la ricerca) e I fisici della Grande Vienna (Le lettere).
Ho tradotto opere di Hegel e pubblicato saggi sull’estetica di Croce e sulla Vienna di
fine XIX secolo. Ho conseguito l’abilitazione all’insegnamento in Filosofia, Storia e
Materie Letterarie. Collaboro con scrivo.me curando le rubriche La bottega dei
personaggi e Breve corso di romanzologia. Sono sposata con Luca e abbiamo tre bambini:
Federico, Lavinia e Giulia.

Cara Deborah,

c’è una cosa molto importante da tenere presente quando si scrive una storia ed è il tempo massimo della sospensione. I lettori amano essere accompagnati tra misteri e svelamenti, ma a patto che non vengano lasciati in mezzo alla scena, confusi, per troppo tempo. Trascinarli di pagina in pagina senza chiarire loro quello che accade, farli rimbalzare da una mezza verità all’altra, li spazientisce e ritarda l’immedesimazione.

Se giochi troppo con la sospensione, posticipi le informazioni e punti gran parte della luce della scrittura sul costruire allusioni, finisci per lasciare al buio la storia. E che la storia perda d’interesse e vada a finire in secondo piano non deve accadere. Alla fine del primo capitolo di “L’esattezza dell’anima” il lettore saprà qual è il “problema” da cui parte la vicenda: che motivo c’è perché non lo sappia prima? Cosa ne ricava la storia a non essere chiarita fin dall’inizio?

Hai presente quel modo di dire per cui “si getta il sasso e si nasconde la mano”? Spogliandolo del riferimento alla malafede – che, com’è ovvio, qui non c’entra niente – ti mostro tutti i punti in cui il testo lo fa. Getta il sasso (dà a chi legge un inizio d’informazione) e poi nasconde la mano (non si prende la responsabilità di condurre l’informazione verso il chiarimento: lascia in sospeso).


Guardiamo l’inizio:

C’era un’unica cosa che poteva rendere peggiore tutta quella assurda situazione.
E lui l’aveva fatta.
Adesso che l’ira era andata via, gli era rimasta una voragine, un deserto in cui aleggiava soltanto la stessa domanda che agitava la ragazza al suo fianco. Se lei avesse opposto resistenza, lui che avrebbe fatto? Ed era una domanda così radicale, che gli spalancava un abisso, cioè un se stesso nuovo.
Né lui né Giulia seppero trovare per il momento una risposta e rimasero ammutoliti, l’uno accanto all’altra, in una stanza devastata. Non sapeva chi era stato nelle ultime tre ore, gli sembrava di avere fatto un viaggio verso il nulla, andata e ritorno.
Forse solo andata, pensò guardandosi le mani.
Poco dopo, si alzò e indossò velocemente i jeans, cercando le forze per venire fuori dall’afasia. Ma era difficile riconoscere se stesso e anche la casa non sembrava più la sua. Fluttuava ancora lontano da ciò che era sempre stato.

Nell’attacco seguente la prospettiva diventa della protagonista Giulia. Questa voce iniziale e il racconto di ciò che gli sta accadendo spariscono del tutto, e non li ritroveremo nemmeno alla fine del capitolo. Il lettore resta smarrito: dov’è la voce che gli aveva aperta la porta della narrazione? Non può mica piantarlo in asso e ripresentarsi chissà quando!

Ed ecco gli altri punti in cui viene accennata un’informazione e poi lasciata a mezz’aria:

  1. Giulia avrebbe potuto riflettere su queste notizie, se avesse avuto curiosità sulla morte dei suoi genitori piuttosto che sulla loro vita nascosta.
  2. Era sola, in una casa in cui nulla era stato scelto da lei e per lei […]
  3. Mentre la cassiera le porgeva il resto su un piattino metallico con sopra scritto Buongiorno, Giulia si disse che non era possibile.
  4. […]e ripescava le notizie che la sua memoria conservava su quel pianista.
  5. […]forse la madre si era inventata tutto.

Questi di seguito sono invece i punti in cui la storia va avanti per “riempitivi”. I riempitivi sono quelle parti con cui si allunga il tempo del racconto non per una reale funzione narrativa, ma per ritardare gli eventi, “mettendo qualcosa” tra un’azione e l’altra – dunque, un’altra forma di sospensione.

  1. Rimase aggrappata alle proprie perplessità per tutto la mattinata, girando per casa e provando qualche vestito.
  2. Pranzò davanti alla televisione con una scatoletta di salmone e stappò una birra, davanti ad una replica di un telefilm americano, di quelli con le risate registrate.
  3. Nel tardo pomeriggio, si scrollò di dosso il plaid che le aveva fatto compagnia e andò sotto la doccia. Lasciò la televisione accesa, per ascoltare delle voci, dal bagno.
  4. Durante il tragitto, telefonò di nuovo a De Monticelli. Rispose quasi subito e dopo il silenzio seguito al suo «Pronto» rimase in attesa. Poi riattaccò.
  5. Suonò il campanello e nell’attesa di una risposta ripeté il discorso da fare. Decise di aspettare, perché non poteva accettare che sua madre l’avesse lasciata senza dire nulla, omettendo come lieve amnesia di avere avuto un amante lungo tutto l’arco del suo matrimonio.
  6. Suonò di nuovo e poi guardò l’orologio: erano da poco passate le sette di sera. Aveva già voltato le spalle quando il portone si aprì, silenziosamente. Salì le scale ed arrivò al primo piano.
  7. Un’altra porta di legno scuro, un altro campanello, Giulia suonò ancora. Sentì dei passi che si avvicinavano, poi il rumore alla maniglia.

L’ironia usata dal personaggio maschile, anche quella, è una forma di sospensione: ha la funzione di ritardare il nocciolo della questione. Il nocciolo della questione non è: i genitori di Giulia sono morti, lei scopre che la madre aveva un’amante e decide di affrontarlo. Questo è solo il punto dal quale la narrazione prende il via e non ha bisogno di essere dilungato tanto. Andrebbe invece messo sul tavolo in modo chiaro e diretto in modo da trasformarsi in un incipit forte, capace di catturare l’attenzione e di dirigerla verso il percorso della storia.

Posticipare ti costringe a raccogliere tutte le informazioni sui personaggi – e in particolar modo sulla madre – nell’ultima pagina del capitolo. Tutte insieme: come una visione della memoria che però così concentrata corre il rischio di esaurirsi presto. Perché non provare, invece, a distribuirle lungo tutta la storia, a partire dall’inizio?

Voglio parlarti di un’ultima cosa: hai la tendenza a inserire considerazioni “esistenziali” nella tua storia. Questo non è necessariamente un “problema” ma sarebbe comunque meglio se riuscissi a incastrarle nei punti in cui c’è un correlativo concreto ad attribuire una funzione narrativa. Funzionano, ad esempio, di più quelle “inutili frasi che gli uomini usano per l’incapacità di dire qualcosa di sensato sulla morte.” perché collegate all’elemento concreto della cassetta della posta piena di condoglianze, piuttosto che quella “domanda così radicale, che gli spalancava un abisso, cioè un se stesso nuovo.” tanto astratta.

A volte può sembrarci che l’astrazione dia un senso “migliore” a quello che scriviamo: un significato universale, in cui ci si può riconoscere tutti perché non prende un connotato particolare – e quindi esclusivo. Ma è vero l’esatto contrario: più gli elementi della storia sono riferibili esclusivamente ai personaggi che la vivono, più hanno la capacità di permettere al lettore d’immedesimarsi. La descrizione della foto di Glenn Gould attaccata al muro e l’ammirazione che la protagonista prova per lui, sarebbero poca cosa senza quel bel “Giulia pensò alla bacchetta che sua madre le metteva sotto i polsi.” che trasforma tutto in una cosa privata, tanto intima che può capirla chiunque.

Un caro saluto,
Francesca de Lena

L’ESATTEZZA DELL’ANIMA

C’era un’unica cosa che poteva rendere peggiore tutta quella assurda situazione. E lui l’aveva fatta. Adesso che l’ira era andata via, gli era rimasta una voragine, un deserto in cui aleggiava soltanto la stessa domanda che agitava la ragazza al suo fianco. Se lei avesse opposto resistenza, lui che avrebbe fatto? Ed era una domanda così radicale, che gli spalancava un abisso, cioè un se stesso nuovo.
Né lui né Giulia seppero trovare per il momento una risposta e rimasero ammutoliti, l’uno accanto all’altra, in una stanza devastata. Non sapeva chi era stato nelle ultime tre ore, gli sembrava di avere fatto un viaggio verso il nulla, andata e ritorno.
Forse solo andata, pensò guardandosi le mani.
Poco dopo, si alzò e indossò velocemente i jeans, cercando le forze per venire fuori dall’afasia. Ma era difficile riconoscere se stesso e anche la casa non sembrava più la sua. Fluttuava ancora lontano da ciò che era sempre stato.
Anche Giulia pensava che era tutto diverso da quel 21 dicembre, da quando i suoi genitori erano volati dal viadotto, giù, in una caduta a cui tendevano da tutta la vita.
Se non fossero volati in quel modo e per quel motivo dal viadotto, forse Giulia non avrebbe neanche provato a suonare Bach ad occhi chiusi, né avrebbe sussurrato le note come faceva Gould, con un mormorio che glielo rendeva intimo come una ninna nanna.
La perizia automobilistica aveva assicurato che non c’era alcun guasto nella macchina dei suoi, che i freni funzionavano perfettamente e ciò rendeva ancora più assurdo quel volo, senza la strada bagnata o motivi giustificabili. Del resto, la morte stessa era ingiustificabile agli occhi di Giulia, quindi depose quegli atti nel luogo meno maneggevole della casa, in una cassettiera antica. Lo scricchiolio del cassetto l’avrebbe dissuasa dall’idea di riprendere in mano quegli inutili fogli, in cui si assicurava che la BMW è una macchina affidabile e che in nessun modo era imputabile ad incuria umana o difetto meccanico quella tragedia. Sull’asfalto non erano stati trovati segni di frenata e Giulia avrebbe potuto riflettere su queste notizie, se avesse avuto curiosità sulla morte dei suoi genitori piuttosto che sulla loro vita nascosta.
Tornata dal funerale, Giulia si era ritrovata sola a casa, perché Marco aveva preso il primo aereo per Londra. La morte dei genitori non avrebbe interrotto i sogni del fratello di formulare una salvifica new economy. Aveva dato due settimane di ferie a Teresa, quindi la casa era deserta e la noia l’aveva presto assalita. Era sola, in una casa in cui nulla era stato scelto da lei e per lei, e aveva iniziato a trastullarsi con alcuni soprammobili del salone, per poi passare ad un’osservazione attenta dei quadri, quindi a rovistare nei cassetti dello studio del padre e negli armadi.
A tarda sera un diario dalla copertina di cuoio era venuto fuori da una scatola di stivali e Tiziano De Monticelli era emerso dalla scrittura tonda di sua madre.
Aveva riletto tutto fino all’alba, incredula. Poi, intorno alle sette di mattina, aveva deciso di andare a fare colazione fuori, perché nessuno le avrebbe portato il cornetto quella mattina.
Roma era uguale a prima: il fioraio, l’edicola, il signore col cappotto verde bottiglia che portava a spasso il cane. Era tutto come prima, eppure era cambiato il mondo.
Mentre la cassiera le porgeva il resto su un piattino metallico con sopra scritto Buongiorno, Giulia si disse che non era possibile. Mugugnò qualcosa e conservò le monete dentro la borsa, senza contarle.

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