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coaching – scrivere un romanzo


Le iscrizioni sono sempre aperte.

Il coaching comincerà a settembre 2022.


CHE COS’È


Un anno dedicato alla scrittura del tuo romanzo. Un anno per prenderti finalmente sul serio. Si lavora in un piccolo gruppo: un laboratorio composto da cinque scrittori (max) e un coach, scrittore anche lui. 14 impegnativi mesi durante i quali sarai seguito nell’ideazione di un arco di trasformazione dei personaggi, nella stesura della trama e nella scrittura (e riscrittura) delle varie parti che comporranno la tua storia.

L’obiettivo che ci proponiamo è quello di arrivare a una prima stesura completa e compiuta del testo e per raggiungerlo c’è un solo metodo che secondo noi funziona dalla notte dei tempi: la maieutica. Vogliamo parlare con te, leggere con te quello che hai scritto, consigliarti, aggiustare il tiro, intervenire di più e meglio nei punti difficili, quando ti senti perso, quando non riconosci più la tua capacità e noi invece possiamo ancora, perché abbiamo conservato uno sguardo esterno, oggettivo, positivo. Perché abbiamo esperienza e sappiamo come fare. Ci piace tenere la rotta, accompagnarti fianco a fianco, far crescere la tua scrittura, scorgere maggiore consapevolezza, lasciarti andare quando sarai pronto.


COME FUNZIONA


Nelle prime settimane compiremo il percorso che porta dall’idea fumosa a una concreta premessa narrativa e poi a un chiaro soggetto grazie al quale cominciare a discutere della tua storia e a testarne l’efficacia già prima di metterla nero su bianco. Dopo la fase iniziale riservata all’architettura, gli incontri saranno dedicati all’accompagnamento nella stesura del testo e all’analisi di quanto prodotto.

Gli incontri saranno tutti on-line, come sono sempre stati i nostri corsi già prima dell’emergenza sanitaria. La struttura delle lezioni è nata digitale, non si è adattata in corsa. Sfruttiamo la tecnologia per essere sempre al tuo fianco anche a mille leghe di distanza, ma senza invadere il tuo quotidiano creativo. Avrai il tuo tempo, il tuo spazio per scrivere nella tua personalissima maniera. Nella classe di coaching Scrivere un romanzo non c’è spazio per allievi e aspiranti, ma solo per scrittori.


IN CONCRETO


1 incontro iniziale con Francesca de Lena, per valutare le sinossi di partenza dei romanzi partecipanti e discutere insieme di cosa non funziona e di cosa valorizzare e approfondire

22 lezioni di 3 ore ciascuna, per un totale di 66 ore di coaching con Luca Mercadante

La lettura progressiva del tuo materiale e il supporto costante di Luca Mercadante

1 incontro finale con Francesca de Lena per discutere della potenzialità editoriale di ogni progetto


CON CHI LAVORERAI


Luca Mercadante
Menzione speciale della Giuria della XXX edizione del Premio Italo Calvino per il romanzo Presunzione, MinimumFax. È autore, con Luca Trapanese, di Nata per te. Storia di Alba raccontata tra noi, Einaudi. Insegna scrittura creativa, qui per ILDA tiene il corsi Costruttori Fondamenta(le), Costruttori Ipotesi di Romanzo e il coaching. La stanza dentro gli scrittori è la sua idea di scrittura.


Francesca de Lena
Editor e agente letteraria della United Stories. Ha fondato e dirige I libri degli altri. È una scout. Insegna in Apnea e Masterclass.


DICE CHI LO HA FREQUENTATO


RAFFAELLA ARENA

Iscrivermi al corso Costruttori è stata la cosa migliore che potessi fare per la mia scrittura. Negli anni, ho frequentato molti corsi e scuole di scrittura e ho quindi avuto parecchi maestri. Quando mi sono resa conto che tutte le mie ultime scritture si aggiravano attorno allo stesso argomento, ho colto il suggerimento di qualcuno di quei maestri di provare a scriverci un romanzo.

Ho scelto Costruttori perché avevo già ascoltato Luca Mercadante in un’altra occasione e il suo modo di fare lezione mi aveva colpito. Luca è un maestro generoso, “all’antica”. Possiede la capacità di immedesimarsi nelle storie che raccontano gli altri e di entrare in risonanza con chi le sta immaginando e provando a metterle su carta. Crede nel tuo progetto e ti fa sentire quanto sia importante prenderlo sul serio. Chi scrive sotto la sua supervisione ha la possibilità di discutere ad alta voce, con una persona esperta, a riguardo del mondo che sta costruendo fra le sue pagine. E di ramificare la propria fantasia. Solo chi scrive sa quanto possa essere frustrante andare avanti in solitudine, senza sapere se quello che si sta inventando sta andando verso una direzione proficua.

Senza la maieutica di Luca Mercadante non avrei costruito la struttura del mio romanzo, non avrei capito cosa muove il mio personaggio, non lo avrei mai messo alle strette in maniera stringente per farlo crescere, non avrei dato il giusto peso alla scaletta e, probabilmente, non avrei superato lo scoglio della pagina bianca. Se non mi fossi iscritta al corso Costruttori il mio romanzo sarebbe rimasto una risma di fogli acerbi dentro un cassetto.  


STEFANO GALARDINI

La classe di coaching dei costruttori è come un piccolo accampamento in mezzo al bosco, dove potersi incontrare e discutere insieme e confrontarsi con una guida, esperta dei sentieri di una storia.Da un piccolo fuoco, appena un’idea, con tanto lavoro e tanti ottimi spunti e consigli, si impara a trasformare quella scintilla in un fuoco vero, scena dopo scena, atto dopo atto, fino a diventare quella prima stesura che è il primo traguardo di ogni scrittore. Per me partecipare ai costruttori è stato questo: un luogo “nostro” dove incontrarsi, confrontarsi e imparare a lavorare con una direzione, per raggiungere quel traguardo. Un laboratorio di scrittura dove le regole e la creatività sono trattate con pari dignità, così come è giusto che sia. In breve, il posto ideale dove un’idea ha spazio e nutrimento per crescere e diventare storia e da lì, romanzo.


FLAVIA FLORINDI

Costruttori è come fare tante vasche in piscina: all’inizio ci si butta dentro a capofitto, senza stile o quasi; poi subentra la consapevolezza fisica e mentale di ciò che si sta facendo, e magari la paura e la stanchezza; ma dopo ancora c’è lo stupore di essere ancora a galla, la gioia di vedere il proprio stile più fluido e il desiderio di andare
avanti, di sfidarsi ancora e ancora. Costruttori è stato questo per me, e tanta parte va sicuramente al coach: Luca è maieutico, entra in sintonia senza però fare l’amicone, interviene mai a gamba tesa, rispetta moltissimo il lavoro e l’opinione altrui. E magari questo non è facile riscontrarlo in uno scrittore ormai ‘abilitato’ (ho partecipato a diversi corsi e seminari e un po’ di gente l’ho incontrata). Ci vuole però tanta volontà: Costruttori è certo una delle esperienze che mi ha cambiata in profondità, ma per scrivere bisogna fare tante vasche.


DANIELA TALLINI

Ho conosciuto Luca Mercadante per libro interposto (Galeotto fu il libro e chi lo scrisse…): leggevo avidamente le notizie dal premio Calvino e il suo romanzo mi incuriosiva per la trama e l’ambientazione, in luoghi tanto vicini ai miei.
Poi un giorno ho notato il suo nome su una locandina: avrebbe tenuto un corso di scrittura creativa per principianti, Catrame, nella mia sonnolenta cittadina: chi l’avrebbe detto, ho pensato, ora o mai più. Mi sono presentata un po’ vergognosa nella libreria, ed è iniziata l’avventura nel mondo straordinario. Ancora non si è fermata, e forse non si fermerà mai. Oggi sono quasi alla fine del secondo corso con Luca, Costruttori, e quasi alla fine della prima faticosa stesura del mio lavoro, che forse un giorno sarà un romanzo. Un anno denso di combattimenti, di alti e di bassi, di confronto con i compagni di viaggio ma anche di solitudini necessarie. La meta finale è ancora distante e nebulosa, ma il death point è stato superato… sono felice pienamente del percorso finalmente intrapreso, e grata a Luca per averlo seguito con pazienza, competenza, energia, passione.


Mi chiamo Roberto Frazzetta, vivo a Cerveteri, scrivo per passione da qualche tempo e negli ultimi anni ho iniziato a frequentare corsi di scrittura creativa per saperne di più e confrontarmi con altri. Ho conosciuto I Libri Degli Altri proprio seguendo uno dei miei scrittori preferiti (Piergiorgio Pulixi) che per ILDA ha tenuto con altri noti autori un corso di scrittura. Ho scoperto molte cose che da scrittore che navigava a vista non tenevo in considerazione e mi si è aperto un mondo di nozioni, curiosità e nuove prospettive di come poter costruire la struttura di un romanzo solido. Luca Mercadante e Francesca de Lena mi sono piaciuti a pelle, ed è divertente questa espressione se si pensa all’inevitabile distanza dell’online: eppure ho rivalutato la mia idea sui corsi a distanza, l’ho trovata un’esperienza pratica e soddisfacente. Ho sottoposto a Francesca uno dei miei ultimi lavori e lei mi ha aiutato a metterlo più a fuoco (processo non indolore) e a mettere in discussione la storia. Poi l’opportunità di far parte di una classe di coaching letterario e la sola idea di avere un sostegno per un anno, una guida che legge ogni frase, parola per parola ed è disposto a far parte della storia che vuoi scrivere, mi ha conquistato. Non ho mai fatto esperienze simili e posso dire che mi sta piacendo e sta dando i suoi frutti. Il coaching è tenuto da Luca Mercandante e con me ci sono altri quattro scrittori esordienti. Si è instaurato subito un clima di complicità e sostegno e Luca ci sta seguendo passo passo, aiutandoci a scoprire le potenzialità della storia e mettendola continuamente in crisi per testare la solidità: un alleato veramente prezioso e competente. Il mio modo di scrivere e concepire un romanzo è nettamente cambiato e migliorato, e questo percorso mi ha dato l’opportunità di farmi delle domande sul perché scrivere quel tipo di storia piuttosto che un’altra e come mettermi in discussione. È qualcosa che mi sento di consigliare a chi ama scrivere e vuole migliorare sia nella forma che nella sostanza e per chi nella scrittura cerca anche una parte di sé.

Consigliatissimo e penso che terminata questa edizione sarò un ri-frequentante.


PER ISCRIVERSI


Scrivi a ilibrideglialtri@gmail.com con oggetto: candidatura coaching

Presentati raccontandoci chi sei e perché vuoi fare questo percorso

Invia in allegato:

L’dea, il progetto, la sinossi o la scaletta del romanzo che hai in mente e sulla cui costruzione vuoi lavorare: scegli il tipo di presentazione che preferisci, formulandola nella maniera più chiara possibile.

Dalle 5 alle 10 cartelle (1 cartella = 1800 battute spazi inclusi) di materiale già scritto: anche incompiuto, non consequenziale, frammentato. Purché sia inerente a ciò che vuoi raccontare.


Le iscrizioni sono sempre aperte, il coaching comincerà a settembre 2022


CALENDARIO


Gli incontri del coaching Scrivere un romanzo sono il lunedì dalle 18:00 alle 21:00 da settembre 2022 a settembre 2023 (per diverse esigenze si troverà un accordo con la classe)


Primo trimestre

1. Incontro iniziale e valutativo con l’editor

2. L’idea, il protagonista e i suoi conflitti

3. La struttura, l’arco di trasformazione

4. La scaletta. Assegnazione I Atto

5. Consegna I Atto

6. Editing I Atto e assegnazione riscrittura


Secondo trimestre

7. Consegna riscrittura I Atto

8. Editing I Atto definitivo

9. Lezione assegnazione prima parte II Atto

10. Consegna prima parte II Atto

11. Editing prima parte II Atto e assegnazione riscrittura


Terzo trimestre

12. Consegna riscrittura prima parte II Atto e assegnazione seconda parte II Atto

13. Consegna seconda parte II Atto

14. Editing II Atto e assegnazione riscrittura

15. Consegna riscrittura II Atto

16. Editing II Atto definitivo

17. Assegnazione III Atto


Quarto trimestre

18. Consegna III Atto

19. Editing III Atto e assegnazione riscrittura

20. Consegna riscrittura III Atto

21. Editing III atto definitivo

22. Raccontare un romanzo

23. Lezione conclusiva, soggetto, pitch

24. Incontro finale con l’editor per discutere delle potenzialità editoriali dei progetti


INFO E COSTI


Il coaching Scrivere un romanzo costa 480,00 euro per ogni trimestre.

Primo trimestre: settembre/novembre 2022

Secondo trimestre: dicembre 2022/febbraio 2023

Terzo trimestre: marzo/maggio 2023

Quarto trimestre: giugno/settembre (pausa ad agosto) 2023

Per informazioni e iscrizioni scrivi a: ilibrideglialtri@gmail.com

Storia di Amelia

A seguito della nostra call per Apnea scuola di lettura e editing abbiamo ricevuto diversi romanzi. Dopo aver scelto i romanzi per il laboratorio ne abbiamo selezionati altri tre i cui primi capitoli pubblichiamo ora sulla nostra rivista, dopo un editing con l’autore.


Storia di Amelia è di Irene Catanzariti.

La storia: Siamo a Trieste, al funerale di Amelia, una settantenne istriana morta con la testa tranciata da un cavo di acciaio dopo aver salvato la vita a un poliziotto.
Al termine della funzione, Diego, amico della defunta, legge una lettera fattagli pervenire dalla donna con l’indicazione di aprirla solo durante il proprio funerale: nella lettera Amelia si autodenuncia come assassina di quello stesso poliziotto, al quale ha invece salvato la vita, e come suicida.
La discrepanza rispetto alla realtà è tale che Diego decide di indagare. Si reca a casa di Amelia e trova ad attenderlo un’intera scatola di lettere contenenti la vera storia di Amelia.

Intervento di editing: lo scopo generale dell’editing per questo primo capitolo è stato quello di alleggerire alcuni passaggi, dosare le informazioni ed esaltare l’ironia della voce narrante.


Figurati se non doveva piovere il giorno del suo funerale! Aveva sperato in una splendida giornata di sole, accompagnata da Shine on You Crazy Diamond sparato a tutto volume in chiesa. E invece, cosa diavolo sta facendo suonare il dannato prete all’organista? La Lacrimosa di Verdi!

Lo avrà detto mille volte, a Diego: «quando muoio, in chiesa voglio i Pink Floyd.»

Mai una volta che una possa essere accontentata nella vita, neanche da morta.

Comunque, di gente ne è venuta parecchia ed è proprio soddisfatta di riuscire a vedere, come diceva sempre sua madre, “quelli che piangono per davvero e quelli che no”.

Amelia oggi, pure se morta, riesce a vedere tutto e tutti. Si piazza invisibile accanto ai crocchi di conoscenti o semplici curiosi riuniti davanti alla chiesa reagendo ai commenti con la sua usuale, ma ora trasparente, mimica facciale.

Entra anche lei con aria compunta in chiesa, camminando solenne accanto alla sua vicina di casa, la signora Tonia, quella con lo chignon stretto. Quella che in questo momento sta parlando con Lina, la moglie del panettiere.

«È stato un vero shock,  sa?»

L’altra accelera il passo, una donna minuta con un cappello grigio alla pescatora addosso, grondante di pioggia.

Tonia rallenta appena in modo da permetterle di stare al passo, senza però offrirle riparo sotto il suo ombrello.

«Prima quel gesto eroico e poi finire così, poveretta. Certo, è sempre stata un tipo un po’, come dire, particolare, ecco. E pure la sua morte – Dio l’abbia in gloria – non poteva che essere originale.»

«Per essere particolare, era particolare» aggiunge Tonia con l’aria di saperla lunga «si figuri che parlava con una pianta, una pianta carnivora per giunta. Le aveva anche dato un nome, Titti la chiamava. Diceva che l’aveva battezzata così da quando si era mangiata un canarino senza lasciarne neanche una piuma. Digerito, completamente.»

Amelia ride di gusto, gettando indietro il petto. Alzando gli occhi al cielo si allontana da quella cretina di Tonia, rivolgendo la sua attenzione a un tizio sulla settantina, segaligno e alto di statura, con un berretto a quadri calato di traverso sulla testa, che parla con un donnone vestito sobriamente come una guardia svizzera. Lo sente schiarirsi la voce nel palese sforzo di avviare una conversazione.

«Era istriana, proprio come noi» riesce finalmente a dire.

«La conosceva bene anche lei allora?»

«Beh, proprio bene, no. Diciamo buongiorno e buonasera. Però i miei genitori avevano conosciuto i suoi in Campo Marzio, eravamo vicini di baracca. Anche noi siamo stati tra gli ultimi ad andarcene.»

Al ricordo del campo profughi, Amelia ingobbisce la schiena, aggrotta la fronte e si allontana dai due, muovendosi come una zanzara tra un banco della chiesa e l’altro, finché viene attirata dalle parole di un ometto pelato, visibilmente soddisfatto di essere il fulcro dell’attenzione dello stormo di corvacci con cui divide la panca.

«Ma è vero che non han più trovato la testa?»

«Ma cosa dice, siòr Bepi! Sì che l’han trovata. Era solo volata qualche metro più in là. Non voglio neppure pensarci, l’ho sognata tutta la notte quella scena.»

«Certo che anche Amelia, arrivare senza casco a tutta velocità…»

«Il casco non lo portava mai, diceva che era la sua ultima forma di resistenza contro il sistema.»

«Se solo avesse avuto il casco forse non avrebbe fatto quella fine. E invece zac! Ha perso la testa.»

Allo zac! le comari sobbalzano piallandosi all’unisono contro lo schienale della panca, mano alla bocca a trattenere un grido. Amelia, invece, portandosi istintivamente una mano alla gola, stringe forte le labbra e rivive l’istante in cui aveva sentito il cavo incidere crudelmente la carne, poi le ossa e le cartilagini. La precisione millimetrica con la quale aveva trovato lo spazio esatto tra le vertebre la riempiva ancora di sconcerto.

«La smetta, siòr Bepi, la smetta subito, per carità» – sussurra una delle comari, dando voce al pensiero di tutte.

Amelia avrebbe voglia di mordere quel ridicolo cranio lucido fino a farlo sanguinare, così farebbe rimpiangere pure a lui di non indossare un bel casco rigido e soffocante. Solo un idiota può pensare che un casco possa proteggere da un cavo d’acciaio teso in mezzo alla strada.

Inizia la messa, che procede con la consueta monotonia finché, a metà funzione, il sacerdote invita a leggere un’intenzione per la defunta, o a condividerne un ricordo.

Nel silenzio più totale, mentre cento occhi saettano guardando di sguincio i vicini, attenti ad evitarne lo sguardo, si alza un uomo. È in divisa.

Oh no, c’è anche il mona. Quella camminata a gambe larghe la riconoscerei tra mille – Amelia lo guarda dirigersi verso l’altare. E quel taglio di capelli rasato ai lati. Che cos’ha oggi disegnato sulla tempia sinistra? Sembrano fulmini. E il cinturone? Tale e quale quello dello sceriffo di un film americano di serie b.

L’uomo si avvicina al leggio, sistema il microfono, lo abbassa a fatica. Estrae un foglietto spiegazzato dalla tasca.

«Grazie, Amelia.»

Amelia è livida.    

«Grazie Amelia, non ti conoscevo. Non ti conoscevo, ma a te devo la vita. Se non mi avessi arpionato con il tuo ombrello – un ombrellone più che un ombrello – e letteralmente buttato sul marciapiede, quella corriera che sopraggiungeva a tutta velocità, come solo qui a Trieste le corriere sanno fare, avrebbe fatto di me polpette e non sarei qui oggi al tuo funerale a leggere queste poche righe di ringraziamento. Per merito tuo potrò continuare a fare il mio dovere al servizio dei nostri amati concittadini italiani.»

La funzione continua, inesorabile, fino a giungere all’agognata formula che invita a rompere le righe.

«Prima di tornare alle vostre case, un amico della defunta ha chiesto il permesso di leggere una lettera per esaudire le ultime volontà della cara estinta. Proceda pure, signor Cabrera, la prego.»

A sentire le parole del parroco lo scalpiccio di chi si stava già alzando cessa di colpo e un centinaio di occhi incuriositi guardano verso l’altare.

Un uomo alto e brizzolato sui sessant’anni si avvicina al leggio sistemandosi la cravatta e raddrizzando la schiena. Ha gli occhi lucidi. La voce gli esce armoniosa, ma un po’ a fatica, quasi rotta dal pianto, provocando un lungo sospiro nelle donne in chiesa.

«Buongiorno, mi chiamo Diego Cabrera e sono – ero – un amico di Amelia. Ci conoscevamo da quasi quarant’anni. Ero poco più che ventenne quando la incontrai, appena arrivato a Trieste dal mio paese, il Cile, dal quale ero fuggito grazie all’aiuto della vostra ambasciata poco dopo l’inizio della dittatura. Amelia divenne la mia prima famiglia in Italia, mi accolse con la generosità che le era naturale e da allora siamo sempre rimasti amici.

«Di recente Amelia mi ha fatto recapitare una lettera in una busta sigillata, chiedendomi, ingiungendomi, anzi, com’era suo stile, di aprirla e leggerla solo al suo funerale, quando fosse avvenuto. Mai avrei immaginato potesse accadere così presto. Pensavo fosse una delle sue solite esagerazioni e invece. Forse se lo sentiva.»

Diego alza lo sguardo ad abbracciare la chiesa e rompe il sigillo, aprendo la busta con gesti misurati. Dopo aver preso un profondo respiro, inizia a leggere.

Buongiorno a tutti,

se state ascoltando il contenuto di questa breve lettera significa che sono morta. Ho voluto vi venisse letta per evitare le usuali beatificazioni ex post che si fanno dei defunti, solo per il fatto che sono morti.

Voglio subito fugare ogni dubbio sul fatto di essere stata o meno una buona persona: non lo sono stata.

Ho ucciso un uomo, un mona: un bulletto di periferia, un poliziotto. Ucciderne uno per punirli tutti.

A Diego cade quasi la lettera dalle mani, la stringe forte per non perderla e riesce a controllarsi. Il poliziotto si alza di scatto, i denti digrignati, e ripiomba a sedere impettito. In chiesa non si sente un rumore, tutti stanno trattenendo il fiato. Nemmeno il miracolo della Vergine che lacrima ogni dieci anni per cui la chiesa era famosa ha mai sortito un simile effetto, pensa il parroco furioso.

Diego intravede con la coda dell’occhio lo sguardo vitreo di don Girolamo che è scattato in piedi, quasi a volersi lanciare verso di lui, così, prima che possa muovere un passo, prendendo un respiro, continua rapido.

Poi mi sono suicidata, non certo per il rimorso: nessuno può pensare di sostituirsi a Dio e credere di cavarsela. Di attendere i tempi della giustizia divina non ci penso proprio, preferisco chiudere la pratica in fretta.

E ora vorrei proprio vedere la faccia del prete. Come farà a rimangiarsi le parole della messa che ha appena finito di officiare? Schiaccerà il tasto rewind e riporterà all’inizio il film del mio funerale per cacciarmi dalla chiesa?

Adesso vi saluto, augurando a tutti una buona vita e a te, amico mio,  dico grazie per aver esaudito quest’ultimo mio desiderio.

Amelia

A Diego iniziano a tremare le mani mentre il sacerdote in fretta e furia pronuncia il consueto la messa è finita, andate in pace.

Alza lo sguardo e vede sui banchi un centinaio di occhi sbarrati che lo fissano muti, raggelati. Poi un boato. I commenti scoppiano tutti insieme: increduli gli uni, offesi gli altri. Si sentono tutti presi in giro, la ritenevano un’eroina e invece è solo una povera pazza che ha voluto prendersi gioco di loro con una stupida lettera, palesemente falsa.

Dice di aver ucciso il poliziotto che l’ha appena ringraziata – perché è chiaro si tratti di lui – e gli ha invece salvato la vita. Sostiene di essersi suicidata mentre è sicuro al cento per cento che la sua morte sia frutto di un tragico incidente, con tanto di testimonianze filmate dalle telecamere dei negozi della via.

E allora perché?

Amelia è in visibilio, non si è mai divertita tanto. E pensare che doveva essere tutto vero, parola per parola, ma – come si dice – l’uomo propone e Dio dispone. Se fosse andata come aveva previsto non si sarebbe mai potuta godere quello spettacolo: da compianta eroina di cui tutti rivendicano l’amicizia, a povera matta-semplice conoscente in un lasso temporale di poco più di un minuto: da Guinness dei primati.  Adesso può pure allontanarsi soddisfatta da questa valle di lacrime, in ogni caso la dispensa ottenuta sta per scadere e non vuole farsi richiamare, chiude gli occhi e si abbandona.


Irene Catanzariti è nata a Milano nel 1966.
Dopo aver seguito i corsi della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari, frequenta quelli del Penelope Story Lab di Ivano Porpora e della Bottega di Narrazione di Giulio Mozzi.
A dicembre 2022 ha concluso il corso di perfezionamento in Medicina Narrativa dell’Università di Modena e Reggio Emilia, corso seguito per unire due delle sue passioni: scrittura e naturopatia.

Così vivevano l’estate

A seguito della nostra call per Apnea scuola di lettura e editing abbiamo ricevuto diversi romanzi. Dopo aver scelto i romanzi per il laboratorio ne abbiamo selezionati altri tre i cui primi capitoli pubblichiamo ora sulla nostra rivista, dopo un editing con l’autore.


Così vivevano l’estate è di Paulina Spiechowicz.

La storia: Beatrice e Kamil hanno quattordici e sedici anni quando vengono sradicati dall’Italia e portati dal padre in Polonia, sua terra di origine. Solo l’estate successiva riusciranno a tornare a Ostia, dove vive la madre italiana, una donna fragile e forte al contempo. Al rientro tutto sembra uguale ma niente è più lo stesso. Dell’incidente dell’anno prima – che ha portato alla separazione dei genitori – nessuno osa parlare.

Intervento di editing: leggeri interventi mirati a chiarire i movimenti dei personaggi e il loro ruolo nella vicenda, e a far emergere la tensione della scena finale.


In lontananza pareva un fuoco, un alone che diventava una pozza di luce nel mare. Più si avvicinavano, percorrendo la strada a bordo dell’auto di Ludovica, più l’intensità delle fiamme aumentava e modificava il punto di vista: non venivano dalla spiaggia bensì dalla pineta. Non solo: divampavano lì, all’altezza del campeggio di Castel Fusano, e sembravano nascere dal bungalow di Pawel.

Ci sono tutti i suoi soldi là dentro, pensò Beatrice. Poi guardò le spalle del ragazzo. Sedeva davanti, accanto all’amica. Attraverso lo specchietto retrovisore, Beatrice poteva scorgere il suo volto. Chissà se anche lei aveva gli stessi segni, se quella sensualità inferociva il suo viso. E che serata incredibile, Beatrice aveva quasi voglia di saltare. Dal finestrino, arrivava loro l’aria del mare come onde di vento mosse dall’alta marea. Ma quanto più fresca e calma, e anche più silenziosa, era quest’aria, tanto più Beatrice intuiva che c’era qualcosa laggiù, dove nasceva il rogo, che non andava.  

Ludovica fermò la macchina davanti al cancello che delimitava la pineta dal campeggio. Si voltò prima verso di Pawel, poi la guardò.

«Ti accompagniamo dentro. Sei d’accordo, Bea?»

Quando varcarono l’ingresso, non c’era nessuno a vigilare all’interno della cabina di controllo. Nessuno chiese chi stessero cercando, così come accadeva di solito quando passavano a trovare Pawel.

Da una decina d’anni quella zona nei pressi di Ostia, che in principio era stata costruita per accogliere turisti sul litorale romano, serviva a dar rifugio ai profughi che fuggivano dall’ex Unione sovietica. C’erano russi, polacchi, sloveni, ucraini, qualche albanese, pochi bulgari. Con la guerra nei Balcani si erano aggiunti anche i serbi e gli jugoslavi. Arrivavano a sciami in sella a minuscole Fiat centoventisei. In polacco le chiamavano maluch, piccino, eppure dentro riuscivano a mettere il necessario: una famiglia, qualche oggetto personale, carne in scatola, vodka e sottaceti.

L’aria sapeva di fumo, e con quell’odore di brace Beatrice percepì, adesso con forza, che qualcosa di terribile era davvero lì lì per accadere, al punto che l’euforia di poco prima si stava tramutando in ansia; non disse niente. Guardò i due che avanzavano, sembravano ignari. Ludovica camminava sicura, si vedeva che non veniva da quel mondo. Così come Beatrice, lei abitava i bei quartieri romani. Stava aggrappata al braccetto di Pawel, anche lui andava spensierato, teneva un pezzo di liquirizia tra le labbra a mo’ di sigaretta, con la ragazza accanto per un attimo doveva dimenticare le sue origini.

«Non è giusto, così mi fate sentire tagliata fuori», poco prima Ludovica li aveva rimproverati, mentre erano ancora tutti e tre nudi nel letto, e Pawel aveva sussurrato qualcosa a Beatrice in polacco. Perché Beatrice aveva in comune col ragazzo almeno la lingua e la patria, ed era come condividere un segreto. La lingua aveva dato loro accesso a un’intimità immediata.

Pensò al fratello, anche con Kamil avevano condiviso segreti, parlando in italiano però, mentre vivevano in Polonia, dal padre, durante l’anno precedente. E quella lingua, straniera ai più, era diventata il loro punto di forza. L’impressione di stare a casa anche se lontani, dalla madre e dagli ex compagni di classe. Come se fossero rimasti a Roma, benché fuori dalla finestra ci fosse Varsavia, uno stuolo morbido di neve fresca sui tetti.

Attraversarono il campo senza parlare, in direzione del bungalow. Mentre avanzavano, Ludovica – ormai anche lei aveva visto il fuoco – minimizzò ripetendo: «non è niente, che ti credi.»

«Cinque milioni di lire.» disse Pawel scandendo ogni sillaba.

Beatrice non aveva smesso di pensarci da quando aveva visto il rogo. Forse non solo presentiva la catastrofe, forse intuiva che quanto stava succedendo era dovuto a lei. Si sentiva una stupida, perché proprio lei aveva detto a Nico: «guarda che Pawel ha messo da parte cinque milioni di lire, ha lavorato la mattina come muratore, studiato la sera per passare gli esami, dal lunedì alla domenica.» Pawel aveva un solo obiettivo: partire di nuovo. Beatrice a Nico aveva detto anche questo, ma come le era venuto in mente?

Il fumo aumentava, il rogo avvampava, il calore entrava loro nel sangue. Iniziarono a correre e si fermarono a pochi metri dal bungalow. Qui, solo fiamme e cenere.

Beatrice riconobbe subito il branco. Nico era in testa, Kamil invece stava in disparte. Avrebbe voluto andare dal fratello, chiedergli come aveva potuto farle questo. Invece rimase immobile.

Kamil teneva una pistola nella mano destra mentre tutto bruciava, nello strepitio del castagno di cui le braci scoppiettavano.

«Damme ‘sta cazzo de pistola» gli disse Nico non appena vide Pawel seguito dalle due ragazze.  

Kamil non rispose, i suoi occhi erano vuoti.

E più del rogo, più della pistola, più di Nico, Beatrice adesso aveva paura di quegli occhi acquorei, lontanissimi. Sembrava che il fratello non fosse più con loro nel campo, in mezzo alla pineta oscura, alla vegetazione secca, tra la sterpaglia e il terriccio. Fino alle dune, fino al mare, al Tirreno tiepido: solo il fruscio e la risacca, ondulazione tenue.


Paulina Spiechowicz, scrittrice e ricercatrice universitaria, è nata in Polonia e cresciuta in Italia. Vive a Roma, lavora tra Parigi e Beirut, dove insegna storia dell’arte e svolge ricerche in ambito umanistico.

Farnia

A seguito della nostra call per Apnea scuola di lettura e editing abbiamo ricevuto diversi romanzi. Dopo aver scelto i romanzi per il laboratorio ne abbiamo selezionati altri tre i cui primi capitoli pubblichiamo ora sulla nostra rivista, dopo un editing con l’autore.


Farnia è di Francesco Montonati.

La storia:

Langhe 1946, Farnia ha sedici anni e un obiettivo: succedere al padre Giuseppe nella vigna di famiglia e renderla un impero.
Deve però scontrarsi con la mentalità retrograda e maschilista dell’uomo che alla figlia volenterosa e appassionata preferisce il figlio maschio, anche se svogliato e inconcludente. Sperimentando la propria sessualità Farnia si infatua di una sua amica, Celia, la quale però non è disposta a una relazione omosessuale. Per gelosia Farnia si libera della verginità con Mario, un bracciante della vigna, e rimane incinta; il padre la caccia di casa. Tredici anni dopo, Farnia torna al paese natio travestita da prete per riappropriarsi dell’attività negatale perché donna: la vigna di famiglia.

Intervento di editing: L’intervento di editing ha mirato a ridurre le iperboli e l’eccesso di termini iper-connotanti per consentire al lettore di concentrare l’attenzione sui movimenti di scena e sulle azioni.



Le molle dei sedili cigolavano a ogni buca e il motore arrancava su per la salita. Piero aveva stipato il furgone di scatoloni, ma era così malmesso che per non perdere il controllo doveva stringere il volante con tutte le sue forze. Sarebbe stato forse meglio fare qualche viaggio in più a furgone scarico, conservando così una speranza minima di arrivare.
Quando poi iniziò la discesa, la situazione migliorò e, sciolta un poco la tensione, Piero poté concedersi di ammirare il paesaggio. Le orecchie erano stremate dal fracasso, ma gli occhi ringraziavano per quella vista: la primavera del 1959 era appena sbocciata e regalava una giornata fresca e luminosa.
Intorno al paese era tutto un fiorire di vegetazione, filari di vitigni si alternavano a coltivazioni di coriandolo e di grano, e campi di un verde tenero si stendevano in ogni direzione. C’era molta gente in quei campi, contadini e braccianti, tutti occupati, tutti a darsi un gran da fare. Il suono del motore si assestò su un tono più lieve, sollevato, e Piero guidò sereno fino al paese.
Fermò il furgone davanti alla chiesa e scese con un certo sollievo, ricevendo occhiate curiose dalle persone sulla piazza. Erano lì per lui, il nuovo vicecurato. Un ragazzino, che stava seduto sulla fontana a forma di margherita, appena lo vide balzò in piedi e gli corse incontro gridando il suo benvenuto, il cappotto frusto e fuori misura che gli sballottava addosso. Dopo essersi presentato come Pano, il chierichetto di Don Giacomo, il ragazzino si infilò nell’Uva Mòl e ne uscì con un uomo avvolto in una mantella bianca, che sorrideva e si voltava a destra e a sinistra con un sorriso gioviale.
Si strinsero la mano. «Fatto buon viaggio?»
«Ottimo, grazie» rispose Piero.
Il prete indicò l’edificio che dominava la piazza. «Ecco San Secondo, benvenuto nella tua nuova chiesa» Il tono solenne di don Giacomo poco si addiceva alla chiesetta che stava indicando. «Vieni, ti mostro gli spazi.»
Piero lo seguì, adattando il proprio passo a quello affaticato del parroco.

Fu una mattinata densa, firmarono carte, visitarono ambienti, videro posti e accennarono problemi.
Don Giacomo lo condusse in un alloggio spoglio e appena arredato: sarebbe stato il suo appartamento. Qua e là erano impilate le scatole del vicecurato in partenza. Piero chiese al parroco notizie di chi l’aveva preceduto, ma riuscì solo a sapere si chiamava Fabrizio e che aveva perso la vocazione strada facendo: adesso lavorava a Torino come tornitore alla Fiat.
La vocazione di Fabrizio, considerò Piero, era comunque più forte della sua.
Don Giacomo si fece preparare il caffè dal chierichetto e lo bevve in cucina seduto con Piero. La finestra dava su un parco oltre il quale si scorgeva una piccola vigna malmessa.
Piero fece un sorriso. «Sarebbe da sistemare.»
Don Giacomo annuì deciso. «Se in questo paese c’è qualcosa che ha bisogno di un intervento divino, santo Dio, è proprio quella vignaccia. Mi hanno detto che hai fatto studi da agrimensore, Piero.»
«Da agronomo, sì.»
«Ci siamo capiti.»
«Ho studiato agronomia in seminario, la produzione di vino mi affascina da sempre.»
Don Giacomo batté una mano sulla spalla di Piero. «Allora sei capitato nel posto giusto. Qui come ti giri vedrai solo vigne, vigne e ancora vigne. Il vino ti verrà a nausea, mi devi credere.» Poi sorrise a Pano. «Capace che riusciamo a far saltare fuori una bottiglia decente da quella vigna.»
«Vignaccia!» corresse Pano.
«Vignaccia, giusto.»
Rimasero in silenzio per qualche minuto, mentre Don Giacomo pressava il tabacco nella pipa, la accendeva e dava qualche boccata. Una nube biancastra si diffuse attorno alla faccia del prete. Piero chiese se c’era qualcosa di cui doveva preoccuparsi, qualcosa da sapere per iniziare senza sorprese. E il Don, da navigato uomo di chiesa, gli rispose che le spiegazioni avevano valore fino a un certo punto e la cosa migliore era avere a che fare con il paese. Che uno degli insegnamenti di Gesù era di stare con le persone, con i loro bisogni, e Piero capì che il parroco non aveva più voglia di parlare. Era però il suo unico referente, doveva chiedere a lui, e aveva ancora molto da sapere. Gli domandò dei suoi piani imminenti e Don Giacomo glieli illustrò. Per l’indomani aveva previsto una messa di presentazione, Piero sarebbe stato introdotto alla curiosa e guardinga comunità con un’omelia speciale che aveva già preparato.
Piero iniziò a scaricare le scatole dal furgone.
«Ci vediamo più tardi per la messa serale, se vuoi venire» disse il Don senza accennare ad aiutare il nuovo arrivato. «Se invece vuoi riposare, ci vediamo direttamente domattina in chiesa.»
Uscì e si dileguò, forse per rintanarsi nella taverna da dove era uscito. Anche Pano era scomparso.


Francesco Montonati è nato nel 1976 a Milano, dove vive e lavora come freelance in ambito editoriale. È stato anche musicista e attore, e ha scritto il suo primo racconto a undici anni, ispirato da Edgar Allan Poe. Suoi racconti sono stati pubblicati da varie riviste, tra cui BlamPastrengo e Grado Zero

ragione + sentimento: doppio workshop di scrittura

2 workshop autonomi ma gemelli, per conoscere le 2 facce contrapposte e indispensabili dell’atto di scrivere: lasciarsi andare, razionalizzare. E provare a farle funzionare insieme.


1° workshop: scrittura + sentimento

mercoledì 16 – 23 – 30 novembre 2022 dalle 19:00 alle 21:00 su Zoom


Scrivere è spogliarsi pezzo dopo pezzo seguendo il ritmo delle emozioni e dei ricordi.


programma

16 novembre: diari e confessioni: chi siamo veramente? Chi raccontiamo di essere? Spiriti guida John Cheever, Virginia Woolf, Vladimir Nabokov e altri grandi maestri del raccontarsi. Esercitazioni per liberare la scrittura.


23 novembre: declinare i sentimenti. Dolore, piacere, perdita. Imparare a conoscere ed esercitare la memoria del corpo, tradurla in scrittura. Allenare e ampliare il proprio immaginario creativo.


30 novembre: maratona di scrittura. Cominciare la scrittura, fermarsi, prendere fiato. Ricominciare a scrivere, cambiare rotta e/o modificare il tiro, riprendere fiato. Spingere al limite l’immaginazione per avviare il processo di stesura di una storia.



2° workshop: scrittura e ragione

mercoledì 11, 18, 25 gennaio 2023 dalle 19:00 alle 21:00 su Zoom


Scrivere è disciplina e progettazione, imparare a manipolare forma e contenuto.


programma

11 gennaio: caratterizzazione vs rivelazione, di cosa è fatto un personaggio, cosa gli serve davvero per essere un protagonista?


18 gennaio: maledetta trama. Che cosa è e perché non possiamo farne a meno. Capire il disegno delle storie, finalmente.


25 gennaio: al lavoro! Strategie e metodi. Come sopravvivere alla passione per la scrittura.


chi conduce i workshop

Luca Mercadante
Menzione speciale della Giuria della XXX edizione del Premio Italo Calvino per il romanzo Presunzione, MinimumFax. È autore, con Luca Trapanese, di Nata per te. Storia di Alba raccontata tra noi, Einaudi. Insegna scrittura creativa, qui per ILDA tiene il corso Ipotesi di Romanzo ed è responsabile del coaching Scrivere un romanzo. La stanza dentro gli scrittori è la sua idea di scrittura.


info e costi

I workshop scrittura + sentimento e scrittura + ragione costano 100 euro l’uno. 80 euro per chi ha già partecipato ai nostri corsi.

Iscrivendosi a entrambi i workshop il costo è di 180 euro, 160 per chi ha già partecipato ai nostri corsi.

Per informazioni e iscrizioni: ilibrideglialtri@gmail.com

Cinque piani e un seminterrato

A seguito della nostra call Rumori in sottofondo abbiamo ricevuto 54 racconti. Letti, selezionati, editati prima dalla classe di Apnea ‘21/‘22 poi dalla nostra redazione narrativa, ne sono infine stati scelti 14 per la pubblicazione sulla nostra rivista. Questo è il quattordicesimo e lo ha scritto Elisabetta Tagliazucchi. Con l’editing, l’allieva editor Loretta Molinari insieme alla redazione hanno suggerito all’autrice interventi per sfruttare le potenzialità del personaggio della portinaia, perennemente distratta dai giochi enigmistici, sbiadendo i toni del giallo.


La mattina del 12 febbraio, all’interno di un palazzo del centro storico, la somma dei rumori provocati dalle azioni avventate di alcuni inquilini, copre il fragore dello sparo che uccide il signor Poletti. Conosciamo il microcosmo di inquilini con gli occhi della portinaia, Lucia.


Cinque piani e un seminterrato

di Elisabetta Tagliazucchi

Al 257 di via Magenta tra il seminterrato e il quinto piano, la mattina del 12 febbraio, sei sventure stavano per abbattersi su altrettanti inquilini. Mentre una donna ritirava un pacco, un uomo tentava di impiccarsi, un gatto passeggiava sul vaso di gerani, una vecchia armeggiava con un intruglio in testa, un ragazzo cercava di afferrare il colapasta dall’ultima mensola e Gilda Poletti, trentanove anni, sulla porta del suo appartamento al secondo piano, osservava la traiettoria del proiettile che avrebbe trafitto il petto del marito.

In effetti gli eventi simultanei erano sette, se si conta il signor Poletti e quel fastidioso proiettile ostinatamente diretto al suo sterno.

«Accompagni il portone sennò…», la portinaia del palazzo non ebbe il tempo di finire la frase che alle 11, 52 e 35 secondi – Lucia guardò il suo Casio – il corriere fece sbattere il portone. Contemporaneamente il lampadario al quale era appeso il sig. Bianchi si staccava dal muro portandosi dietro un pezzo consistente di soffitto, l’urlo della signorina Carini non impediva a Centoquattro di ribaltarsi giù dal balcone e il timer della signora Rossi suonava per avvertirla di sciacquare la tinta. Nello stesso istante l’intero mobilio della cucina di Luca Angelini si sganciava dalla parete, riversando sul pavimento un’imprecisata quantità di stoviglie. E con millimetrico sincronismo un proiettile calibro 22 si conficcava nel petto del signor Poletti.

«… sennò sbatte», sussurrò Lucia che, mentre riponeva il pacco nello scaffale, sentì un boato.

La donna si fermò, lasciò cadere il pacco, si voltò lentamente verso la centralina del telefono, trattenne il fiato e osservò le luci di tutti gli interni accendersi e lampeggiare insieme.

Alle 11 e 53 un urlo echeggiò lungo la tromba delle scale.

Lucia uscì dalla guardiola zoppicando e prese a salire i gradini reggendosi al corrimano. Mentre imboccava la prima rampa fu quasi travolta da Teresa Carini che scendeva di corsa imprecando.

«Cazzo, il gatto… il gatto. Cazzo!».

La portinaia continuò la sua ascesa pensando che solo nell’ultimo mese era la terza volta che quel gatto diversamente agile cadeva giù dal balcone. Ma il grido che aveva udito non le pareva quello della sua padrona. Ne ebbe la certezza quando, arrivata sul pianerottolo del secondo piano trovò Gilda Poletti stramazzata davanti alla porta di casa aperta. Sfiorò le labbra della donna, respirava ancora. Provò a scuoterla, cercò di risvegliarla chiamandola per nome. Fu allora che notò dentro l’appartamento le scarpe del signor Poletti. Le suole, per esser precisi, col marchio Vero Cuoio in bella vista. Due suole quasi nuove e dietro il corpo di Poletti, stecchito. Non c’era alcun dubbio che fosse morto morto: gli occhi sbarrati e un cerchio untuoso sulla camicia bianca, una padella di sangue.

La porta dell’interno 3 si aprì.

«Cara, è successo qualcosa? Mi è sembrato di sentire un rumore…».

Lucia si voltò verso la signora Rossi, provò a dire qualcosa, la voce le si smorzava in gola, con un gesto della mano le fece cenno di non avvicinarsi e prese a picchiettarsi con l’indice l’orecchio.

«Oddio, Gilda… Gilda cara, che è successo?» La signora Rossi si coprì la bocca con le mani.

«È svenuta, è solo svenuta, lei…».

«Come dice? Non capisco una parola… Oddio, Gilda! Gilda!».

«L’apparecchio, signora Rossi, si metta l’apparecchio…», Lucia continuava a indicare l’orecchio.

«Oh, certo certo…» disse la signora Rossi mentre frugava nelle tasche della vestaglia verde pistacchio e ne estraeva due piccoli auricolari che posizionò per bene. Una cuffia di plastica in testa faticava a contenere la tinta dei capelli che le gocciolava lungo il collo. «Li avevo tolti per sciacquare i capelli.»

«Si può sapere che succede?».

«Ho sentito un boato e le urla… E… Oh, vacca boia!».

A poco a poco tutti gli inquilini del palazzo si radunarono sul pianerottolo del secondo piano. Compresi il signor Bianchi con il volto ricoperto di intonaco bianco sul quale spiccava, proprio in mezzo alla fronte, un taglio sanguinante, e la signorina Carini con le mani piene di graffi che tentava di tranquillizzare Centoquattro, il gatto ribaltabile. Per ultimo si era aggiunto l’inquilino dell’attico, Angelini, con una busta di piselli surgelati premuta sulla nuca che spuntava dai ricci castani.

«Ma che cazz…», si fermò sul primo gradino, raggelato, lasciò cadere le braccia lungo i fianchi e una cascata di legumi verdi saltellanti si riversò sonoramente sulla rampa che scendeva al piano di sotto. In effetti la scena era abbastanza surreale: tutti intorno al corpo svenuto di Gilda Poletti, dolenti, sanguinanti, doloranti e disperati, parevano le statue in terracotta di una pietà del Cinquecento. Con contorno di piselli.

Lucia seduta nella guardiola si appoggiò allo schienale della sedia, desiderava solo un po’ di pace per trovare le ultime definizioni del Bartezzaghi. Se n’erano andati tutti: medici, infermieri, Vigili del fuoco e Polizia. Era ora. Che giornata impegnativa, la peggiore da quando Gilda Poletti le aveva offerto il lavoro di portinaia in cambio dell’affitto del sottoscala e un mezzo stipendio. Doveva essere un lavoro tranquillo, a sentire lei, un palazzo in ristrutturazione all’incrocio tra via Emilia e via Magenta, pochi inquilini, nessun problema particolare. A sentire lei. Che poi i problemi c’erano, eccome se c’erano… ma un morto ammazzato no, quello non se lo sarebbe mai immaginato. Tra la via Emilia e il West, altroché… Chissà chi era stato.

L’appartamento di Agata Rossi era contiguo a quello dei Poletti ed era separato unicamente da una porta chiusa a chiave, ma la serratura era solo dalla parte dei Poletti, nessuno poteva essere passato da lì. L’assassino avrebbe potuto uscire dall’appartamento solo dalla finestra dello studio o dalle scale e lei non aveva notato nessuna faccia nuova.

Era uno del palazzo? E… e la Bic verde? Dove era finita? Si tastò le tasche della camicia, eccola, era lì. Lucia aveva tre penne Bic, una verde, una rossa e una blu e le utilizzava rigorosamente abbinate al colore del titolo Settimana Enigmistica che cambiava a ogni uscita. Una settimana verde, una rosso e l’altra blu, in questa precisa sequenza. Poteva capitarle di uscire con i calzini spaiati, ma la Bic doveva essere in tono con l’inchiostro della rivista. Lucia scriveva le soluzioni, con la penna giusta, solo quando era assolutamente certa che fossero corrette. Poteva metterci settimane per concludere uno schema. Ci rimuginava su finché non trovava la soluzione.

Con la Bic verde al sicuro nel taschino i suoi neuroni continuarono a lavorare.

Gilda Poletti aprendo la porta di casa aveva appena intravisto la pistola sparare il colpo diretto a suo marito ed era svenuta, senza vedere altro. O almeno così diceva. E se invece fosse stata lei? Mentre le domande si ammucchiavano una sull’altra sentì il portone sbattere e vide entrare il signor Bianchi seguito a distanza dal passo claudicante di Agata Rossi.

«Non mancherà a nessuno quel cioccapiatti», disse il signor Bianchi appena entrato nell’androne «nemmeno a sua moglie che sembra una santa e invece…», fece un gesto circolare con la mano che poi indirizzò al cerotto che al pronto soccorso gli avevano messo sulla fronte.

«Come sta signor Bianchi?».

«Come vuole che stia, con quattro punti di sutura e il tinello sventrato… Come devo stare… Come».

«Infatti, la faccenda del lampadario, non riesco a capire…».

«Non c’è niente da capire, stavo solo cambiando una lampadina… E… e lei si faccia gli affari suoi, braghéra. Non c’è niente da capire, non c’è».

«Oh certo, certo», fece Lucia «se ha bisogno di qualcosa sa dove sono…», e aggiunse sottovoce «Sotto la panca a rianimare la capra» mentre sistemava la pila di cruciverba sulla scrivania per distogliere lo sguardo dalla gobba del signor Bianchi che se ne andava.

«Ho bisogno di riposare e non di pettegole, ecco di cosa ho bisogno. Di cosa…».

«Oh cara, non ci faccia caso, quando parla Bianchi sembra sempre che debba invadere la Polonia…», disse la signora Rossi mentre si sistemava il cappottino azzurro a fiori lilla. Dal cappello spuntava un curioso caschetto viola intenso perfettamente abbinato al tono della calzamaglia.

«Bel colore, le sta benissimo!», disse Lucia sorridendo. Era abituata ai colori dell’anziana. La signora Rossi le piaceva, era sempre cordiale e autentica, l’esatto contrario del vecchio babbiòne del terzo piano che sosteneva d’essersi tirato appresso il lampadario e mezzo soffitto per cambiare una lampadina…

«Oh, grazie cara, con il fattaccio ho tardato a lavare la tinta e sono venuti viola, li preferivo color lavanda. Mi dica, si è saputo qualcosa?», disse indicando con lo sguardo il piano di sopra.

«Boh, ancora niente, forse qualcuno entrato dalla finestra…»

«Oh, sì, lo dicevo sempre a Gilda che era pericoloso tenere aperte le finestre. Ma lei voleva cambiare l’aria perché l’odore dei sigari le faceva venire la nausea. Fumava come un turco il marito… Poi con le sue attività, c’era da aspettarselo che prima o poi…».

«Che attività? Ma non lavorava in banca?».

«Certo cara, lavorava in banca e quando la banca non erogava prestiti lui faceva gli straordinari…», e con la mano si strinse il collo nel gesto di strozzarsi.

«Erogare… Erogazione, ecco cos’era!».

«Come dice, cara?».

«No, nulla, è una roba mia…», rispose Lucia mentre sfilava una rivista di enigmistica dalla pila.

«Oh, certo…», la signora Rossi alzò lo sguardo al cielo. «Mi scusi, ora vado… Le gambe non mi reggono più».

Dunque il signor Poletti era uno strozzino e Lucia, al solito, cadeva dal pero. Quando gli inquilini le riferivano dei pettegolezzi, lei semplicemente li dimenticava. Li lasciava parlare annuendo di tanto in tanto, mentre pensava, ad esempio, alla soluzione del 33 verticale… Che Poletti fosse poco stimato però lo sapeva anche lei. Tre giorni prima l’aveva visto litigare con Luca Angelini sulla questione dell’affitto, era in arretrato e lui voleva sfrattarlo. Come se la pigione di un universitario che lavorava in un bar fosse determinante per le sue tasche!

Rientrarono anche Luca Angelini e Teresa Carini nel pieno di una accesa discussione.

«Giuro che se non lo avessero già fatto fuori lo avrei ammazzato io quel porco, ma perché non me lo avevi detto?».

«Luca, non sono affari tuoi, mollami!».

«Avresti dovuto denunciarlo quel maiale», Luca si fermò in mezzo all’androne.

«Ci ha solo provato un paio di volte, finita lì».

«Che bastardo…».

«È morto, Luca, morto stecchito. Ok? Salve Lucia, come va? Ha saputo qualcosa?».

«Ancora niente…», disse la portinaia guardando fissa il cruciverba senza schema davanti a sé, cercando di nascondere l’imbarazzo per aver assistito a quella discussione.

Luca se ne andò su per le scale scuotendo la testa.

«Attento ai piselli», gridò Lucia. «Poveretto, si vede lontano un miglio che ti fa il filo, bella come sei…».

«E si vede che di lui non me ne frega nulla?».

«No, direi proprio di no… Cioè, non saprei».

«Ecco, io lo so, invece. Pensi che mi aveva convinto ad andare a cena da lui stasera, poi tra la cucina distrutta e questo fatto…».

«Niente cena».

«Niente cena, meglio così! Cioè… no, per Poletti mi dispiace, ma anche lui, sempre a litigare con tutti… Anche col signor Bianchi…».

«Cioè?»

«Lucia, lei è l’unica portinaia della storia a non sapere mai nulla… Il signor Bianchi gli doveva dei soldi. Lo sa, vero, che Poletti faceva lo strozzino?», rispose Teresa mentre cercava le chiavi nella borsa.

«Oh, certo che lo sapevo», disse Lucia agitando la mano sinistra sopra la spalla a mimare di esserne al corrente da tempo.

«Ecco, siccome il signor Bianchi tardava a saldare il debito, Poletti gli stava portando via la casa, sarebbero dovuti andare dal notaio a giorni».

«Tzk, una lampadina diceva…», sussurrò Lucia scuotendo la testa. «E la signora Poletti era d’accordo?»

«Non credo che lo sapesse… Lui stava cercando di mandare via anche la signora Rossi per riprendersi tutto il piano».

«E la moglie non sapeva niente?».

«No, anche perché non l’avrebbe mai permesso: vuole più bene alla signora Rossi che alla madre!».

«Veramente?», chiese Lucia mentre col palmo della mano spianava la Settimana Enigmistica in corrispondenza dei punti metallici.

«Era la sua tata, l’ha praticamente cresciuta lei, poi la signora Rossi si è trasferita in Irlanda e si sono perse di vista, fino all’anno scorso in cui le ha offerto quel piccolo appartamento di fianco al suo».

«E quel zavaglio di Poletti non era d’accordo…».

«Non solo non era d’accordo, Poletti era convinto che la signora Rossi avesse un passato da nascondere. Mi disse addirittura che aveva militato nell’IRA e la sua zoppia se l’era procurata in uno scontro a fuoco».

«Pensa te…».

«Già, saranno tutte chiacchiere, forse cercava solo un modo per convincerla ad andarsene e non trovarsela più in giro per casa con torte e biscotti. Comunque, ora è morto…», concluse Teresa Carini mentre apriva la cassetta della posta.

«Già, è morto…», ripeté la portinaia sottovoce e aggiunse «e Centoquattro, invece, è vivo?».

«Oh sì, per fortuna, dicono che i gatti cadono sempre in piedi!», rispose Teresa Carini porgendo un paio di lettere alla portinaia. «Hanno scambiato di nuovo la posta! Lucia, le dispiacerebbe darla a Luca Angelini, per oggi ne ho avuto abbastanza di lui. La saluto, ci vediamo».

«Sì sì, ci vediamo e stai attenta a quella povera bestia se vuoi che arrivi al panettone!».

Lucia pensò al panettone che aveva sopra il pensile in cucina, ancora sigillato. Glielo aveva regalato per Natale proprio Poletti. Ogni anno si presentava con un panettone artigianale acquistato in qualche pasticceria del centro e ne decantava le qualità ignorando a che lei il panettone non piaceva. Avrebbe dovuto regalarlo, ma non riusciva a sbolognare cose che non piacevano nemmeno a lei. Sarebbe rimasto lì a prendere polvere. Beh era l’ultimo, Poletti non le avrebbe più regalato inutili panettoni e non avrebbe nemmeno combinato altri casini. Tutti lo detestavano e a pensarci bene era quasi un miracolo che fosse arrivato vivo a cinquant’anni.

Lucia lasciò la guardiola, doveva salire a ritirare i panni stesi e ne avrebbe approfittato anche per consegnare la posta ad Angelini, che cinque piani di scale li faceva solo per due faccende, una sola non bastava.

Sbucò sulla terrazza ansimante e cercò di riprendere fiato aspirando l’aria gelida della sera. Trovò le lenzuola bagnate come quando le aveva stese e Luca Angelini che cercava di sbollire la rabbia aspirando lunghi tiri da una paglia surriscaldata.

«Oh sei qua, tieni, il postino ha fatto il solito casino».

«Imbezèll!» grugnì alzando lo sguardo al cielo.

«Il postino?».

«No, quel canchero avvelenato di Poletti», disse spegnendo la sigaretta sotto uno scarpa.

Comunque anche il postino era abbastanza imbecille. Magari era stato lui… In effetti Lucia lo aveva visto discutere con Poletti riguardo una lettera che, a suo dire, non gli aveva recapitato.

Mentre scendeva le scale si fermò un istante davanti all’interno 4. Osservò il foglio della Procura affisso con del nastro adesivo sopra la porta. Notò una piccola macchia rosa vicino allo zerbino, di fianco a una manciata di piselli appassiti. Sembravano una pista cifrata, quel gioco in cui occorre unire i punti da 1 a 58 per trovare la soluzione e la patacca viola sembrava il punto di arrivo. Domani chiamo l’impresa di pulizie, questa scala è un casino, pensò Lucia. Sentì il rumore dello spioncino, la signora Rossi era di vedetta… Lucia la salutò con gesto della mano. «Tutto a posto Agata, sono io!», disse in tono rassicurante e voltandosi si trovò davanti la vedova. D’istinto fece un passo indietro.

«Mi scusi Gilda, non l’ho sentita arrivare… Come sta? Mi dispiace tanto… Se posso fare qualcosa per lei…».

«No, grazie, Agata si è offerta di ospitarmi finché…», e indicò la porta sigillata. «Ho solo bisogno di un po’ di pace».

Si muoveva a rilento, le mani tremanti faticarono quasi a premere il campanello.

«Beh, certo…», Lucia si fece da parte per lasciare entrare Gilda.

«Lo è…», fece un cenno di saluto a Lucia, ma prima di chiudere la porta la guardò negli occhi. «Lo sa che avevo chiesto il divorzio?».

Ovvio che no. Non lo sapeva. Non sapeva mai niente… Però forse la soluzione era paccottiglia, del cruciverba non dell’omicidio. Quindi era stata Gilda? Che casino, c’erano più moventi in quel palazzo che piselli da schivare sulle scale. Alla faccia del lavoro tranquillo, pensò mentre scendeva le scale con la pesante cesta di panni ancora bagnati.

La moka borbottava sul fornello, Lucia spense il fuoco, versò il caffè nella tazza ed entrò nella guardiola. Appoggiò la tazza sulla scrivania, strappò dal calendario il foglietto del 12 febbraio, tolse il cappuccio verde dalla Bic e lo sistemò con cura in fondo al fusto della biro. Fuori era ancora buio, il suono intermittente del camion della spazzatura annunciava che i bidoni erano stati svuotati. Lucia udì lo scatto del portone. Allungò il collo e vide entrare Mario, l’autista di Uber che di solito scarrozzava Poletti.

«La signora Rossi questa mattina», disse Mario imboccando la scala di corsa.

Scese insieme ad Agata pochi minuti dopo trascinandosi dietro due pesanti valigie.

«Se vuole porto anche quella», disse l’autista indicando il borsone che Agata porta nell’incavo del braccio.

«Non occorre, grazie, questa è leggera», Agata si fermò davanti alla guardiola e sfilò dalla borsa una busta portadocumenti.

«Non sapevo che stesse partendo», esclamò Lucia.

«Non lo avevo detto in effetti, cara, ma devo partire…», Agata sollevò le spalle.

«Deve?» domandò Lucia con stupore.

«Non si preoccupi, cara, è un modo di dire. Volevo ringraziarla per la sua cortesia, lei è davvero una persona deliziosa».

«Ah, ma quando torna? E Gilda?»

«Oh, Gilda se la caverà benissimo. Ora non ha più bisogno di me. Piuttosto devo chiederle un’ultima cortesia», rispose Agata appoggiando la busta sul ripiano. «Vede cara, nel pomeriggio dovrebbe passare quell’ispettore tanto gentile che è stato qui ieri. Ecco, dovrei consegnargli questa busta, potrebbe essere così gentile da occuparsene lei?»

«Oh, certo certo, gliela darò io, non si preoccupi. Ma ci rivedremo?» Lucia prese la busta e l’appoggiò sulla scrivania continuando a fissare Agata.

«Cara, devo scappare sennò rischio di perdere il volo. Magari al mio arrivo la chiamo. Arrivederci…»

«Arrivederci, Agata.»

Lucia era confusa, guardò la signora Rossi allontanarsi a passo svelto, pareva addirittura che avesse smesso di zoppicare. Pensò che la fretta, alle volte, procurava curiosi effetti, come scordarsi di avere un acciacco…

Acciacco! Ecco qual era l’ultima parola per concludere l’incrocio sillabico di pagina 38. Lucia prese la Settimana Enigmistica dalla pila di riviste e inavvertitamente urtò la tazza che rovesciandosi riempì di caffè l’intera scrivania. Si alzò di scatto e cominciò a raccattare gli oggetti gocciolanti cercando di scrollarli. Con uno straccio pulì la scrivania e cercò di asciugare la busta gialla di Agata.

Fece un salto all’indietro e si coprì la bocca con una mano per non urlare.

La busta si era aperta e il contenuto si era sparpagliato sul piano del tavolo: c’era una lettera scritta a mano, un biglietto, una busta indirizzata a Poletti, ma soprattutto una fotografia del Poletti sghignazzante, ritratto in un atto che avrebbe fatto inorridire chiunque.

Prese la lettera, in un angolo una macchia di caffè formava una specie di cuore rovesciato.

Sono Agata Rossi, ancora per pochi minuti.

Quando leggerà questa lettera sarò lontano, ma soprattutto non sarò più Agata.

Ero tornata in Italia per Gilda, volevo starle accanto e speravo che trovasse il coraggio di lasciare il marito. Pensavo fosse un uomo subdolo e meschino, credevo che Gilda meritasse di più. Poi, per caso, ho visto la foto che vi allego, ho capito che era molto peggio di quanto credessi, Gilda era in pericolo.

Il resto lo sapete.

Lucia rimase a fissare la lettera per alcuni istanti, appoggiò il mento sul palmo della mano e fece un respiro profondo. Infilò tutto in una busta nuova che mise nella casella 1A dello scaffale alle sue spalle. Aprì l’Enigmistica, andò a pagina 46, col dito seguì le colonne fino ad arrivare a Se voi foste il giudice, fece una riga sulla soluzione e sotto, in piccolo, scrisse: assolta.

Con la penna verde.


Elisabetta Tagliazucchi si occupa di fotografia, grafica e comunicazione. Vive, lavora e scrive a Maranello.

Una bambina fortunata

A seguito della nostra call Rumori in sottofondo abbiamo ricevuto 54 racconti. Letti, selezionati, editati prima dalla classe di Apnea ‘21/‘22 poi dalla nostra redazione narrativa, ne sono infine stati scelti 14 per la pubblicazione sulla nostra rivista. Questo è il tredicesimo e lo ha scritto Sara Cappelletti. Con l’editing, le allieve editor Federica Monterisi e Francesca Montagnaro, insieme alla redazione, hanno suggerito all’autrice interventi per mettere a fuoco l’oggetto narrativo del racconto, cambiarne il tempo verbale, mettere a fuoco la protagonista e il finale per aumentarne l’intensità.


Dopo la morte di sua nonna, una bambina si ritrova completamente sola, prigioniera di una famiglia che non sa comunicare e finisce per isolarla da tutto e tutti. Nella casa della protagonista, la televisione è sempre accesa: di giorno come di notte, fa da sottofondo a ogni avvenimento importante e a ogni banale gesto quotidiano. Per la bambina, la realtà è solamente quello che vede e sente in televisione. Inizia a vivere tutto il resto come un rumore di sottofondo.


Una bambina fortunata

di Sara Cappelletti

Mia madre chiude la finestra, tranciando di netto la testa di una cicala. Il suo corpo scivola verso il basso e lascia una scia di sangue pallido lungo il vetro. La testa rotola per un po’ avanti e indietro sul balcone, spinta dal vento, prima di cadere nel vuoto.

«Mi racconti la storia della bambina fatta di polvere?», chiedo a mia nonna. Non risponde. Mi giro a guardarla e la trovo immobile. È ancora più ferma del solito, perché è morta.

Quella notte, sogno la nonna piena di polvere. È così piena di polvere che faccio fatica a dire che è lei. Soffio forte, per spazzare via tutto, perché secondo me non respira tanto bene. Ma la polvere non se ne va: è come se ne cadesse sempre di più, anche se non riesco a capire da dove. A furia di soffiare, la mia testa comincia a girare e devo sedermi per terra. La televisione mi si rovescia addosso, facendo un gran rumore. Allora la nonna si alza e si scrolla la polvere di dosso. Nel sogno è guarita, e mentre io me ne sto sul pavimento, a soffocare tra la polvere che ha inondato la tv, lei vola via.

Mi sveglio. È tardi. Forse ho inghiottito tutta la polvere che ho sognato. Non riesco a parlare, ma solo a piangere. Piango e sudo. Forse ho la febbre. Non sapevo che la febbre potesse farmi stare così male.

Non vado al funerale, perché sono ancora piccola. Però oggi sono diventata più grande di un po’, perché per la prima volta mi permettono di restare a casa della nonna da sola. Mi accoccolo sul divano e avvolgo le gambe nella coperta verde. Mi è sempre piaciuta perché è tutta ricoperta di piccole margherite ricamate. Spesso mi capitava di tirare qualche filo, ma la nonna non mi sgridava mai: lo ricuciva subito e i petali tornavano interi.

Mi viene di nuovo da piangere e non ho voglia di aspettare che gli altri tornino da me per sentirmi meglio. Vorrei dire alcune cose a mia mamma e a mio papà, ma ai miei genitori non è mai piaciuto troppo parlare con me. Mio padre dice sempre che le chiacchiere sono sopravvalutate. Quando arriveranno, accenderanno la televisione. Un giorno mi hanno spiegato che se siamo tristi, o arrabbiati, o abbiamo tante domande che ci frullano per la testa, non ha troppo senso parlarne: a volte è molto meglio accendere la tv e non pensare più a niente. Io ci ho provato spesso, ma non ha mai funzionato, perché i miei pensieri non sono molto ubbidienti e hanno sempre continuato comunque a girare nella mia testa. Però avevo trovato il mio modo di stare subito meglio: io parlavo con la nonna e lei parlava con me. Ma ora la nonna non c’è.

Accendo a fatica la televisione. La manopola è rotta e la nonna non ha mai avuto voglia di aggiustarla. «Le piante e la mia nipotina sono la mia televisione», diceva alle sue amiche ridendo. Un ragno sta tessendo una tela nell’angolo in basso a sinistra dello schermo. Una folata di vento gli fa perdere l’equilibrio. Mi avvicino a lui, alla pazienza con cui risale lungo il filo fatto della sua bava. Lo schermo è ricoperto di granelli di polvere, che brillano alla luce di mezzogiorno. Il sole entra di taglio dalla finestra, anche se io preferirei che piovesse. I miei polpastrelli diventano grigi. Prendo un fazzoletto dalla tasca e pulisco lo schermo. Il ragno cade e io lo calpesto con la pianta del piede. Poi chiudo le persiane e tiro le tende, perché se un’altra cicala finisce per posarsi su uno dei nostri vetri e per sbaglio la schiaccio, magari succede che muoio anche io. La vita della nonna è finita proprio così.

Mi addormento e faccio sogni confusi. Mi sveglio e mi pulisco la bocca. Dentro la televisione una signora che sembra mia nonna sorride, inclinando la testa di lato. Sta raccontando la storia della bambina fatta di polvere. Cammino lentamente verso di lei e provo ad accarezzarle il viso. Altra polvere cade per terra. Poi la signora sparisce. Io resto in piedi con la mia mano grigia e la testa che fa male. Voglio solo che quel viso torni da me. Sento pulsare le tempie, ma lei non torna. Forse non devo fare altro che aspettarla e continuare a guardare.

Accendo la tv ogni volta che posso. Quando mi trovano sdraiata sul divano, anche se dovrei studiare o se è davvero molto tardi, nessuno degli altri urla contro di me. Qualche volta, mia madre mi dà un bacio sulla guancia e mio fratello mi accarezza i capelli. Mio padre si siede semplicemente accanto a me, e a me non dispiace.

Una sera se ne vanno in cucina, e tra un colpo di tosse e l’altro mio padre bisbiglia qualcosa. Mio fratello annuisce e si stringono la mano. Non è la prima volta che hanno un segreto, così faccio finta di niente. Il giorno dopo tornano a casa con una grandissima televisione in spalla. «Per te!», mi dicono. È così nuova che non riesco a trovare neppure un granello di polvere. È così enorme che quando tornerà la signora che sembra mia nonna, la sua faccia sarà immensa. L’hanno appoggiata davanti alla finestra. La strada con le persone che si intravedeva fino al giorno prima è scomparsa. Restano da guardare le cime degli alberi, i comignoli e il cielo, ma dopo un po’ non riesco a distinguerli più. E non è che me ne importi poi molto: a me basta che qualcuno mi racconti ancora una volta la storia della bambina fatta di polvere.

«Allora, ti piace?», mi domanda mio fratello dandomi un colpetto con il gomito. Io gli sorrido così forte che secondo me sono tutta luminosa. Mentre mastichiamo tutti insieme, il signore del telegiornale parla di un ghiacciaio che fa molta paura perché ha cominciato a scricchiolare. Mia madre inizia a mordere le ossa del pollo talmente forte che non riesco a sentire la fine della storia. Anche quel rumore fa tanta paura. Non sono più troppo felice. A un certo punto sento solo silenzio, anche se so che non c’è davvero silenzio, perché le labbra del presentatore e quelle di mio fratello continuano a muoversi. Non mi piace: me ne vado a letto.

Quella sera decido di lasciare la lampada del comodino accesa, perché dopotutto è morta mia nonna e il buio non è mai piaciuto troppo neppure a lei. Faccio in modo che la porta rimanga socchiusa, perché non voglio restare sola, ma gli altri forse non se ne accorgono perché mi lasciano sola lo stesso.

Dal salotto, la risata di mia madre esplode a intervalli regolari, e ogni volta che il pubblico applaude, lei si colpisce la gamba destra con il palmo della mano aperto. Anche se in questo momento non la vedo, so che sta facendo così, perché fa sempre così.

Cerco di ascoltare quello che dicono in televisione, ma riesco a distinguere solo qualche parola. A un certo punto ne dicono una che non conosco per niente, così la scrivo talmente tante volte nella mia testa, che alla fine la capisco. La mattina dopo l’ho già dimenticata.

Quando mi sveglio, vado in soggiorno. Mi siedo per terra, tra le gambe degli altri, e cerco di sorridere, mentre guardiamo insieme la tv.

Il caldo si è fatto così dolciastro che non è possibile sopportarlo. Le piante della nonna si sono messe a morire. Le foglie bruciano lentamente, ma nessuno sembra aver voglia di bagnare la terra.

Abbiamo deciso di tenere le finestre aperte, come a dire ai fili d’aria che se vogliono possono entrare. Ma il rumore del traffico mi distrae. I suoni della televisione si mescolano con quelli delle macchine che procedono lentamente sotto di noi. Quando qualcuno suona il clacson, per me è insopportabile, perché allora qualche parola cade nel vuoto e quello che sto ascoltando non ha più lo stesso senso di prima. Allora piango e batto i pugni, finché mia madre non si decide a chiudere tutto, con un sospiro.

A scuola le lezioni sono tremendamente noiose, e per qualche strano motivo mi sembra che nessuno sappia più parlare nel modo giusto. C’è qualcosa di stridulo oppure di troppo grave nelle loro voci. C’è qualcosa di sbrigativo nei loro modi. Allora chiudo gli occhi, e ripenso a tutte le cose che dicono in televisione quelli che sanno parlare bene.

A casa, almeno lì, sono una bambina fortunata, perché mi permettono di tenere accesa la televisione anche mentre faccio i compiti. E di notte si dimenticano di spegnerla. Così, quando mi sveglio nel mezzo del buio, mi basta seguire la luce. Mi piace provare a indovinare chi potrei trovare sullo schermo, cercando di distinguerne la voce, man mano che mi avvicino. Sono una bambina davvero molto fortunata perché non mi sento più sola, alla nonna penso poco, e ho smesso di sognare la polvere.

Esco di casa controvoglia, perché devo lasciare tante storie in sospeso. Le storie non aspettano. Rientro di corsa. Sento le orecchie chiudersi e la milza pulsare per lo sforzo. Prima mi tappo il naso e soffio, poi premo forte forte tutte le dita sopra la pancia, finché i polpastrelli quasi riescono a entrarmi dentro, e mio fratello mi racconta tutto quello che è successo fino a quel momento. Tendo l’orecchio sinistro verso di lui, per farmi strada tra quello che non ho potuto vedere, e rivolgo quello destro verso la televisione, per non perdermi niente di nuovo.

A volte non è semplice ricordare tutto quello che succede. Così ho deciso di tenere un diario in cui segno almeno le cose importanti. Mio padre lo consulta spesso e l’ho sentito dire che è molto fiero di me perché ho fatto proprio una bella pensata. Sono d’accordo con lui.

«Potresti anche smettere di andare a scuola», mi sembra di sentirgli dire, una sera. In televisione stanno trasmettendo una gara a puntate che secondo me è proprio uno spasso. Le onde dell’oceano rimbombano nella stanza. «Che cosa posso smettere di fare?», chiedo, tra uno spruzzo e l’altro. Mio padre scoppia a ridere, e mi guarda. Il giorno dopo e quello dopo ancora non vado a scuola, perché sono abbastanza sicura di aver capito bene quello che mi ha detto.

È giovedì, e il giovedì sera in tv ci sono sempre delle interviste molto divertenti. Raccontano delle storie che fanno tanto ridere mio fratello, e io rido con lui, anche se non sono sicura di capirle bene bene come le capisce lui. Nel bel mezzo di uno dei pezzi più divertenti, suona il citofono. La mia maestra di italiano vuole parlare con i miei genitori di qualcosa. «Sono cose da grandi», mi dicono e allora faccio finta di lasciarli soli. Mi nascondo nel corridoio e tendo le orecchie. «È un momento difficile», spiega mia madre «erano tanto vicine e noi non abbiamo abbastanza tempo per stare con lei». Mio fratello mi trova e mi trascina in camera. Riesco a malapena a sentire la voce gracchiante della maestra che suggerisce: «Magari una vacanza?».

Quando la mia maestra sta per andarsene, sbuco dalla porta per salutarla. Lei mi sorride e mi regala una cosa che avevo scritto pochi giorni prima che la nonna morisse. Quando passo l’indice sull’inchiostro azzurrognolo, vedo mia nonna entrare in casa con passo deciso. È avvolta da una coperta; i suoi capelli grigi spuntano appena. Sorride, accarezza le foglie della pachira acquatica e poi mette una mano tiepida sopra la mia testa: «Ti ricordi la storia della bambina fatta di polvere?».

«Certo», rispondo. E comincio a piangere.

Mia madre è ancora in soggiorno. Sospira. Poi riaccende la tv e inizia subito a ridacchiare.

«Me ne vado a letto», urlo, ma non mi sente nessuno.

Sbatto la porta fortissimo, poi la riapro come a far capire a tutti che, se proprio vogliono, possono entrare. Abbraccio il cuscino e voglio tanto dormire, ma non ci riesco perché di là continuano a battere le mani e a ridere forte.

Quella notte sogno che sono fatta di polvere, come la bambina della storia di mia nonna. Mi sveglio in mezzo agli applausi.

Quando torno in salotto, non sono arrabbiati con me, e quando chiedo se posso guardare la televisione insieme a loro, nessuno mi dice di no. Sono proprio una bambina fortunata.

Quella notte, l’allarme della signora del terzo piano inizia a suonare talmente forte che per due ore buone faccio fatica a seguire il mio programma preferito. La mattina dopo sono davvero arrabbiata. È ora di colazione, ma non ho nessuna voglia di mangiare. «Perché non ce ne andiamo in vacanza?», propone mio padre, mentre spacca con le mani i gusci delle noci. A me l’idea non piace per niente, perché non mi va di perdere tempo in cose inutili. Ma ha la faccia preoccupata e io non voglio proprio farlo arrabbiare, così non dico niente.

Partiamo in macchina due giorni dopo, carichi carichi di bagagli e di giochi. In albergo la televisione è davvero troppo piccola, ma sembra che gli altri neppure se ne accorgano. Non sono sicura di poter riconoscere il sorriso della signora che assomiglia alla nonna e che conosce la storia della bambina fatta di polvere, se dovesse ritornare su quello schermo così minuscolo. Mio fratello fa subito amicizia con un gruppetto di ragazzini stupidi, che hanno i denti gialli e ridono sempre nel momento sbagliato. Mia mamma non vede l’ora di trascinarmi fuori, così un pomeriggio mi alzo dal letto e decido di farla contenta.

Passeggiamo tra le bancarelle di un mercatino, che è anche un luna park. Una cosa sciocca, secondo me. C’è una canzone che suona un po’ ovunque. Non riesco a riconoscerla, perché sembra molto vecchia e io di cose vecchie non me ne intendo più. Provo a canticchiare insieme a mia madre, ma non è per niente divertente. Lei cerca continuamente la mia mano. Provo a scivolare via, ma lei non si dà per vinta. Non ho le forze per reagire, così finisco per lasciarla fare.

Camminiamo per ore, mano nella mano, tra le scintille delle caldarroste e le giravolte dello zucchero filato. «Ne vuoi uno?», mi chiede. Io faccio di no con la testa, ma lei me lo compra comunque. Lo mangio controvoglia e dopo ho le mani tutte appiccicose. I bambini più piccoli si leccano le dita e poi giocano con i bastoncini. Mi fanno schifo.

Ci fermiamo su una panchina verde tutta arrugginita. «Perché non parliamo un po’?», mi chiede mia madre. Io vorrei dirle che non ho niente di cui parlare, che vorrei tornare a casa e alla nostra televisione, ma non voglio farla rimanere male. La sua bocca continua ad aprirsi e poi a chiudersi. È mostruosa mentre parla. Non me ne ero mai accorta, prima. Quando finalmente se ne sta di nuovo zitta, sembra molto soddisfatta, come se avesse fatto qualcosa di estremamente importante. Mi sorride, e allora io ricambio, così magari si deciderà almeno a riportarmi in camera.

Quando finalmente ci avviamo verso l’hotel, incontriamo per caso un gruppo di vecchie amiche di mia mamma. Mi chiedono come sto, quanto sono alta e se mi rendo conto di essere cresciuta tantissimo. Io non ho idea di cosa rispondere, perciò sto zitta. Le loro facce sono tutte uguali e mentre chiacchierano con noi, cambiano espressione così tante volte che non riesco a capirle. Usano un sacco di parole che un giorno mi sembra di aver conosciuto, ma che ormai non ricordo più, e ci invitano a fare delle cose che secondo me non si possono fare davvero, perché sono cose che la gente può fare solo in tv. Sono molto strane queste vecchie amiche di mia mamma e quando mi accarezzano le guance vorrei tanto morderle forte.

Il figlio di una di queste donne continua a fissarmi. Mia madre mi fa salire sul cavallino rosso di una giostra luminosa insieme a lui. «Giocate un po’, sarà divertente», mi urla mentre la giostra comincia a girare. Lui mi stringe così forte che mi sembra di non riuscire a respirare. Sento il battito del suo cuore. È così vivo che mi fa quasi paura. Ha una voce acuta, e mentre grida il suono si strozza nella sua piccola gola.

Mia madre intanto ride, buttando la testa all’indietro. Ride di una risata che non avevo mai sentito prima. Mi sembra di non conoscerla e vorrei solo andarmene lontano da lei. Lontano da lei e da tutte queste cose che stanno succedendo, anche se io ho bisogno di silenzio, della mano calda di mia nonna, di chiudere gli occhi e ascoltare il suono della sua voce mentre mi racconta la storia della bambina fatta di polvere, senza morire, senza andarsene, senza lasciarmi sola.

Quando scendo dalla giostra, mi gira la testa. «Siediti qui», mi dice mia madre. Ma la panchina è fredda e ci sono altre bambine che vogliono parlare con me e spiegarmi quello che hanno visto al fiume, anche se secondo me non hanno visto proprio niente che valga la pena raccontare. Parlano a turno, e battono le mani ogni volta che esplode un fuoco d’artificio. Ognuno ha un colore diverso, ma a me sembrano tutti uguali. Le orecchie mi fanno male. Sono piene di suoni che non mi piacciono.

Chiudo gli occhi e li stringo fortissimo. Quando li riapro, sono ancora lì. Guardo la schiena di mia mamma e i suoi capelli che ondeggiano, mossi dal vento della sera. Guardo le ombre che inghiottono le luci e le luci che si mangiano le ombre. Ci sono troppi colori intorno a me. Non so che farmene di tutti quei colori. Vorrei che tutto fosse grigio, che il mondo intero si ricoprisse di polvere. E poi soffiarlo via. Mi gira la testa. La mia bocca è impastata. Provo a chiamare mia madre, ma non mi sente. Mi metto a correre, e prima ancora che mia madre se ne accorga, sto scivolando nell’acqua fredda. Lì sotto c’è solo silenzio, e qualche vongola che si nasconde nel fango.


Sara Cappelletti è un’insegnante e un’esperta di comunicazione culturale. Aiuta le persone a “imparare a imparare”, e a raccontare le proprie idee, chi sono o cosa fanno. Raccoglie immagini d’archivio e scrive di libri, storie e altre cose interessanti in una newsletter.

Il suono della creazione

A seguito della nostra call Rumori in sottofondo abbiamo ricevuto 54 racconti. Letti, selezionati, editati prima dalla classe di Apnea ‘21/‘22 poi dalla nostra redazione narrativa, ne sono infine stati scelti 14 per la pubblicazione sulla nostra rivista. Questo è il dodicesimo, lo ha scritto Riccardo Negri, e con l’editing l’allieva editor Arianna Nozza e la redazione hanno suggerito all’autore interventi per mettere a fuoco l’oggetto narrativo, focalizzare gli eventi, i personaggi, le relazioni e le motivazioni, che l’hanno portato a esplorare nuove direzioni.


Dopo la morte prematura della mamma, appassionata di astronomia, il figlio Cosimo, un ragazzino, ne prosegue le ricerche. Da autodidatta, riuscirà a captare e registrare il suono della creazione. Riascoltarlo e cercare di interpretarlo diventeranno la sua unica ragione di vita, a costo di rendere complicati i rapporti col padre e la sorella, di perdere l’udito e di isolarsi dal mondo. Il mistero della sinfonia celeste non si lascerà infine penetrare, ma nella disillusione Cosimo riuscirà forse a trovare una forma di serenità.


Il suono della creazione

di Riccardo Negri

Forse altri pensieri avrebbero scortato la mia esistenza, se mamma non fosse morta così giovane.

Avevo dodici anni quando era mancata. Mia sorella poco meno di cinque. Di quel giorno ricordo la cornetta del telefono che oscillava nel vuoto, appesa al filo in corridoio, e papà che si chiudeva nel suo studio e non ne usciva più. Poi l’avevo rivisto che riassettava in cucina, quasi con furore, come per rimettere in ordine lì dove aveva fatto irruzione il caos.

Io avevo pianto da solo, seduto contro il tronco del melo. Mi veniva in mente mamma che sorreggeva la mia sorellina per insegnarle a camminare, e scherzava sul suo sederone appesantito dai pannolini.

Dio, se mi mancava! Mi mancava il fiore che si metteva tra i capelli, o quando tirava fuori la chitarra e trascinava papà a cantare. O quando mi faceva appoggiare la mano sul pancione per sentire la bambina che scalciava, e diceva che saremmo andati a vivere in un faro. Mi mancava quando con il telescopio mi spiegava come leggere il cielo.

Riempii il vuoto coi libri e i fumetti, o restandomene sdraiato per ore a carezzare il gatto e a immaginare il seguito delle storie che leggevo.

Il pallone era rimasto abbandonato in un angolo del cortile: il freddo dell’inverno lo aveva screpolato, il sole dell’estate sgonfiato, l’autunno lo aveva ricoperto di foglie. Infine mio padre lo aveva buttato.

Lui era ingegnere acustico e tecnico del suono, ma, da quando eravamo rimasti soli, i 33 giri non avevano più suonato, e la chitarra di mamma era finita in soffitta. Le essenze nei vasi erano morte. A scandire le giornate erano ora i compiti, i no, le regole. Se, raramente, chiedevo il permesso di andare a trovare qualche bambino, le labbra di papà si storcevano in un’espressione di disgusto: mamma, diceva, si sarebbe dispiaciuta a sapere che perdevo tempo.

Per qualche mese a mia sorella pensarono i nonni, poi me ne dovetti occupare io. La vestivo la mattina, le ricordavo di lavare i denti la sera. “Scimmia” la chiamavo, perché imitava tutto ciò che facevo. Da buon fratello maggiore, per me non era nient’altro che una palla che mi era stata legata al piede. Eppure custodisco ancora una polaroid tutta sghemba che scattò a mia insaputa mentre leggevo una storia al vecchio Gagarin, il micione di mamma: è il mio ritratto più fedele che esista.

Fu dopo una sorprendente lezione di scienze che recuperai e portai in cameretta il telescopio di mamma. Cominciai a trascorrere lunghe serate scrutando dalla finestra la luna e le stelle, a inventare per la Scimmia fiabe che parlavano di cosmonauti e pianeti lontani. Anche se non poteva capire, non mi stancavo di ripeterle ciò che avevo memorizzato degli insegnamenti di mamma sul firmamento.

Visto che non aveva ricordi, andavo poi a prendere gli albi fotografici dalla mensola in alto e le mostravo la mamma.

In verità lo facevo per me. Perché mi era impossibile capire come mai un giorno c’era stata e il giorno dopo non c’era più.

Temendo la sua disapprovazione, non avevo mai osato chiederne a papà il permesso, ma non di rado curiosavo tra le cose dei miei. Mi ero accorto che lui non apriva certe ante e tiretti, e così ogni tanto con mia sorella trafugavamo qualcosa: una biro, un rossetto, il naso da pagliaccio, un fazzoletto. Quando però vide un braccialetto di mamma al polso della Scimmia, papà rovesciò in una valigia il contenuto di quei cassetti, e portò tutto in soffitta.

Non smisi di ficcare il naso negli scaffali e negli angoli chiusi a chiave, ma capii come rimettere tutto perfettamente a posto.

Quando infine fui cresciuto abbastanza da manovrare da solo la scaletta della botola, cominciai a esplorare la colombaia. Ad attrarmi subito furono uno scaffale di vecchi manuali sgualciti e sottolineati e un quaderno di mamma con i suoi appunti di astronomia. Iniziai ad arrampicarmi in soffitta di nascosto ogni giorno, sempre con l’orecchio teso ai rumori del cortile, pronto a precipitarmi giù al rientro di papà.

Finii ben presto per non pensare ad altro. Lasciavo la Scimmia alle sue bambole e ai cartoni giapponesi, e mi perdevo per ore in quei libri e in quelle annotazioni come nel più bel romanzo d’avventure. Imparai a destreggiarmi tra termini magici e astrusi: albedo e azimut, apogeo e cefeidi, cuspidi, congiunzioni ed eclittiche smisero di avere segreti per me, o almeno così immaginavo. La passione coltivata da mia mamma divenne la zattera di salvataggio cui mi aggrappai per non lasciarla andare. Nuotavo tra percorsi e congetture che erano stati suoi, e in quegli appunti credevo di scorgere qualcosa: un’architettura, delle spiegazioni.

I compagni di classe, stanchi delle mie scuse, smisero poco a poco di invitarmi alle loro scorribande in bici. Mi rimase la compagnia del gatto, che mi stava a guardare mentre studiavo, e poi si addormentava.

Una sera, mentre cenavamo in silenzio, udimmo d’improvviso un pianto lontano, straziante, come di neonato. Flebile ma incessante, veniva da un punto imprecisato sopra le nostre teste. Tremai e mi venne di pensare a mamma: chissà se in qualche modo ci vegliava dall’alto, e piangeva per noi.

Ci scambiammo sguardi interrogativi. Fu mia sorella la prima ad alzarsi per cercare di individuare la provenienza di quei lamenti. «Vengono dal corridoio – disse – no anzi, dalla soffitta».

Io rimasi al mio posto. Sentii papà aprire la botola e issarsi in mansarda. «Sciò – ordinò – da basso». Un miagolio. Un istante dopo, Pertini, il gatto, comparve in cucina e corse a ripararsi sotto la mia sedia. Doveva essere salito con me, a mia insaputa quel pomeriggio; e, quando ero sceso di fretta chiudendo la botola, era rimasto bloccato nel sottotetto.

Quella sera papà scoprì i libri di astronomia aperti, i quaderni con gli appunti di mamma, i righelli, il compasso e le mie sottolineature. «Ecco come perde tempo», si fece sentir dire.

Ricacciò tutto nell’armadio. Telescopio e brogliacci tornarono definitivamente sottochiave, e non ebbi più modo di riprenderli in mano.

Mi rifugiai sotto il melo a piangere di rabbia. Ma non provai rammarico: già da qualche tempo, infatti, ero consapevole che i manuali e i quaderni di mamma non avevano più segreti per me. Ne avevo bisogno, perché sfogliarli era l’unico modo che mi era rimasto per dialogare con lei; ma non mi servivano più, perché ne avevo completamente decodificato il contenuto.

Ormai sapevo che, grazie a una congiuntura astrale unica, avrei presto potuto captare il suono della creazione, l’eco del clic, l’istante esatto prima del Big Bang.

Stando alle intuizioni di mamma e alle mie riflessioni, doveva essere per l’equinozio di primavera. Ne ero certo.

Non potevo tenere per me quella scoperta, ma papà non avrebbe capito. Scrissi a qualche università, illudendomi che lo avrebbero chiamato e reso orgoglioso, ridandogli una parvenza di felicità. Quasi tutte mi ignorarono, alcune mi risposero deridendomi (“Egregio ragazzino…”, principiava una lettera intestata che ancora conservo).

Solo mia sorella mi dava credito.

E la notte in cui, secondo i miei calcoli, si sarebbe udito il suono della creazione, mi seguì di nascosto sulla collina.

«Scimmia!», l’aggredii quando la scoprii. «Se se ne accorge, ci manda in collegio!».

Non so come avrebbe potuto reagire papà, se si fosse accorto che non eravamo nel nostro letto e che avevo preso le sue apparecchiature.

Lei mi osservava esitando, stretta nella giacchettina infilata sul pigiama, i capelli arruffati sugli occhi come una vela strappata.

Ero venuto a volte con mamma sulla cima del colle, a vedere i gabbiani che galleggiavano sull’aria, e a provare a imitarli con gli aquiloni che sapeva costruire. C’è sempre vento là sopra; quella notte però pareva di sentire addosso la velocità della Terra, di precipitare come un sasso scagliato nello spazio a trenta chilometri al secondo. Ad ancorarmi al mondo restava solo la fissità delle stelle.

La torcia continuava a cadere e rotolare; le pile, che stupidamente non avevo sostituito, si stavano scaricando. Sulla collina eravamo i soli esseri viventi, e il mare laggiù in fondo non si vedeva, non se ne sentiva nemmeno il rumore. Il baccano dell’aria impediva a me e alla Scimmia di parlarci.

Fissai le strumentazioni dietro a una siepe, con corde e picchetti che avevo preparato da giorni. Era il punto più riparato, ma le raffiche tiravano comunque le funi con denti invisibili.

Non avevo mai sentito così freddo, temevo che le orecchie mi si sarebbero crepate come bottiglie in un congelatore.

Ci rimpicciolimmo nell’incavo di un albero, e la Scimmia si addormentò quasi subito. Quando la testa scarmigliata le era crollata sul petto, avevo sbuffato, insofferente di quel suo starmi sempre addosso e del rischio che mi faceva correre. Ma poi l’avevo sorretta in grembo e coperta col mio giubbino.

Non so quanto a lungo restai ad ascoltare l’ululato della corrente e il mio cuore in tumulto, lottando con la paura e col sonno, e col frastuono, e il vuoto dei pensieri, e le ore che correvano, e con l’inverno che non voleva finire e con un senso di inutilità che diventava ogni istante più incombente. Forse il mio posto era davvero nel letto, al caldo, a casa.

Le freccette del misuratore di decibel fibrillavano fuori di senno sulle cifre segnate in rosso. Le cuffie collegate al registratore restituivano solo un boato insistente e distorto, al punto che ormai mi ero convinto di aver sfasciato le apparecchiature di papà.

Una raffica ancora più forte strappò via una corda di ancoraggio, e dovetti inginocchiarmi dietro al trespolo, come in chiesa, per impedire al microfono panoramico di volare via. «Dio mio – mormorai – fa che resista fa che resista fa che resista».

Fu in quel momento, proprio mentre un primo barlume riverberava dalla parte del mare, che udii in cuffia qualcosa.

Pareva una complessa successione di respiri e impulsi. Dapprima piccole forze, spintarelle… uno sbuffo musicale… un altro… un soffio, che pure si imponeva sullo sbraitare del vento. E infine un mugghio come di colata lavica che – lo intendevo bene – aveva attraversato ere e distanze per farsi ascoltare proprio da me. Una sinfonia senza melodia, un’armonia senza ritmo, un messaggio recapitato direttamente dentro la testa.

Avevamo ragione! Il suono della creazione stava ancora echeggiando nello spazio; e io, forse unico nell’universo, lo udivo.

La Scimmia si era svegliata e mi fissava a bocca aperta. Chissà cosa vedeva sul mio viso.

Di quella musica, di quel rimbombo, riuscii a registrare una lunga sequenza. A un certo punto dovetti però interrompere, perché bisognava tornare a casa e rimettere le attrezzature a posto senza che papà si accorgesse di nulla.

Ricacciai tutto alla rinfusa nella borsa e mi precipitai giù per la collina, con lo zaino ballonzolante su una spalla e la Scimmia in braccio per fare più in fretta. Il sole sembrava sorgere rapidamente. La corsa mi faceva martellare la milza. I pesi che trasportavo tendevano a scivolarmi, e dovevo continuamente risistemarmeli addosso. Dopo il boschetto feci una sosta. «Vai avanti! – ordinai a mia sorella – segui il muretto». Lasciai il garbuglio dei cavi dietro una pietra, pregando che papà non si accorgesse della loro mancanza prima che potessi tornare a recuperarli, e mi misi di nuovo a correre, tastando costantemente il nastro con la registrazione nella mia tasca. Quasi rotolai giù per il pendio, coi polmoni che mi scoppiavano di fatica, paura ed eccitazione. Raggiunsi la Scimmia nel prato di trifogli, a un passo dal cortile di casa: le premetti una mano sulla bocca e la scongiurai con lo sguardo di non fare il minimo rumore.

Lasciammo le scarpe nell’atrio, come d’abitudine. Vidi con sgomento che erano inzaccherate: papà avrebbe potuto notarlo, ma non c’era tempo per rimediare. Strisciammo sino in camera senza respirare, e ci cacciammo a letto. Ero completamente madido di sudore. Dovetti fare uno sforzo enorme per contenere la smania e restare immobile.

Forse dieci minuti dopo, trillò la sveglia. Sentii, come a un metro da me, il passo strascicato di papà in corridoio, il sussurro delle notizie alla radio, il gorgoglio del caffè. I rumori consueti del risveglio mi rintronavano nelle orecchie. Mia sorella inspirava pesantemente rigirandosi nelle lenzuola, anche lei era sveglia. La spalla mi doleva per i pesi trasportati, ma mi sforzai di assumere l’abituale posizione sul fianco: se fosse entrato, non avrebbe dovuto insospettirsi di nulla.

D’un tratto un rumore sgarbato e stizzoso mi fece trasalire. Qualcosa grattava alla porta, come un senso di colpa.  Udii i passi pesanti di papà avvicinarsi lungo il corridoio, e poi indugiare. L’uscio si aprì, ma lui non entrò. Fu Pertini ad attraversare veloce la lama di luce. Balzò sul letto con un piccolo tonfo e si appoggiò alla mia sagoma, scuotendomi tutto mentre si leccava. Intanto sentivo l’acqua scorrere dal rubinetto e gli scaracchi nel lavandino, e poi ancora i passi di papà nel corridoio, un grugnito per chiamarci, lo scricchiolio di nuovo della sedia in cucina, e il frantumarsi delle fette biscottate. «Vado», annunciò dopo un po’. La chiave nella toppa, il colpo di tosse della 127 che si accendeva, il suo spernacchiare mentre si allontanava. Non avevo ancora ripreso a respirare regolarmente.

Quella mattina depositai la Scimmia alla fermata dello scuolabus, minacciandola perché non scordasse che quello era il nostro segreto, e tornai di corsa a casa, impaziente di ascoltare il nastro inciso la notte prima.

Non avevo sonno. Non l’avrei più avuto.

Da allora il suono della creazione non ha più cessato di occupare i miei pensieri. L’ho ascoltato ogni giorno finché mi è stato possibile. E quando non ho più potuto, ho lasciato che mi risuonasse nella mente. A volte distrattamente, o per scacciare la noia, più spesso con intenzione. A volte tutta la partitura, altre solo un movimento, pochi secondi, per confermarmi un’intuizione o confutarla.

Per mesi lasciai scorrere la registrazione in loop sul walkman, come fosse il mio cantante preferito. Quei suoni sfuggivano le leggi di questo mondo eppure le abbracciavano. Mi perdevo nella maestosità di certi passaggi, nella chiarezza dei brusii, nella sottigliezza dei silenzi. Strumenti sconosciuti eseguivano note inaudite, fluttuazioni che – così mi pareva – si ripetevano a intervalli definiti, seguendo un modello cui tutto si armonizzava. Sentivo musiche verdi e voci blu, traslucide e odorose: meglio non saprei descriverle.

Ci cantilenavo sopra, come sono certo avrebbe fatto mamma.

La Scimmia cantava con me, era bravissima a imitarmi e a prendere in giro il mio sguardo rapito. Non pensava ancora che ero matto, mi credeva solo il suo fratellone strambo.

«Silenzio!», irrompeva ogni tanto dal piano terra la voce di mio padre.

Pretendeva fossi bravo a scuola, e che al contempo seguissi mia sorella nei compiti. Per mia fortuna, lei era sveglia e imparava da sola a leggere e scrivere.

Il silenzio comunque durava poco. Dopo un po’ la Scimmia cominciava a mugolare qualcosa a bocca chiusa, a canticchiare con espressione ispirata il suono della creazione. Era impossibile non ridere, ma dovevamo farlo sottovoce, trattenendo la felicità.

Una volta non ci accorgemmo che papà era in camera, e ci osservava. Ne ricordo il tono senza repliche, mentre diceva che, continuando a starnazzare, saremmo rimasti due oche.

Io mi ero abituato ad abbassare il capo. «Mamma avrebbe cantato con noi», avrei voluto dirgli.

«Basta tu, papà! In questa casa non si può neanche scherzare!», quel giorno fu mia sorella a reagire.

Papà spalancò gli occhi e contrasse la mascella. La scena rimase immobile un attimo più del dovuto, come fossimo in posa e il fotografo non si decidesse a scattare. Infine si girò e tornò di sotto.

Lo studio di mio padre era un bugigattolo ingombro di attrezzature. Ogni tanto, col pretesto di portargli una di quelle sue tisane, la mamma andava a spalancargli la finestra e a raccontargli qualche pettegolezzo. Erano così diversi l’uno dall’altra, e allora mi sembrava che fossero perfetti assieme.

La saletta annessa allo studio era stipata di registrazioni e una volta papà, di solito così poco loquace, mi illustrò con inaspettata parlantina i criteri di conservazione dell’archivio. Mi fece intendere quanto preziosi fossero quei documenti: «Le voci e i suoni – mi spiegò – si disperdono nell’aria, sono frammenti che non si ricompongono più: dobbiamo catturarli e averne cura, se non vogliamo perderli».

Da quando però la mamma non era più andata a cambiargli aria, l’archivio era stato abbandonato al buio e a sé stesso. Era l’unico angolo della casa in disordine: scatoloni impolverati si accumulavano gli uni addosso agli altri.

A volte li spostavo, per esplorare di nascosto i materiali più vecchi. Poi li rimettevo esattamente com’erano.

Nella parte ancora catalogata dell’archivio c’erano le incisioni di vecchi concerti per cui papà aveva lavorato, e centinaia di effetti sonori e rumori naturali che teneva da parte per scopi professionali. Alcuni di quei vecchi nastri, siglati “provini vecchi”, me li ero presi, lasciando al loro posto solo le custodie vuote. Immaginavo che non servissero più.

Le cassette mi erano servite per fare alcune copie del suono della creazione: a forza infatti di farlo girare, il nastro originale si era usurato. Si erano sovraimpressi fruscii e fastidiose imprecisioni che mi obbligavano a tenere il volume sempre più alto nelle cuffiette. Purtroppo a ogni copia la qualità della registrazione diventava più scadente.

Quando capii che non sarebbe stato possibile conservarne la bellezza e la potenza, e che il suono della creazione si sarebbe lentamente ma irrimediabilmente rovinato, pensai di inventarmi un metodo per trascriverlo. Mamma lo avrebbe fatto, lo sapevo. Il pentagramma appreso a scuola non era sufficiente: elaborai un sistema fatto di frecce, insiemi e diagrammi di flusso. Riempii quaderni di annotazioni che potevo interpretare solo io: schizzi, lettere, cancellature, ripensamenti.

Canticchiavo con la bocca ciò che scrivevo, stando ben attento a non farmi sentire, e sventagliavo la biro come un direttore d’orchestra alla ricerca del segno giusto: quadrati, ellissi, stelline, lemniscate, sgorbi tutti miei.

Negli ultimi anni di liceo iniziai a utilizzare anche i numeri per trascrivere e fissare ciò che ascoltavo. Funzioni, successioni ed equazioni mi tornarono utili per mettere passaggi e ritmi nero su bianco. Ma intuivo che le quantità andavano a discapito dell’essenza: erano solo un’illusoria approssimazione a certe vastità.

Man mano che nei miei diagrammi cominciavo a intravedere delle sagome (o almeno così mi sembrava: plettri, cuori, ali, bisce, nuvole, che emergevano già bell’e fatti da una materia oscura), la registrazione sonora si sporcava, obbligandomi a tenere il volume costantemente al massimo, fino a farmi fischiare le orecchie in cuffia, fino a farle sanguinare.

I miei compagni di scuola mi consideravano uno stravagante, mezzo genio e mezzo sfigato. Mi cercavano per copiare i compiti e i cd, ma non mi coinvolgevano nei loro discorsi sul calcio e le ragazze, e ovviamente nulla sapevano delle mie ricerche. So che ridacchiavano alle mie spalle. Nella casa ai piedi della collina nessuno veniva a trovarmi.

Terminati senza molto dispiacere gli studi, cominciai a seguire mio padre nelle serate e nei concerti.  Davo una mano a montare americana e casse, e a gestire il mixer. Imparavo alla svelta, senza bisogno di molte spiegazioni. Non ricercavo particolari gratificazioni: avevo la mia paga, scarsa come sempre quando si inizia, e me la facevo bastare.

Con papà s’era instaurato un equilibrio fondato su poche parole e sulle cose da fare. Colleghi e clienti ci dicevano che ci assomigliavamo in maniera impressionante. Ma mentre lui rimaneva indietro senza sapersi riconvertire, colto alla sprovvista dalla comparsa di pc e hard disk, e dalla continua uscita di strumentazioni sempre più sofisticate e precise, io diventavo bravo nel mestiere e ricevevo numerose committenze. Stavo fuori casa settimane intere, stordendomi tra amplificatori e distorsori, e ogni volta al ritorno lo trovavo un po’ più invecchiato e arreso.

In quel mondo c’era chi mi considerava una specie di mago, perché sapevo abbellire e trasformare le voci. Non erano al corrente di due cose, di cui invece ero ben consapevole io: che stavo velocemente diventando sordo e che non ero in grado di sviluppare una mia creatività. Ero veloce a preparare e bravo a dosare, ma non ero capace di inventare sonorità e suggerire arrangiamenti.

In fondo non ero interessato alla musica umana, dopo avere ascoltato quella primordiale. Non mi importava. Ero un fissato: «Come papà», diceva a volte la Scimmia per compatirmi e strapparmi un sorriso. Decifrare e trascrivere il suono della creazione rimaneva il mio vero, unico interesse. Lo scopo della mia vita.

Una sera di un marzo particolarmente burrascoso, rientrando a casa mi accorsi che nessuno aveva chiuso le finestre. Le tende gonfiate dal vento spazzavano l’aria irritate. Una porta sbatté.

Notai subito le custodie vuote di alcune cassette, sparpagliate sul tavolo della cucina. Le riconobbi: i “provini vecchi”, quelli sui quali, anni prima, avevo sovrainciso il suono della creazione.

Appena mi vide, Cobain, che stava sulla credenza come ad aspettarmi, balzò fuori con un miagolio e sparì nelle tenebre. Il giorno dopo non rientrò in casa, e nemmeno quello successivo, e nessuno riuscì a trovarlo. Non lo vedemmo più.

Mia sorella sedeva col volto nascosto dai capelli, il mento poggiato sul palmo. Con la mano libera, apriva e chiudeva una delle custodie vuote, un colpetto dopo l’altro, tenendo il tempo scandito dall’orologio. Quando alzò lo sguardo, capii che aveva pianto.

Mi precipitai di sopra, in camera. La porta era ostruita dalla schiena di papà, larga e dritta come non la ricordavo. Per un interminabile istante mostrò di non curarsi del mio arrivo. Aveva le cuffiette del mio vecchio walkman in testa. Ascoltava qualcosa a un volume tanto alto che potevo sentire anch’io.

Quando si girò, i suoi occhi erano due buchi neri.

«Cosa ci hai registrato sopra?», domandò.

Non risposi.

«Te lo ripeto: cosa cazzo ci hai registrato sopra?».

Non l’avevo mai sentito parlare così.

Non attese una replica che non sarebbe arrivata. Aprì il raccoglitore e cominciò a farne passare il contenuto.

«Anche questa?», disse, mostrandomi una seconda cassetta.

Al mio cenno di assenso, la aprì in due, strappò la fettuccia e lasciò cadere tutto a terra. Mentre ci saliva sopra con la scarpa, mi arrivò un crac che già conoscevo: c’era pari pari nella sinfonia celeste, lo avevo tradotto sui miei quaderni tracciando una serie di croci.

Pescò un altro nastro dal suo alloggiamento.

«E questo?».

Sussurrai un sì così debole che dubito lo abbia sentito.

«E anche questo suppongo… e questo».

Una delle cassette rimase a contemplarla a lungo, come osservando in foto un volto che non ricordava più esattamente di chi fosse.

Spaccò anche quella, e poi tutte le altre, esaminandole prima una a una, con la collera calma di un terremoto sottomarino, calpestandole sul pavimento, ammucchiandole coi piedi per romperle meglio. Diventarono frantumi e frammenti, pezzi di plastica senza più scopo alcuno, pronti da bruciare.

Mi veniva da pensare a ciò che lui stesso mi aveva spiegato una volta: che i suoni e le voci si disperdono irrimediabilmente nell’aria, e nessuno può più ricomporli.

Non dissi nulla, mi limitai a ricacciare indietro le lacrime.

Mia sorella mi raggiunse più tardi nel buio del cortile. Mi spiegò che quelle registrazioni conservavano la voce di mamma, le sue canzoni, le sue poesie. Papà non le aveva mai riascoltate; e quando infine, dieci anni dopo, aveva trovato il coraggio, aveva sentito solo soffi, crepitii e incomprensibili borbottii.

Quando morì, e non erano trascorsi neanche tanti mesi, non avevo ancora trovato il coraggio di chiedere scusa.

Finii per perdere buona parte dell’udito, dopo che per anni l’avevo sforzato oltre i limiti della ragionevolezza. Non sentivo più le frequenze acute né quelle gravi: captavo solo una specie di fanghiglia torbida che ricopriva tutto.

Il suono della creazione l’avevo udito una volta per sempre. Ora si trattava di capirlo. Ero sicuro che, se ci fosse stata mamma, assieme ce l’avremmo fatta. Riempivo i miei fogli di eliche, piramidi, complicate scale che s’immettevano su altre scale, macchie di colore, buchi nella carta e segni convenzionali di mia ideazione.

Più approfondivo lo studio della partitura – non facevo altro tutto il giorno – più identificavo trame e collegamenti. E più comprendevo che a sfuggirmi era la nota costante che armonizzava l’intero concerto. Non l’avevo udita in sottofondo, non riuscivo a farla emergere dal magma dei miei ricordi, ma ero certo della sua esistenza: intercettarla mi avrebbe permesso di penetrare il segreto della creazione.

Diventai una specie di eremita, escluso dai rumori della vita quotidiana. Non provavo empatia per nulla. Mi rimaneva solo mia sorella, che non cessò di volermi bene, come se ne vuole a un fratello un po’ tocco, e continuò ad accudirmi e proteggermi pure quando anch’io, come papà, smisi di aggiornarmi e cominciai a perdere i lavori.

Un giorno però mi fece un discorso. Era chinata su Mandela per darle da mangiare, ma non riusciva a sorridere, nonostante la micia si abbuffasse come se stesse per morire di fame. Poi alzò lo sguardo e lo fissò nei miei occhi: «È una fatica inutile, Cosimo – le lessi sulle labbra – lascia stare i tuoi scarabocchi. Non cercare un significato dove non c’è. Butta quei fogli, ti prego. Trovati qualcuno cui voler bene. Fatti una dormita, una buona volta. Adesso te lo trovo io qualcosa da fare, e per favore mi ascolti».

Le sue parole, che pure mi erano giunte ovattate e distanti, mi fischiavano nelle orecchie come un ceffone. Davvero pensavo di poter svelare il mistero della creazione? E poi, davvero contava?

Su invito di mia sorella, che mi aiutò anche a studiare e apprendere i rudimenti, iniziai a curare un frutteto in un piccolo appezzamento a mezza costa. Nel giro di qualche anno, cominciammo a produrre abbastanza mele da venderne, di quelle gialle che piacciono ai bambini.

La conformazione dei pomi – una sfera che sgorga dai suoi stessi poli – mi affascinava: c’era uguale nelle mie annotazioni sulla sinfonia.

Allo studio della partitura riservavo le ore notturne. Ma mi capitava a volte di provarne gratitudine, quando l’avvicendarsi dei lavori e delle stagioni mi assorbiva, impedendomi almeno per un po’ di pensare agli spartiti. Ero riconoscente alla stanchezza che mi faceva addormentare presto la sera.

La trascrizione non faceva quasi più registrare progressi. Approfondivo certi passaggi, li svisceravo e descrivevo meglio, ma nulla riuscivo ad aggiungere alla comprensione complessiva della partitura.

Fu la gioia che brillava negli occhi di Maria – mia sorella, la Scimmia – il giorno delle sue nozze, a ispirarmi a mettere su carta una mia personale variazione alla sinfonia originaria. Ci misi il disegno di un aquilone che aveva fatto mamma, tanto tempo prima. Un otto che sembrava una chitarra.

E la prima volta che vidi il figlio di Maria, mio nipote Giacomino, piangere tutto rosso in viso, con la manina che mi si aggrappava al dito, inventai una mia musica. Originale, anche se nello stile di quella della creazione.

Quando Giacomino era ancora un bambino, a Maria venne diagnosticata una grave malattia. Fu necessario un interminabile ricovero in città, e suo marito, mio cognato, ebbe bisogno di starle al fianco e badare a lei per lunghe settimane.

Al bimbo, alla casa e ai gatti mi offrii di pensarci io. La verità è che quella era la sola cosa importante che avessi da fare.

In quei mesi ho aiutato mio nipote a vestirsi la mattina, come avevo fatto anni prima con sua mamma, e lo sono passato a prendere a scuola. Gli ho preparato la cena e lo spazzolino da denti. Gli ho raccontato delle storie (ai miei astronauti, preferiva maghetti e topi giornalisti), e caricato le videocassette coi cartoni. Pendeva dalle mie labbra, e a volte ridendo mi veniva di chiamarlo Scimmietta. Perdonavo il suo disordine e, con la scusa della sordità, fingevo di non accorgermi delle sue trascurabili marachelle. Avrei fatto quanto era nelle mie possibilità, perché si sentisse completo e in sintonia col mondo come lo ero stato io da bambino, prima di quel giorno che cambiò tutto.

Quando mi comunicarono che Maria si era aggravata, la sera, dopo aver messo Giacomino a letto, andai a camminare nel frutteto. Non tornai a letto. Non potevo sentire la cantilena dei grilli, né i richiami degli animali notturni. Ero solo, e mi misi a piangere.

Fu lì, ai piedi della collina, sotto la Via Lattea, che un canto mi affiorò alle labbra. «Prendi me piuttosto».

D’improvviso, pur nella tristezza, mi sentii libero. Avevo la certezza di non essermi mai avvicinato così tanto alla nota di fondo che da sempre mi sfuggiva.

***

Sono passati quarant’anni da quando ho sentito la prima volta il suono della creazione, e anche stamattina ci ho rimuginato sopra. Non mi sono fermato a lavorare nel frutteto, come faccio tutti i giorni, ma ho proseguito verso la cima della collina. È il primo giorno di primavera, e intendo onorare un appuntamento.

Salgo con calma, al mio ritmo. Ogni tanto mi fermo a prendere fiato. Attraverso il prato di trifogli e seguo il sentiero lungo i muretti.

La gatta bianca sbuca da un casotto di pietre crollate, si fa carezzare e mi segue. La vediamo sempre più spesso, e a volte ci cerca per la pappa: dovremo darle un nome.

L’ultimo tratto di salita è il più ripido, ma lo faccio quasi correndo. Ritrovo la macchia di alberi inclinati dal vento, e ci seppellisco ai piedi un plico. Ci pensavo ormai da tempo.

È lo spartito della sinfonia. Poche pagine: ne ho strappate tante, ho sintetizzato e tolto il superfluo. Rimane una riga vuota: l’ultima, quella decisiva per comprendere il mistero della creazione. Quella del suono che farà il mio ultimo respiro, quando sarà. Quella che non avrò tempo per trascrivere.

C’è un basso continuo ad armonizzare tutto? C’è un direttore d’orchestra a tenere insieme questa baraonda? Se c’è, qual è la nostra parte? Io non lo so. Perché mamma se n’è andata così presto? E perché, come papà, non sappiamo accettare l’irruzione del dolore e del disordine nel creato? O forse il suono che ho sentito è solo casualità e rumore bianco?

Mi siedo sul cocuzzolo e contemplo l’orizzonte. Non sento il fruscio della brezza tra i rami e della lucertola nell’erba, non il lavorio delle api. Ma li ricordo, e sono una grazia per me, come lo sono il mare laggiù in bonaccia, e i profumi, e i meli che presto fioriranno, e i miei ricordi.

La gatta rincorre un uccellino: la vedo saltare, d’un tratto sparisce. Poi ricompare con la preda in bocca e me la depone vicino. La sento fare le fusa sotto le mie dita. «Ci sei anche tu», le dico. Nell’universo unica e irripetibile…

Ha un senso coltivare pensieri troppo grandi, come ho fatto per tanti anni? Ha senso decidere infine di accontentarsi e lasciar andare, come sto facendo adesso?

Il telefonino vibra, è un miracolo che ci sia campo anche qui. Sul display lampeggia la scritta SCIMMIA. «Vado al mercato. Ti aspetto?», scrive.

No, oggi no. Domani sì, volentieri, ma oggi sto bene qui.


Riccardo Negri è nato nel 1970 a Viadana (Mantova), dove tuttora vive con la famiglia e tre gattini. Giornalista, collabora con una radio libera e un quotidiano locale. Alcuni suoi racconti sono stati apprezzati in concorsi e contest letterari.

Ciò che vogliamo ascoltare

A seguito della nostra call Rumori in sottofondo abbiamo ricevuto 54 racconti. Letti, selezionati, editati prima dalla classe di Apnea ‘21/‘22 poi dalla nostra redazione narrativa, ne sono infine stati scelti 14 per la pubblicazione sulla nostra rivista. Questo è l’undicesimo, lo ha scritto Stefano Galardini, e con l’editing l’allieva editor Sara Passannanti e la redazione hanno suggerito all’autore interventi per mettere a fuoco l’oggetto narrativo del racconto, ridurre il numero dei personaggi e riscrivere alcuni dialoghi che non sembravano coerenti con il tono.


Durante una visita di routine, i medici scoprono nel respiro di Linda un suono che non sanno spiegare. Linda non riesce a comunicare alla figlia Angela che c’è qualcosa che non va. La donna ha insegnato ad Angela sin da bambina a distrarsi dai problemi della vita ascoltando inesistenti rumori di sottofondo. Due generazioni a confronto, legate dallo stesso comportamento illusorio: tentare di ascoltare il suono dell’erba che cresce, ferme, in attesa, mentre il tempo intorno a loro, come la vita, non si ferma.


Ciò che vogliamo ascoltare

di Stefano Galardini

Angela aveva sette anni la prima volta che Linda, sua madre, l’aveva portata in giardino ad ascoltare l’erba che cresce.

L’aveva messa a sedere sulla sua seggiolina di plastica rosa, quella del set da tè delle principesse, apposta per farla stare comoda e buona in mezzo ai trifogli e alle margherite, perché doveva concentrarsi, perché non era facile riuscire a cogliere – in mezzo al verde dei cespugli e della siepe – il suono dell’erba che cresce.

Angela era una bambina ubbidiente. Nemmeno per un attimo aveva messo in dubbio quello che le aveva detto di fare la mamma, anche se il giardino dava sulla strada, erano le cinque di pomeriggio e, con il rumore delle auto dell’ora di punta, ascoltare l’erba che cresce non era per niente facile.

Angela ci si era messa d’impegno. Oltre al brusio dei motori, un merlo dispettoso ciarlava dal giardino della vicina, alle sue spalle sbuffava la ventola dell’aria condizionata. Qualche piano più sopra qualcuno aveva tirato lo sciacquone del bagno e il tubo dello scarico aveva gorgogliato come un tacchino lungo tutta la facciata del caseggiato. In lontananza una sirena si era messa a ululare, Angela aveva provato a distinguere se si trattasse di un’ambulanza o di un camion dei pompieri, le piacevano i camion dei pompieri, così rossi, grossi e veloci. Comunque, non stava pensando nemmeno più al suono dell’erba che cresce, se n’era dimenticata, distratta pure dal fruscio che il suo vestitino leggero faceva ogni volta che spostava il mento da un palmo all’altro.

La luce del sole si era fatta più gialla e più trasparente: Angela aveva cominciato a sentire freddo, aveva deciso che era il momento di tornare in casa, di confessare alla mamma che non era riuscita a fare quello che le aveva chiesto, avrebbe detto che c’era troppo rumore là fuori, magari poteva riprovarci il giorno dopo? Non voleva deludere la mamma e fu con una certa fatica che si era girata sulla sedia preparandosi ad alzarsi, quando li aveva sentiti.

Aveva drizzato le orecchie e sentito che mamma e papà si stavano gridando addosso un ottimo compendio di tutte quelle parole che ad Angela avevano fatto divieto categorico di utilizzare. Li vedeva attraverso la finestra, camminavano a passi veloci da un lato all’altro della stanza, sempre in direzione contraria l’uno all’altra, senza mai incontrarsi.

Angela si era voltata di nuovo verso il giardino e si era rimessa in ascolto.

Dopo quella prima volta, quando la mamma usciva a recuperarla tirando su con il naso e con un fazzoletto stretto in un pugno, lei le diceva sempre che era riuscita ad ascoltare il suono di dodici, o trentanove o seicentosedici fili d’erba che crescono.

Fuori dalla porta chiusa dell’ambulatorio poteva sentire il galoppare delle scarpe di una folla sul linoleum del corridoio. Le porte di un ascensore sibilarono dentro il muro, il rantolo di un distributore automatico spremeva caffè istantaneo dalle proprie viscere dentro un bicchierino di plastica. Il cellulare di Linda trillò imbavagliato nella borsa. La donna fece al medico il gesto di aspettare e quello si ritirò senza una parola. Linda guardò lo schermo. Era sua figlia.

«Angela?».

«Mamma com’è andata?».

«Sono ancora qui. Ti richiamo quando ho finito», chiuse la comunicazione e rivolse al dottore un breve sorriso di scuse.

«Faccia un altro bel respiro», le disse il medico e lei inalò aria a bocca aperta.

«Ancora».    

Linda obbedì.

«Quanti anni ha detto che ha signora?».

«Sessantasette».          

Il medico aggrottò la fronte fissando gli esami del sangue e alzando gli occhi verso lo schermo del computer, come se non l’avesse sentita.

«Qualcosa non va, dottore?».    

L’uomo ancora non rispose. Il naso di Linda si arricciò in una smorfia appena percettibile. «Qual è il problema?», tentò ancora.

Il dottore si grattò dietro l’orecchio sinistro, rilesse per la terza volta la cartella, contorse le labbra in una smorfia sospirando rumorosamente dal naso.

«Dottore, ho seppellito i miei genitori e un marito. Se ha brutte notizie le voglio sapere subito, niente giri di parole», la donna lo guardò dritto negli occhi e il medico sembrò infastidito nel trovarsi disarmato sotto gli occhi di un’estranea.    

«La verità è che non so davvero cosa dirle. Gli esami del sangue sono perfetti, la funzionalità polmonare è ottima, stacca un bel novantanove al saturimetro. A parte il raffreddore ricorrente per cui è venuta da me non ho trovato nulla che non vada, tranne…».

«Tranne?».

Il dottore sospirò ancora. Linda non aveva nulla in contrario verso i tic delle persone, tutti ne avevano almeno uno, lei per esempio si mordeva l’interno della guancia quando era impaziente, lo stava facendo anche in quel preciso momento. Il problema era che il dottore aveva l’alito pesante, probabilmente ne era a conoscenza anche lui e tentava di nascondere il miasma gastrico masticando caramelle alla menta, ma il mix era per Linda comunque micidiale.

«Allora?», lo incalzò con uno stridio nella voce che non le apparteneva.

Il dottore capitolò: «Sento un crepitio di sottofondo».

Linda aggrottò le sopracciglia. «Si spieghi».

L’uomo si sedette su uno sgabello davanti al lettino, per essere alla stessa altezza della donna: «Quello è il problema, non me lo so spiegare. Lei è in forma perfetta, glielo confermo. Eppure auscultandola sento come un crepitio nel suo respiro. Come qualcosa di molto piccolo che gratta con le unghie dal di dentro».

Linda inorridì.

«Signora Valentini, posso chiederle di aspettare, mentre chiamo un mio collega? Vorrei un secondo parere».

Linda si tirò su la spallina del reggiseno: «Ci mancherebbe! Voglio sentirlo anche io!».

Il primario di radiologia si presentò con tanto di credenziali e Linda gli strinse la mano raccomandandogli di non perdersi in chiacchiere e offrendogli la schiena. Quello appoggiò lo stetoscopio freddo alla pelle nuda e le chiese di fare dei bei respiri.

«Allora?».

 «Sento anche io qualcosa», ammise annuendo. «Molto flebile, se non mi avessi detto che c’era non ci avrei fatto caso, come un debole fischio».

Linda cominciò a rivestirsi in fretta, rischiò di strappare la manica della camicia per l’impeto con cui ci infilò dentro il braccio. Dentro la bocca sentiva il sapore amaro del sangue, l’interno della guancia eroso dal lavorio straziante dei denti.

Nel tempo che lei impiegò per rivestirsi il primario di radiologia era sparito e il medico si era risistemato composto alla sua scrivania.

«Signora Valentini, a questo punto consiglierei di continuare l’indagine con ulteriori esami per scoprire l’origine del… del crepitio nei suoi polmoni».

Linda imbracciò la borsetta e si alzò dal lettino, pronta a uscire. La porta era rimasta socchiusa dall’uscita di scena dell’altro dottore e i rumori dell’ospedale aggredivano le parole del medico che Linda riusciva a carpire e decifrare a malapena. Il cicalino del CUP che segnalava il turno del paziente successivo in coda la fece sussultare.

«Si sieda», l’uomo le offrì la sedia di fronte a sé con un gesto cortese e automatico della mano, ma Linda scosse la testa. «Direi di cominciare a prendere un appuntamento per una TAC; una volta avuto l’esito, programmeremo i passi successivi».

In seguito, non avrebbe saputo dire come ritrovò il corridoio giusto che l’aveva portata all’uscita, aveva camminato senza guardare niente e nessuno in particolare, come estranea da sé stessa. In attesa alla fermata dell’autobus riuscì a contare i suoni che l’avevano accompagnata nel tragitto, il chiacchiericcio delle tazzine vicino al bar, il cigolio delle ruote di una sedia a rotelle sul pavimento, la risata di un’infermiera che parlava con un collega. Alzò gli occhi quando avvertì la presenza ingombrante dell’autobus di fronte a sé, il raglio dei freni la strappò al ricordo onirico degli ultimi minuti. Si accorse di avere ancora la richiesta in carta rossa che gli aveva consegnato lo specialista, raccomandandola al suo medico di famiglia.    

Linda si fiondò sul pullman diretto al suo quartiere con la fretta di una decisione presa all’ultimo momento.    

Percorse il tragitto fino a casa con la testa svuotata e le energie che piano piano la stavano abbandonando, dalle spalle verso il basso. Si era lasciata cullare dal rumore del traffico oltre il vetro abbassato. All’interno del pullman una donna sudata in un tailleur spiegazzato e con una ventiquattrore a tracolla che sembrava troppo spessa e pesante parlava alla madre come si parla con una bambina. Linda chiuse gli occhi, ringraziando mentalmente di aver trovato un posto a sedere, lo spazio in piedi si era presto riempito di corpi che occupavano tutto il corridoio, la sinfonia disordinata dell’umanità intorno a lei la rilassava, odiava dover aspettare da sola, Linda non leggeva, non possedeva uno smartphone e i lunghi tragitti erano uno stillicidio senza la musica della presenza di vita attorno a sé. Quando si ritrovava da sola finiva sempre per concentrarsi e tentare di carpire i suoni impossibili. Quel giorno il motore dell’autobus che tremava più forte del solito era una piacevole linea di basso che armonizzava in un’unica canzone tutti gli altri rumori.

Dopo essere entrata in casa, per prima cosa scartò una confezione di biscotti Balsen e si sedette di fianco al telefono. Inforcò gli occhiali e alzò il mento per mettere a fuoco il tastierino; masticando il primo biscotto compose a memoria il numero della figlia.

«Pronto, mamma?».

«Ciao Angela, sei ancora al lavoro?». Nel ricevitore Linda sentì il passaggio di un’onda di elettricità statica che si esaurì ancora prima che potesse davvero capire cosa fosse.    

«Sì. E credo che ci rimarrò fino a tardi. Ci saranno gli audit la prossima settimana e Maugeri vuole che ricontrolliamo tutte le bolle di spedizione dall’inizio dell’anno. È un lavoro infame, ma che gli importa?», poi, più piano: «Tanto la gatta da pelare ce la dobbiamo smazzare noi».

Linda mise in bocca un altro biscotto e il ricevitore si riempì del suono dei suoi denti che sminuzzavano il boccone croccante.

«Mamma ma stai mangiando?».

«Mh». Inghiottì. «Un biscotto. Mi sa che ho un calo di zuccheri, non mi sento granché bene. Quindi mi stai dicendo che ti sto disturbando, allora ti saluto».

Angela sospirò: «Ma no, ma no. Una pausa la faccio volentieri».

Il sospiro alzò un pulviscolo di crepitii nella cornetta di Linda: «Come dici? La linea è disturbata».

«Dicevo che staccare un attimo mi fa bene. Sono contenta che tu mi abbia chiamato».

Linda ingollò un nuovo biscotto, cercando di frantumarlo con la lingua contro il palato perché la figlia non se ne accorgesse. Lo spezzò in due, poi in quattro, lo inghiottì praticamente intero: «Vieni a pranzo da me domenica?», un nuovo sospiro, un nuovo crepitio. «Angela?»

«Sì, d’accordo», una pausa. «Ancora non mi hai detto com’è andata la visita. È tutto a posto?».

«Oh, la visita. Tutti buoni a parlare quelli».

«Quelli chi?».

«I medici».

«Mamma cosa ti hanno detto? C’è qualcosa che non va?».

«Ssssh!», Linda la zittì. «Hai sentito?».

Silenzio, la linea pareva muta.

«Che cosa?».

«Ssssh!», fece di nuovo la madre. «C’è qualcuno lì con te?».

«No, sono nel mio ufficio, da sola».

Una pausa più prolungata.

«Mamma?».

«L’hai sentita adesso? Come una voce, qualcuno che parlava».

«Magari è un’interferenza, mamma. Diceva qualcosa di interessante?».

Linda scosse la testa come se la figlia potesse vederla attraverso il ricevitore.

«Si sente ancora. La voce di un uomo. Parla di numeri, cifre. Non capisco».

«Mamma non preoccuparti, sarà un’interferenza, a volte succede».

Linda ascoltava la voce dell’uomo, meccanicamente mise un altro biscotto Balsen sotto i denti, senza preoccuparsi che la figlia la sentisse mangiare. «Ora discute a voce alta, ma non si capisce. Soffia nel telefono. Sembra ce l’abbia con qualcuno, ma non riesco a capire».

«E chissenefrega mamma! Cos’hai oggi? Sei strana».

«Ssssh! Non si sente più niente. Sparita».

«Grazie al cielo».

«E se fosse stato qualcosa di importante?».

«Non era niente di importante. Era solo un’interferenza, allora per domenica…».

«Eccolo di nuovo!».

«Pronto? Mamma?».

«Vuoi stare un momento in silenzio, Angela? Voglio capire cosa dice, ora sembra che stia piangendo…».

«Mamma ma cosa…».

«Sssh!», l’ultimo sibilo fu soffiato tra i denti come un ordine e Angela si zittì davvero. Ascoltò il respiro sottile della madre all’altro capo della cornetta che ascoltava una conversazione inudibile, appena sopra il livello di un disturbo elettrostatico. Passò un minuto, due.

«Mamma, sei ancora lì?».

Linda c’era, ruminava un biscotto dopo l’altro, frantumandoli piano piano, come se la voce nell’interferenza avesse potuto sentirla e scappare via.

«Mamma devo tornare al lavoro», le disse, la voce era stanca. «Ci sentiamo per domenica».

Le rispose un sussurro: «Ancora un attimo cara. Potrebbe essere qualcosa di importante, si sente appena un fruscio, un crepitio di parole, forse un fischio».

«Devo andare, ci sentiamo, ciao».

«Aspetta!».

Angela uscì dall’ufficio che era buio. Prese la borsa, compilò il tabulato delle ore dovute e lo firmò, chiedendosi se questo mese gli straordinari sarebbero finiti in busta paga o ad accumularsi nel fantomatico monte ferie che non aveva mai utilizzato nei tre anni in cui aveva lavorato per Maugeri. Stava in piedi in virtù del caffè, ma era sempre meglio di quando dormiva soltanto in virtù degli ansiolitici. Si guardò allo specchio dell’ascensore che la portava al pianterreno studiandosi la ricrescita. Com’era quella marca di tinta per capelli che le aveva consigliato Barbara? «Sai com’è», le diceva quando si riuscivano a incontrare per un caffè veloce sempre più arido di argomenti di conversazione, «i bambini ti fanno ammattire», e rideva. Ne aveva tre di figli Barbara, e no, Angela non lo sapeva com’è.

Il sole era calato presto e si era alzato un vento freddo, soffiava come rumore bianco dentro le orecchie soffocando qualsiasi altro suono. Il parchetto davanti al suo palazzo era buio e fosco e Angela fece il giro largo per evitare di passarci in mezzo.    

Fece una smorfia infilando la chiave nel portone, l’androne era ghiacciato, una luce artificiale bianca troppo forte si rifletteva sul marmo grigio e rimbalzava sul grande specchio in cima alla scala. Angela ci passò davanti senza alzare lo sguardo.

Tirò un sospiro chiudendosi la porta di casa alle spalle. Nell’appartamento la temperatura era giusta, il riscaldamento era centralizzato, i doppi vetri chiudevano fuori freddo e rumori. In cucina rimase per un momento incantata dalla luce del frigorifero che si rifletteva sui ripiani vuoti, dallo scomparto nella porta prese uno yogurt, non aveva nemmeno fame, recuperò un cucchiaino dal cassetto e si mise a mangiarlo davanti alla finestra, guardando fuori le fronde degli alberi che ondeggiavano frustati dal vento.

Si fermò, il cucchiaino a mezz’aria tra la bocca e il vasetto, cercò di sentire la risata delle fronde che ancora cariche di foglie si facevano beffe dell’inverno appena cominciato, ma riuscì a distinguere soltanto il ronzio monotono dei caloriferi. Si concentrò di più, aggrottando le sopracciglia come quando da bambina si sforzava di ascoltare il suono dell’erba che cresce, il gioco che aveva inventato sua madre quando voleva distrarre la sua attenzione e preservarla dagli inconvenienti della vita. Aveva ascoltato il rumore dell’erba che cresce quando era morto Lucky, il piccolo Cavalier King che le avevano regalato a Natale, quando si era ammalata la nonna, quando papà era stato licenziato.

Angela si concentrò per ascoltare il fruscio delle foglie degli alberi nel parco davanti a casa, non voleva aprire la finestra, voleva capire se poteva sentirne il suono anche con i doppi vetri chiusi, se potesse carpire ancora il canto della vita anche da lì, dal suo appartamento immerso nel silenzio, anche dalla sponda della vita su cui era arenata. Si sforzò a lungo, trattenendo il respiro, ma quando infine i rami smisero di agitarsi Angela non seppe dire se l’aveva sentito davvero o era stata invece soltanto suggestione.    

Posò il vasetto dello yogurt sul tavolo, un sapore acido nella bocca che non riusciva a deglutire. Si avvicinò alla maniglia della finestra, la fece ruotare, l’aprì. Fuori nella notte era il silenzio. Attese qualche istante il ritorno di una folata di vento che le parlasse piano all’orecchio, sicura che questa volta l’avrebbe sentito, sarebbe stato vero, ma non accadde nulla. Tornò a rinchiudersi nel mutismo dell’appartamento. Quando passò accanto alla borsa prese il cellulare e scrisse un messaggio a sua madre. «Mi chiami? Vorrei sapere quello che ti ha detto il medico».

Quando si coricò per tentare di dormire, Linda ancora non aveva risposto.


Stefano Galardini nasce a Genova nel 1985, vive in Brianza dove lavora come O.S.S. Nel 2017 esce il suo romanzo d’esordio Il tempo dentro di noi. Dal 2018 si dedica a consolidare le sue competenze, a mettere a fuoco la sua voce frequentando corsi e laboratori di scrittura creativa come il Gruppo di Supporto Scrittori Pigri e i Costruttori di ILDA. Nel frattempo suoi racconti vengono pubblicati in diverse antologie. Nel percorso di coaching con Luca Mercadante vede la luce il suo ultimo romanzo. E si ributta nella scrittura.

L’intimità degli spazi violati

A seguito della nostra call Rumori in sottofondo abbiamo ricevuto 54 racconti. Letti, selezionati, editati prima dalla classe di Apnea ‘21/‘22 poi dalla nostra redazione narrativa, ne sono infine stati scelti 14 per la pubblicazione sulla nostra rivista. Questo è il decimo, lo ha scritto Stefano Ficagna, e attraverso l’editing la redazione ha suggerito all’autore interventi di microediting sul lessico e sul sistema di immagini, soprattutto sul finale, rendendolo più incisivo e coerente con il tono del racconto.


Una ragazza si trasferisce in un appartamento in condivisione, allettata dall’affitto basso e dalla vicinanza al posto di lavoro. La convivenza funziona, anche se la coinquilina si vede di rado e sembra soffrire di un disturbo da accumulo ossessivo-compulsivo. Nell’arco di due anni passati sotto lo stesso tetto il loro rapporto verrà scandito dalla progressiva assenza di contatti e dalla diminuzione dello spazio comune, processi che arriveranno ad assumere proporzioni insospettabili.


L’intimità degli spazi violati

di Stefano Ficagna


All’inizio non ci faccio troppo caso. Mi infastidisce quando i miei spazi vengono violati. Evito di litigare per qualche centimetro rubato all’interno della dispensa, ma sento irrigidirsi i muscoli del collo vedendo tutte quelle confezioni di pasta accatastate. La mia coinquilina avrà trovato un’offerta irrinunciabile al supermercato, oppure ha intenzione di fare una festa e non mi ha detto niente.

Abitiamo insieme da tre mesi, durante i quali ci siamo parlate lo stretto necessario. Non so neanche da quanto ci stia lei, in questo bilocale periferico, ma ha un modo di abitare lo spazio che la fa apparire come la padrona piuttosto che una semplice affittuaria. Anche se coi gesti e le parole si è mostrata sempre gentile, quell’aura dispotica me l’ha fatta temere sin dal principio.

Ho l’impressione che mi tolleri come un contrattempo momentaneo, una delle tante che è passata e che passerà, ma qui l’affitto è basso e sono relativamente vicina a dove lavoro. Non ho alcuna intenzione di andarmene tanto presto.
Quando rientro a casa, il sabato notte, tutto è silenzioso. Non c’è stata nessuna festa, la pasta resta a occupare spazio nella dispensa.

Sei mesi sono tanti. Ci sono persone di cui ho scoperto la vita nell’arco di una sola serata, logorroici mezzi sbronzi che chissà perché pensavano fossi una che sa ascoltare. È passato l’inverno, si è fatta primavera, io della mia coinquilina conosco il nome e poco altro. Nessuno viene a trovarla, la sera esce di rado. Non ho idea se lavori, studi o cosa faccia per vivere, ma le bollette le paga sempre lei (la mia metà la prende in contanti) e nessuno ci ha ancora staccato le utenze.

I nostri spazi comuni sono il corridoio, che divide la mia camera dalla sua, e la cucina, grande a malapena per farci stare un tavolo e due sedie. Mangiamo a orari diversi, ci laviamo a orari diversi, anche le nostre vesciche sembrano regolate su ritmi divergenti. Abbiamo degli accordi, quelli sì: lasciare pulita la doccia, non intasare di capelli il lavandino, non abbandonare piatti e pentole nel lavello, pulizie una settimana a testa. Sono una persona metodica, mi sono adattata in fretta e lei non ha avuto niente da ridire. Lo sgarro della dispensa non è rientrato, ma si è stabilizzato su quella dimensione di pochi centimetri, giusto lo spazio di schernire il mio bisogno di simmetria.

Poi un giorno trovo venti confezioni di dentifricio che sporgono dalla mia parte. Il fastidio aumenta. Quel gesto testimonia un’invasione volontaria, un’azione a cui deve corrispondere una reazione. Vado di fronte alla sua porta ma invece di bussare mi fermo a guardarla. Da dentro non arrivano rumori, il silenzio è così intenso che romperlo mi intimorisce. Mi dico che potrebbe essere uscita e non faccio niente.

Torno alla dispensa e schiaccio un po’ più in là la pasta, il dentifricio e quelle poche scatolette che rappresentano gran parte della sua dieta. Il suo scomparto nel freezer è quasi vuoto, nel frigorifero stipa giusto qualche foglia d’insalata e della frutta di stagione. Non sembra avere gusti sofisticati. Se dovesse allargarsi ancora, mi dico, infilerò a forza un tacchino intero nel frigorifero per dimostrarle che anche io posso approfittare della mia libertà.


Arrivate al settimo mese raggiungiamo il picco della nostra intimità. Una mattina trovo una fetta di torta sul tavolo e un bigliettino col mio nome. Non c’è scritto perché, forse è il suo compleanno o chissà, magari si è laureata. Lascio un bigliettino con scritto grazie, dopo averci pensato su aggiungo un punto esclamativo. Vorrei ringraziarla anche di persona, la sera dopo la sento che rientra in camera e mi decido a bussare. Mentre attraverso il corridoio vedo che l’anta della dispensa è aperta, cerco di chiuderla ma qualcosa fa da ostacolo.

Dentro ci sono almeno venti confezioni di preparato per torte. La nostra ritrovata intimità si trasforma in silenziosa indignazione.

Passa un anno, con gli amici non faccio altro che lamentarmi di lei. Loro alzano gli occhi al cielo, sbuffano e mi chiedono perché non me ne vado e basta. Le mie invettive al bar sono l’unica reazione a quello che succede in casa.

Quelle che sembravano stranezze si trasformano gradualmente in un piano volto a escludermi da ogni superficie comune. La dispensa si riempie di ogni genere alimentare a lunga conservazione, cui si aggiungono shampoo, bagnoschiuma e igienizzanti. Il freezer scoppia di surgelati. Rimane a mia disposizione il frigorifero, ma ogni giorno lo apro con il timore di trovarlo pieno di spazzolini o di qualunque altra diavoleria la mia coinquilina voglia far scorta.

Il processo di occupazione è stato veloce, la mia reazione no. Un pomeriggio ero pronta ad affrontarla, ma ho desistito. Sono rimasta fuori dalla sua porta per più di un minuto, in attesa di un segno della sua presenza, poi ho cominciato a sentire una specie di cigolio provenire dall’interno. Appoggiando l’orecchio ho distinto meglio il suono: una specie di lamento, simile a quello di un animale che piange. Avrei voluto bussare, ma non sono brava a consolare gli sconosciuti.

Da un po’ di tempo trovo le bollette sul tavolo, il giorno dopo lei ci trova sotto la mia parte: così facciamo per l’affitto e per qualunque altra questione economica.    

Continuo a lamentarmi con gli amici, loro continuano a suggerirmi di andarmene. A loro non dico mai che nonostante tutto lì ci sto bene, ho la mia intimità, è come abitare da sola ma in un appartamento più grande di quello che potrei permettermi se me ne andassi. Posso pagarmi un account premium di Netflix, il wi-fi, esco molte più sere a settimana, tutto ciò che devo sacrificare è un po’ di spazio per le mie cose di tutti i giorni. A conti fatti è un ottimo compromesso.

Ogni tanto guardo il cielo e mi chiedo a quale catastrofe la mia coinquilina si stia preparando, per stipare tutta quella roba.

Dopo un anno e mezzo conosco un ragazzo. Si fa chiamare Chucky, come la bambola assassina di un vecchio film, un nomignolo ridicolo che stona coi suoi modi rilassati. Usciamo insieme qualche volta, ci piacciamo, comincio a passare la notte da lui. Facciamo un sesso rumoroso e noncurante, le pareti sono sottili e i suoi vicini conoscono i dettagli della nostra vita intima quanto noi. Ogni tanto incrocio sulle scale uomini che mi osservano e fanno sorrisini complici a cui non rispondo mai.

La mia vita si inserisce nella sua, ci incastriamo gradualmente. Non pensavo sarebbe mai successo, e non con tanta naturalezza. Vorrei condividere anche i miei spazi, ma tentenno. Quando mi decido dobbiamo dribblare i pacchi di carta igienica nel corridoio. Non mi fa domande, ma lo sento trattenuto e il sesso non è lo stesso di sempre. Più veloce, più disinteressato. È come se si sentisse osservato, qui, a casa mia, dove l’unica presenza è un’assenza.

Passano altri mesi, la parola “relazione” smette di farci paura. La situazione nel mio appartamento, invece, diventa sempre più preoccupante. Ogni giorno devo togliere qualche scatola dalla doccia per potermi lavare, confezioni sigillate con scritto su ogni lato “fragile”. Io e la mia coinquilina continuiamo a evitarci, a far finta che sia tutto normale.

Io e Chucky cominciamo a parlare sempre più spesso di convivenza, anche se lui ha un contratto a termine che non sa se gli rinnoveranno. Il suo appartamento lo escludiamo, abbiamo bisogno di intimità, e mi sono stancata degli sguardi allusivi o giudicanti dei vicini.

Quando troviamo una buona soluzione fatico a trovare il modo giusto per dirlo alla mia coinquilina: fra le nostre stanze ormai c’è una distanza invalicabile. Le lascio un biglietto, spiegando la situazione e comunicandole la data in cui me ne andrò. Al rientro, la sera, trovo la porta della mia camera sbarrata da un muro di confezioni di assorbenti.

Me ne vado a due anni esatti dal mio arrivo. Non ricevo biglietti di addio, né faccio qualcosa per incrociarla nei pochi spazi rimasti liberi dalle scorte accatastate ovunque. Alcune delle mie cose le abbandono nella camera, è più facile disfarsene che portarle fuori di lì. Gli oggetti di cui sento il bisogno sono sempre meno, l’asimmetria non mi provoca più disagio.

Il monolocale in cui andiamo a vivere io e Chucky non ha spazi privati. Il bagno è un’oasi in cui fare a meno della presenza l’una dell’altro, le mie docce durano un’eternità. Litighiamo più spesso, il sesso serve a riappacificarci: sono convinta della mia scelta, ma ogni tanto torno col pensiero a quella strana forma di libertà, limitata solo dagli oggetti che si accumulavano, forme di vita inerti a cui non dovevo rendere conto di niente e che chiedevano in cambio solo un po’ di spazio in più, sempre di più.

La convivenza non è il paradiso che credevo, ma ci farò l’abitudine.

Finché.
Un giorno esco per andare a lavorare, arrivo al secondo piano e vedo una montagna di carta igienica in corridoio. Penso a un trasloco, poi vedo un cane in giardino che spruzza di pipì un monolite di confezioni di pasta. La padrona ha la fronte aggrottata e la bocca aperta, come se si fosse bloccata nell’atto di esprimere una domanda.

In strada gli incroci sono pieni di provviste, beni di prima necessità spuntano dagli interstizi fra un edificio e l’altro. Nessuno tocca niente, neanche i senzatetto. Quando arrivo a lavoro la porta d’entrata sembra bloccata, mi faccio spazio a furia di spinte facendo crollare un muro di scatolette di tonno. Le scrivanie sono ingombre di lattine e scatole, faccio fatica a intravedere i miei colleghi dietro quelle barricate. Il mio principale mi saluta come se niente fosse, appoggiando dei fogli da catalogare su una pila traballante di saponi.

Comincio a lavorare, facendo respiri lenti e profondi per calmarmi. Mi dico che non c’è niente di cui preoccuparsi se nessuno pensa che ce ne sia motivo. Guardo persone che conosco da anni fare spallucce alle difficoltà di movimento come ho fatto io negli ultimi due anni, non dicono niente e io non faccio domande.

A metà mattinata la nausea mi assale. Cerco di resistere, ma dopo qualche minuto sono costretta a correre in bagno: una catasta di pannolini crolla al mio ingresso, ci faccio appena caso mentre mi inginocchio per vomitare. Dalla bocca mi esce solo bile, è come se avessi qualcosa nello stomaco che non riesco a espellere. Quando finisco faccio per prendere un fazzolettino dalla tasca per asciugarmi, ma trovo solamente la confezione di un medicinale che non conosco, cerco nell’altra tasca e ne trovo una anche lì. Mi chiedo come ci siano finite, ma ho paura di rispondermi.

Torno alla mia postazione, la testa mi gira e rischio di far cadere qualcosa a ogni passo. Non faccio in tempo a sedermi che sento un rantolo provenire dalla scrivania vicino alla mia, scavo un pertugio fra i saponi e vedo una segretaria con le dita conficcate in gola. Rimesta per qualche secondo, lo sguardo assente, poi estrae dalla bocca un termometro lucido di bava e sangue. Resto a fissarla finché non si volta verso di me, incredula, con gli occhi che sembrano sporgere un po’ di più a ogni secondo. Ricompongo la barriera poco prima di sentire un rumore come di popcorn che scoppiettano.

Serro le palpebre, il mondo continua a girare. Le oscillazioni seguono il ritmo di una melodia, una specie di ninna nanna. Sembra che il suono si propaghi direttamente dal mio timpano. La testa inizia a farmi male, a ogni nota il dolore aumenta, come se qualcosa si facesse strada a forza nel mio cranio, nella mia mente, qualcosa di superfluo che cerca uno spazio nel mondo.

Premo una mano sulla pancia, ancora scossa dalla nausea. Il mio corpo è l’ultima frontiera.


Stefano Ficagna è nato a Novara nel 1979. Lavora come operaio metalmeccanico in una fabbrica di bottoni; legge, suona, guarda film e serie tv, recita e scrive. Suoi racconti sono apparsi su riviste, uno sul disco Tl; Dl della band romana Vonneumann, uno ha vinto il concorso Romanzo Brevissimo indetto dalla casa editrice WoM Edizioni. Collabora col sito Read And Play e gestisce il blog Tremila Battute.

La mosca

A seguito della nostra call Rumori in sottofondo abbiamo ricevuto 54 racconti. Letti, selezionati, editati prima dalla classe di Apnea ‘21/‘22 poi dalla nostra redazione narrativa, ne sono infine stati scelti 14 per la pubblicazione sulla nostra rivista. Questo è il nono, lo ha scritto Federico Piacentini. L’allieva editor Alessandra Tamascelli, sotto la supervisione della redazione, ha lavorato con l’autore in un’ottica di microediting, per alleggerire qualche passaggio, mettere maggiormente a fuoco i sentimenti, le azioni e le sensazioni del protagonista, centrali in questo racconto.


Un uomo è in balia di visite specialistiche per un acufene. L’ultimo esame che deve eseguire è una risonanza magnetica. Ma lui sente una mosca ed è esattamente quello che mostrano le immagini. Dopo esser stato valutato da un neurochirurgo si sottopone al delicato intervento di rimozione del corpo estraneo. Al risveglio prova un senso di vuoto, stranezza e distorsione ma quando chiede di poter vedere la mosca estratta, il professore ride, spiegandogli di aver rimosso una massa cerebrale di cui il ronzio era solo una conseguenza. Il compagno di stanza però non è dello stesso avviso.


La mosca

Di Federico Piacentini

«È come una mosca, una mosca che non esce mai dal mio cervello».

Il medico mi guarda, perplesso. Afferra un arnese sul tavolo di metallo. Zoppica, spinge la mano destra sul bastone e si avvicina ondulante, poi si siede accanto a me. Vorrei chiedergli che cosa gli è successo.

Taccio mentre mi infila un piccolo imbuto nell’orecchio e ci appoggia sopra l’occhio. Posso sentire il suo respiro sul mio collo.

«Qui è tutto a posto».

Guardo le targhe dietro di lui, sono molte, gialle, oro, argento, in cornici striminzite. Otorinolaringoiatra. Ho sempre sorriso a sentire quel nome. Adesso no. Sono due mesi che sento un ronzio.

«Ha eseguito un esame audiometrico?».

Glielo porgo. Lui sospira e lo sfoglia.

«Il suo esame audiometrico è normale. E spesso nell’acufene questa non è una novità».

Lo guardo, mi guarda.

«Acufene?».

«Acufene». Aspetto. Continua. «Il manifestarsi di un suono improvviso di varia lunghezza d’onda e di varia intensità. Spesso gli acufeni sono sovrastati dal rumore del quotidiano ma, di base, sono sempre lì, ad aspettarci, appena si ripresenta il silenzio. A volte sono percepibili anche durante il giorno e possono interferire col sonno e le attività quotidiane del paziente».

«Possibile che una mosca possa fare tutto questo?».

«Cosa?».

«Niente».

«L’unico esame che rimane da fare è una risonanza magnetica cerebrale, per escludere altre cause organiche».

«Un tumore?».

«Non siamo così drastici».

Tamburello sul tavolo con le dita, ronzio nella testa, nelle orecchie. Organiche, ragiono sulla parola. Le cause psichiche sono state scartate da altri specialisti e, per una volta, me ne rammarico. Possibile che questa mosca sia in realtà una massa biologica destruente e mostruosa, altresì detta tumore?

Tiro fuori il portafoglio. Non voglio fare la risonanza, non voglio saperne di infilarmi in tubi meccanici solo per scoprire che ho una mosca nel cervello.

«E come faccio ad accedervi? Alla risonanza magnetica, intendo».

Maledetta indecisione. Il medico afferra una penna e inizia a scrivere su un foglio rosso. Poi me lo porge.

«Con questa ricetta può prenotare».

Annuisco. Apro il portafoglio ed estraggo una banconota. Il medico afferra un astuccio di pelle che trabocca di banconote come una bocca di pellicano piena dei pasti precedenti. Noncurante della situazione gastrica dell’astuccio, ci sbatte la banconota e lo chiude con forza.

Mi alzo e con la ricetta in mano mi avvio verso la porta, mi fermo.

«Ci sarà una cura?».

La mosca vola.

«Sono fiducioso».

Esco in strada e il brusio del traffico mi colpisce. La mosca permane ma sembra attenuata. Quasi il rumore di una Vespa lontana che viaggia in seconda con il gas a metà. Eppure lo psicologo me lo ha detto, le allucinazioni uditive, come quelle visive, sono spesso frutto di enormi fonti di stress. Non mi sento stressato, direi più esausto. Un lungo elenco di specialisti a cui mi sono rivolto: medico di base, neurologo, psicologo, otorinolaringoiatra. Il prossimo sarà il radiologo che leggerà la mia risonanza magnetica.

Mi muovo lentamente dentro quella che sembra una bara di metallo. I suoni forti fanno scomparire la mosca, ma mi inquietano, rendendomi le mani umide. Non posso fare altro che aspettare e chiudere gli occhi, se li apro, vedo il soffitto a una spanna dalla mia faccia.

La voce distaccata di un operatore alto e smilzo, che mi aveva fatto accomodare, mi rassicura che l’esame presto sarà finito. Non si sbaglia. Quando mi rimetto in piedi sento la testa girare leggermente, sono pressoché nudo, tranne per un lungo camice che mi copre fino a metà coscia. L’alto e smilzo avanza verso di me e mi porge i vestiti.

«Quando avrà finito, il dottore vorrebbe parlarle un attimo».

Non lo interpreto come un buon segno, come invece avevo fatto della scomparsa della mosca durante la risonanza. Mi sento un idiota in vestaglia, che ha appena passato una mezz’ora infernale per un ronzio che forse ha solo immaginato. Ma in quel momento esatto il rumore riparte nella mia testa. Ormai vestito mi avvicino alla scrivania dove il dottore sta osservando le immagini. Davanti allo schermo i lineamenti sono messi in contrasto dalla luce bianca.

«Salve, quale sarebbe il suo problema?».

Racconto della mosca e dei controlli a cui mi sono sottoposto che mi hanno fatto arrivare fino a lui. Mi guarda, sposta gli occhiali indietro con la punta del dito indice, poi torna a osservare le immagini sullo schermo e di nuovo sposta lo sguardo su di me.

«Una mosca ha detto?».

Il medico davanti a me osserva le lastre lucide sul diafanoscopio. Strano oggetto. Fa vedere il mondo alla rovescia. Basta prendere semplici pezzi neri di celluloide e portarli davanti alla luce elettrica perché rivelino segreti inconfutabili. Il medico è un neurochirurgo, un professore di fama mondiale, almeno così mi hanno detto. Non si è accontentato di osservare le immagini sullo schermo, ha voluto toccarle, sentirle, renderle analogiche. Si gratta la barba, mentre le guarda e riguarda. Le sposta, le soppesa, mugola.

Dopo un tempo interminabile prende il telefono e compone un numero.

«Annulli il mio appuntamento delle sedici per favore».

Bussano alla porta, che si spalanca facendo passare un altro medico, più giovane. Il camice svolazza mentre a lunghi passi raggiunge il diafanoscopio. Parlottano. Ogni tanto il nuovo medico si gira per guardarmi, sorride, è nervoso.

«Da quanto tempo soffre di questi disturbi?».

 «È un tumore?», domando.

I due medici sono crucciati, il professore si avvicina e si siede davanti a me, i suoi occhi nei miei.

«Le dobbiamo delle scuse. Non le abbiamo spiegato la situazione perché non è molto semplice».
A quel punto anche l’altro medico si avvicina e prende la parola.

«Quel che vuole dire il professore è che una circostanza del genere non ci era mai successa».

Si guarda la punta delle scarpe e fa un cenno all’altro come a dirgli di andare avanti.

«Nella mia vita di medico me ne sono capitate tante ma mai come questa. Non è un tumore, né qualsiasi altra cosa maligna o benigna. Lei ha una mosca nel cervello».
«Una mosca?».

«Proprio così, una mosca», conferma il medico giovane, che dopo un’occhiata rapida al professore si alza, mi prende per una spalla e mi accompagna davanti al diafanoscopio. Mi sembra che il ronzio stia aumentando, quasi mi scoppia la testa e non sono più in grado di seguire il fiume di parole del medico che diventa un brusio inconfondibile. Ma non ho bisogno di ascoltare. Bastano gli occhi, che non riescono a staccarsi dalla punta dell’indice del dottore sulla celluloide, dove, inequivocabilmente, vedo una mosca scura in campo bianco.

«Quindi non ha allergie, vero?».

«No».

«Farmaci ne prende?».

«Nemmeno».

L’infermiere monta una flebo sull’asta, vedo il liquido che scende nel tubicino di plastica e mi arriva al braccio.

«È la prima volta che si opera?».

«Sì».

Tra poco mi apriranno il cervello ed estrarranno la mosca. Sono mesi che la sento. Mi ha spinto da medici, mi ha fatto spendere soldi, sono diventato quasi pazzo. Dopo il nervosismo e la follia, rimane solo la paura. Quando il medico mi spiegava i rischi dell’operazione ho creduto, quasi, di non intervenire. Non è un tumore. Non è una turba psichica. Niente di pericoloso, solo una piccola insignificante mosca che sta nel mio cervello. Ma non posso vivere così, schiavo di un rumore sordo, incessante. L’infermiere spinge la barella nella sala operatoria, vedo grandi luci proiettare fasci luminosi su un tavolo nero al centro della stanza. Operatori mascherati, con guanti e camice aspettano il mio arrivo. Tra questi credo di riconoscere il professore e il medico giovane. Mi fanno montare sul letto nero e mi serrano la bocca con una mascherina.

«È pronto?».

Torno a concentrarmi sul ronzio, quasi che mi sia ritrovato in una sala operatoria in cui mi stanno per aprire il cranio senza motivo.

«Sì», sono pronto.

Apro gli occhi provando un senso di vuoto, come se cadessi in un baratro infinito, buio. Cerco di sollevarmi. Nel letto accanto al mio c’è un vecchio.

«Ho sete», dico.

Nella mente ritrovo pezzi di ricordi: la mascherina, il neurochirurgo, il medico giovane, la risonanza magnetica. Il vecchio mi porge un bicchiere mezzo pieno.

«Per chi, come te, si è sottoposto all’intervento ci dovrebbero essere infermiere carine sempre pronte a soddisfare ogni bisogno».

Bevo, ma l’acqua mi va di traverso, inizio a tossire proprio mentre entra nella stanza il professore, accompagnato da un’infermiera.

«Non deve bere, ancora!», esclama mentre si lancia a togliermi il bicchiere di mano. «L’intervento è riuscito ma il cervello ha ancora bisogno di adattarsi alla nuova forma prima di riprendere i normali circuiti neuronali. In poche parole, rischia di affogare anche con due sorsi di acqua».

Il vecchio lo guarda, poi si rivolge a me: «Non si deve dare retta ai bugiardi».

Il professore lo osserva, fa un cenno all’infermiera che pone tra le labbra dell’anziano una compressa e gli porge dell’acqua. Quello la ingoia, mi guarda e ricade nel letto.

«Demenza senile. Brutta bestia», dice il professore. «Ma veniamo a noi, abbiamo rimosso il problema, ci vorrà solo un po’ di tempo per rimettersi».

«La posso vedere?».

Il medico lancia un’occhiata all’infermiera che adesso tiene le mani composte davanti al grembiule e non reagisce allo sguardo complice del dottore.

«Non si possono vedere le masse che rimuoviamo dal cervello, vengono mandate in anatomia patologica per essere analizzate. Nel suo caso mi sento di poter escludere, grazie alla mia esperienza, una patologia maligna».

In quel momento entra nella stanza anche il medico giovane, si china su di me e mi spara una luce negli occhi: «I riflessi pupillari sono perfetti, buon segno».

Mi tocco le orecchie come se un riflesso ancestrale mi avesse percorso i muscoli, la mosca non c’è più. Non sento ronzii, il mio senso di smarrimento non era altro che la perdita di qualcosa di noto, a cui ci si attacca come a una gruccia.

«La mosca è stata tolta?».

«È ora di riposare. L’ideazione fantastica, dopo interventi del genere, è una cosa normale».

Mi alzo nel letto scosso dal terrore: l’otorinolaringoiatra, il radiologo che mi guarda con i riflessi di luce fredda sul viso, il neurochirurgo, l’indice che si posa sulla celluloide. La mosca.

«Voglio vedere la mosca che mi è stata tolta! Non la sento più, me l’avete tolta?».

Il professore risponde: «Stia tranquillo, l’acufene era solo un segno della massa cerebrale. Comprimendo il nervo acustico le sembrava di sentire una mosca, giochi strani del nostro organismo».

«Non è possibile, mi ricordo che mi avete mostrato la mosca, si vedeva bene! Non c’erano masse! Non avete trovato la mosca? Non la sento più!».

«Deve solo riposare adesso, vedrà che tutto si sistemerà». Il professore fa un cenno al medico giovane che annuisce in silenzio ed esce dalla stanza insieme all’infermiera.

Mentre il professore compila un foglio, il medico giovane rientra nella camera con un quadrato di celluloide, lo stesso osservato nel suo studio. Me lo pone davanti così che la luce della finestra possa rendere le immagini nitide.

«Questa è la massa». Fa un cerchio con la mano.

Fisso attentamente le immagini, tocco la lastra: «Qui non c’è la mosca!»

I due medici si mettono a ridere. «Una mosca nel cervello!», continuano a ridere mentre escono.

Il vecchio, appena i due non sono più a portata di orecchio, si gira verso di me e sputa la compressa che l’infermiera gli aveva messo in bocca.

«La mosca, ce l’avevo anche io. Credono di farmi fesso, ma io ricordo».

Da sotto il guanciale sfila un pezzo di celluloide sgualcita e me lo passa. Lo alzo davanti alla finestra. Nei contrasti chiaro-scuro rivedo una piccola mosca nera su fondo bianco, l’immagine che l’indice del giovane medico mi aveva indicato nello studio del professore.

Mi pare che un ronzio basso riprenda a crescere nella mia testa.


Federico Piacentini è Laureato in Medicina e Chirurgia. Da anni scrive racconti ma, solo dopo aver seguito un corso di scrittura creativa, ha iniziato a diffonderli. Suoi racconti sono stati pubblicati su riviste come RivistaBlam!, ILDA e Quaerere. Ha, inoltre, vinto il premio letterario “Jucunde Docet”. Sta lavorando al suo primo romanzo.