A seguito della nostra call Rumori in sottofondo abbiamo ricevuto 54 racconti. Letti, selezionati, editati prima dalla classe di Apnea ‘21/‘22 poi dalla nostra redazione narrativa, ne sono infine stati scelti 14 per la pubblicazione sulla nostra rivista. Questo è il dodicesimo, lo ha scritto Riccardo Negri, e con l’editing l’allieva editor Arianna Nozza e la redazione hanno suggerito all’autore interventi per mettere a fuoco l’oggetto narrativo, focalizzare gli eventi, i personaggi, le relazioni e le motivazioni, che l’hanno portato a esplorare nuove direzioni.
Dopo la morte prematura della mamma, appassionata di astronomia, il figlio Cosimo, un ragazzino, ne prosegue le ricerche. Da autodidatta, riuscirà a captare e registrare il suono della creazione. Riascoltarlo e cercare di interpretarlo diventeranno la sua unica ragione di vita, a costo di rendere complicati i rapporti col padre e la sorella, di perdere l’udito e di isolarsi dal mondo. Il mistero della sinfonia celeste non si lascerà infine penetrare, ma nella disillusione Cosimo riuscirà forse a trovare una forma di serenità.
Il suono della creazione
di Riccardo Negri
Forse altri pensieri avrebbero scortato la mia esistenza, se mamma non fosse morta così giovane.
Avevo dodici anni quando era mancata. Mia sorella poco meno di cinque. Di quel giorno ricordo la cornetta del telefono che oscillava nel vuoto, appesa al filo in corridoio, e papà che si chiudeva nel suo studio e non ne usciva più. Poi l’avevo rivisto che riassettava in cucina, quasi con furore, come per rimettere in ordine lì dove aveva fatto irruzione il caos.
Io avevo pianto da solo, seduto contro il tronco del melo. Mi veniva in mente mamma che sorreggeva la mia sorellina per insegnarle a camminare, e scherzava sul suo sederone appesantito dai pannolini.
Dio, se mi mancava! Mi mancava il fiore che si metteva tra i capelli, o quando tirava fuori la chitarra e trascinava papà a cantare. O quando mi faceva appoggiare la mano sul pancione per sentire la bambina che scalciava, e diceva che saremmo andati a vivere in un faro. Mi mancava quando con il telescopio mi spiegava come leggere il cielo.
Riempii il vuoto coi libri e i fumetti, o restandomene sdraiato per ore a carezzare il gatto e a immaginare il seguito delle storie che leggevo.
Il pallone era rimasto abbandonato in un angolo del cortile: il freddo dell’inverno lo aveva screpolato, il sole dell’estate sgonfiato, l’autunno lo aveva ricoperto di foglie. Infine mio padre lo aveva buttato.
Lui era ingegnere acustico e tecnico del suono, ma, da quando eravamo rimasti soli, i 33 giri non avevano più suonato, e la chitarra di mamma era finita in soffitta. Le essenze nei vasi erano morte. A scandire le giornate erano ora i compiti, i no, le regole. Se, raramente, chiedevo il permesso di andare a trovare qualche bambino, le labbra di papà si storcevano in un’espressione di disgusto: mamma, diceva, si sarebbe dispiaciuta a sapere che perdevo tempo.
Per qualche mese a mia sorella pensarono i nonni, poi me ne dovetti occupare io. La vestivo la mattina, le ricordavo di lavare i denti la sera. “Scimmia” la chiamavo, perché imitava tutto ciò che facevo. Da buon fratello maggiore, per me non era nient’altro che una palla che mi era stata legata al piede. Eppure custodisco ancora una polaroid tutta sghemba che scattò a mia insaputa mentre leggevo una storia al vecchio Gagarin, il micione di mamma: è il mio ritratto più fedele che esista.
Fu dopo una sorprendente lezione di scienze che recuperai e portai in cameretta il telescopio di mamma. Cominciai a trascorrere lunghe serate scrutando dalla finestra la luna e le stelle, a inventare per la Scimmia fiabe che parlavano di cosmonauti e pianeti lontani. Anche se non poteva capire, non mi stancavo di ripeterle ciò che avevo memorizzato degli insegnamenti di mamma sul firmamento.
Visto che non aveva ricordi, andavo poi a prendere gli albi fotografici dalla mensola in alto e le mostravo la mamma.
In verità lo facevo per me. Perché mi era impossibile capire come mai un giorno c’era stata e il giorno dopo non c’era più.
Temendo la sua disapprovazione, non avevo mai osato chiederne a papà il permesso, ma non di rado curiosavo tra le cose dei miei. Mi ero accorto che lui non apriva certe ante e tiretti, e così ogni tanto con mia sorella trafugavamo qualcosa: una biro, un rossetto, il naso da pagliaccio, un fazzoletto. Quando però vide un braccialetto di mamma al polso della Scimmia, papà rovesciò in una valigia il contenuto di quei cassetti, e portò tutto in soffitta.
Non smisi di ficcare il naso negli scaffali e negli angoli chiusi a chiave, ma capii come rimettere tutto perfettamente a posto.
Quando infine fui cresciuto abbastanza da manovrare da solo la scaletta della botola, cominciai a esplorare la colombaia. Ad attrarmi subito furono uno scaffale di vecchi manuali sgualciti e sottolineati e un quaderno di mamma con i suoi appunti di astronomia. Iniziai ad arrampicarmi in soffitta di nascosto ogni giorno, sempre con l’orecchio teso ai rumori del cortile, pronto a precipitarmi giù al rientro di papà.
Finii ben presto per non pensare ad altro. Lasciavo la Scimmia alle sue bambole e ai cartoni giapponesi, e mi perdevo per ore in quei libri e in quelle annotazioni come nel più bel romanzo d’avventure. Imparai a destreggiarmi tra termini magici e astrusi: albedo e azimut, apogeo e cefeidi, cuspidi, congiunzioni ed eclittiche smisero di avere segreti per me, o almeno così immaginavo. La passione coltivata da mia mamma divenne la zattera di salvataggio cui mi aggrappai per non lasciarla andare. Nuotavo tra percorsi e congetture che erano stati suoi, e in quegli appunti credevo di scorgere qualcosa: un’architettura, delle spiegazioni.
I compagni di classe, stanchi delle mie scuse, smisero poco a poco di invitarmi alle loro scorribande in bici. Mi rimase la compagnia del gatto, che mi stava a guardare mentre studiavo, e poi si addormentava.
Una sera, mentre cenavamo in silenzio, udimmo d’improvviso un pianto lontano, straziante, come di neonato. Flebile ma incessante, veniva da un punto imprecisato sopra le nostre teste. Tremai e mi venne di pensare a mamma: chissà se in qualche modo ci vegliava dall’alto, e piangeva per noi.
Ci scambiammo sguardi interrogativi. Fu mia sorella la prima ad alzarsi per cercare di individuare la provenienza di quei lamenti. «Vengono dal corridoio – disse – no anzi, dalla soffitta».
Io rimasi al mio posto. Sentii papà aprire la botola e issarsi in mansarda. «Sciò – ordinò – da basso». Un miagolio. Un istante dopo, Pertini, il gatto, comparve in cucina e corse a ripararsi sotto la mia sedia. Doveva essere salito con me, a mia insaputa quel pomeriggio; e, quando ero sceso di fretta chiudendo la botola, era rimasto bloccato nel sottotetto.
Quella sera papà scoprì i libri di astronomia aperti, i quaderni con gli appunti di mamma, i righelli, il compasso e le mie sottolineature. «Ecco come perde tempo», si fece sentir dire.
Ricacciò tutto nell’armadio. Telescopio e brogliacci tornarono definitivamente sottochiave, e non ebbi più modo di riprenderli in mano.
Mi rifugiai sotto il melo a piangere di rabbia. Ma non provai rammarico: già da qualche tempo, infatti, ero consapevole che i manuali e i quaderni di mamma non avevano più segreti per me. Ne avevo bisogno, perché sfogliarli era l’unico modo che mi era rimasto per dialogare con lei; ma non mi servivano più, perché ne avevo completamente decodificato il contenuto.
Ormai sapevo che, grazie a una congiuntura astrale unica, avrei presto potuto captare il suono della creazione, l’eco del clic, l’istante esatto prima del Big Bang.
Stando alle intuizioni di mamma e alle mie riflessioni, doveva essere per l’equinozio di primavera. Ne ero certo.
Non potevo tenere per me quella scoperta, ma papà non avrebbe capito. Scrissi a qualche università, illudendomi che lo avrebbero chiamato e reso orgoglioso, ridandogli una parvenza di felicità. Quasi tutte mi ignorarono, alcune mi risposero deridendomi (“Egregio ragazzino…”, principiava una lettera intestata che ancora conservo).
Solo mia sorella mi dava credito.
E la notte in cui, secondo i miei calcoli, si sarebbe udito il suono della creazione, mi seguì di nascosto sulla collina.
«Scimmia!», l’aggredii quando la scoprii. «Se se ne accorge, ci manda in collegio!».
Non so come avrebbe potuto reagire papà, se si fosse accorto che non eravamo nel nostro letto e che avevo preso le sue apparecchiature.
Lei mi osservava esitando, stretta nella giacchettina infilata sul pigiama, i capelli arruffati sugli occhi come una vela strappata.
Ero venuto a volte con mamma sulla cima del colle, a vedere i gabbiani che galleggiavano sull’aria, e a provare a imitarli con gli aquiloni che sapeva costruire. C’è sempre vento là sopra; quella notte però pareva di sentire addosso la velocità della Terra, di precipitare come un sasso scagliato nello spazio a trenta chilometri al secondo. Ad ancorarmi al mondo restava solo la fissità delle stelle.
La torcia continuava a cadere e rotolare; le pile, che stupidamente non avevo sostituito, si stavano scaricando. Sulla collina eravamo i soli esseri viventi, e il mare laggiù in fondo non si vedeva, non se ne sentiva nemmeno il rumore. Il baccano dell’aria impediva a me e alla Scimmia di parlarci.
Fissai le strumentazioni dietro a una siepe, con corde e picchetti che avevo preparato da giorni. Era il punto più riparato, ma le raffiche tiravano comunque le funi con denti invisibili.
Non avevo mai sentito così freddo, temevo che le orecchie mi si sarebbero crepate come bottiglie in un congelatore.
Ci rimpicciolimmo nell’incavo di un albero, e la Scimmia si addormentò quasi subito. Quando la testa scarmigliata le era crollata sul petto, avevo sbuffato, insofferente di quel suo starmi sempre addosso e del rischio che mi faceva correre. Ma poi l’avevo sorretta in grembo e coperta col mio giubbino.
Non so quanto a lungo restai ad ascoltare l’ululato della corrente e il mio cuore in tumulto, lottando con la paura e col sonno, e col frastuono, e il vuoto dei pensieri, e le ore che correvano, e con l’inverno che non voleva finire e con un senso di inutilità che diventava ogni istante più incombente. Forse il mio posto era davvero nel letto, al caldo, a casa.
Le freccette del misuratore di decibel fibrillavano fuori di senno sulle cifre segnate in rosso. Le cuffie collegate al registratore restituivano solo un boato insistente e distorto, al punto che ormai mi ero convinto di aver sfasciato le apparecchiature di papà.
Una raffica ancora più forte strappò via una corda di ancoraggio, e dovetti inginocchiarmi dietro al trespolo, come in chiesa, per impedire al microfono panoramico di volare via. «Dio mio – mormorai – fa che resista fa che resista fa che resista».
Fu in quel momento, proprio mentre un primo barlume riverberava dalla parte del mare, che udii in cuffia qualcosa.
Pareva una complessa successione di respiri e impulsi. Dapprima piccole forze, spintarelle… uno sbuffo musicale… un altro… un soffio, che pure si imponeva sullo sbraitare del vento. E infine un mugghio come di colata lavica che – lo intendevo bene – aveva attraversato ere e distanze per farsi ascoltare proprio da me. Una sinfonia senza melodia, un’armonia senza ritmo, un messaggio recapitato direttamente dentro la testa.
Avevamo ragione! Il suono della creazione stava ancora echeggiando nello spazio; e io, forse unico nell’universo, lo udivo.
La Scimmia si era svegliata e mi fissava a bocca aperta. Chissà cosa vedeva sul mio viso.
Di quella musica, di quel rimbombo, riuscii a registrare una lunga sequenza. A un certo punto dovetti però interrompere, perché bisognava tornare a casa e rimettere le attrezzature a posto senza che papà si accorgesse di nulla.
Ricacciai tutto alla rinfusa nella borsa e mi precipitai giù per la collina, con lo zaino ballonzolante su una spalla e la Scimmia in braccio per fare più in fretta. Il sole sembrava sorgere rapidamente. La corsa mi faceva martellare la milza. I pesi che trasportavo tendevano a scivolarmi, e dovevo continuamente risistemarmeli addosso. Dopo il boschetto feci una sosta. «Vai avanti! – ordinai a mia sorella – segui il muretto». Lasciai il garbuglio dei cavi dietro una pietra, pregando che papà non si accorgesse della loro mancanza prima che potessi tornare a recuperarli, e mi misi di nuovo a correre, tastando costantemente il nastro con la registrazione nella mia tasca. Quasi rotolai giù per il pendio, coi polmoni che mi scoppiavano di fatica, paura ed eccitazione. Raggiunsi la Scimmia nel prato di trifogli, a un passo dal cortile di casa: le premetti una mano sulla bocca e la scongiurai con lo sguardo di non fare il minimo rumore.
Lasciammo le scarpe nell’atrio, come d’abitudine. Vidi con sgomento che erano inzaccherate: papà avrebbe potuto notarlo, ma non c’era tempo per rimediare. Strisciammo sino in camera senza respirare, e ci cacciammo a letto. Ero completamente madido di sudore. Dovetti fare uno sforzo enorme per contenere la smania e restare immobile.
Forse dieci minuti dopo, trillò la sveglia. Sentii, come a un metro da me, il passo strascicato di papà in corridoio, il sussurro delle notizie alla radio, il gorgoglio del caffè. I rumori consueti del risveglio mi rintronavano nelle orecchie. Mia sorella inspirava pesantemente rigirandosi nelle lenzuola, anche lei era sveglia. La spalla mi doleva per i pesi trasportati, ma mi sforzai di assumere l’abituale posizione sul fianco: se fosse entrato, non avrebbe dovuto insospettirsi di nulla.
D’un tratto un rumore sgarbato e stizzoso mi fece trasalire. Qualcosa grattava alla porta, come un senso di colpa. Udii i passi pesanti di papà avvicinarsi lungo il corridoio, e poi indugiare. L’uscio si aprì, ma lui non entrò. Fu Pertini ad attraversare veloce la lama di luce. Balzò sul letto con un piccolo tonfo e si appoggiò alla mia sagoma, scuotendomi tutto mentre si leccava. Intanto sentivo l’acqua scorrere dal rubinetto e gli scaracchi nel lavandino, e poi ancora i passi di papà nel corridoio, un grugnito per chiamarci, lo scricchiolio di nuovo della sedia in cucina, e il frantumarsi delle fette biscottate. «Vado», annunciò dopo un po’. La chiave nella toppa, il colpo di tosse della 127 che si accendeva, il suo spernacchiare mentre si allontanava. Non avevo ancora ripreso a respirare regolarmente.
Quella mattina depositai la Scimmia alla fermata dello scuolabus, minacciandola perché non scordasse che quello era il nostro segreto, e tornai di corsa a casa, impaziente di ascoltare il nastro inciso la notte prima.
Non avevo sonno. Non l’avrei più avuto.
Da allora il suono della creazione non ha più cessato di occupare i miei pensieri. L’ho ascoltato ogni giorno finché mi è stato possibile. E quando non ho più potuto, ho lasciato che mi risuonasse nella mente. A volte distrattamente, o per scacciare la noia, più spesso con intenzione. A volte tutta la partitura, altre solo un movimento, pochi secondi, per confermarmi un’intuizione o confutarla.
Per mesi lasciai scorrere la registrazione in loop sul walkman, come fosse il mio cantante preferito. Quei suoni sfuggivano le leggi di questo mondo eppure le abbracciavano. Mi perdevo nella maestosità di certi passaggi, nella chiarezza dei brusii, nella sottigliezza dei silenzi. Strumenti sconosciuti eseguivano note inaudite, fluttuazioni che – così mi pareva – si ripetevano a intervalli definiti, seguendo un modello cui tutto si armonizzava. Sentivo musiche verdi e voci blu, traslucide e odorose: meglio non saprei descriverle.
Ci cantilenavo sopra, come sono certo avrebbe fatto mamma.
La Scimmia cantava con me, era bravissima a imitarmi e a prendere in giro il mio sguardo rapito. Non pensava ancora che ero matto, mi credeva solo il suo fratellone strambo.
«Silenzio!», irrompeva ogni tanto dal piano terra la voce di mio padre.
Pretendeva fossi bravo a scuola, e che al contempo seguissi mia sorella nei compiti. Per mia fortuna, lei era sveglia e imparava da sola a leggere e scrivere.
Il silenzio comunque durava poco. Dopo un po’ la Scimmia cominciava a mugolare qualcosa a bocca chiusa, a canticchiare con espressione ispirata il suono della creazione. Era impossibile non ridere, ma dovevamo farlo sottovoce, trattenendo la felicità.
Una volta non ci accorgemmo che papà era in camera, e ci osservava. Ne ricordo il tono senza repliche, mentre diceva che, continuando a starnazzare, saremmo rimasti due oche.
Io mi ero abituato ad abbassare il capo. «Mamma avrebbe cantato con noi», avrei voluto dirgli.
«Basta tu, papà! In questa casa non si può neanche scherzare!», quel giorno fu mia sorella a reagire.
Papà spalancò gli occhi e contrasse la mascella. La scena rimase immobile un attimo più del dovuto, come fossimo in posa e il fotografo non si decidesse a scattare. Infine si girò e tornò di sotto.
Lo studio di mio padre era un bugigattolo ingombro di attrezzature. Ogni tanto, col pretesto di portargli una di quelle sue tisane, la mamma andava a spalancargli la finestra e a raccontargli qualche pettegolezzo. Erano così diversi l’uno dall’altra, e allora mi sembrava che fossero perfetti assieme.
La saletta annessa allo studio era stipata di registrazioni e una volta papà, di solito così poco loquace, mi illustrò con inaspettata parlantina i criteri di conservazione dell’archivio. Mi fece intendere quanto preziosi fossero quei documenti: «Le voci e i suoni – mi spiegò – si disperdono nell’aria, sono frammenti che non si ricompongono più: dobbiamo catturarli e averne cura, se non vogliamo perderli».
Da quando però la mamma non era più andata a cambiargli aria, l’archivio era stato abbandonato al buio e a sé stesso. Era l’unico angolo della casa in disordine: scatoloni impolverati si accumulavano gli uni addosso agli altri.
A volte li spostavo, per esplorare di nascosto i materiali più vecchi. Poi li rimettevo esattamente com’erano.
Nella parte ancora catalogata dell’archivio c’erano le incisioni di vecchi concerti per cui papà aveva lavorato, e centinaia di effetti sonori e rumori naturali che teneva da parte per scopi professionali. Alcuni di quei vecchi nastri, siglati “provini vecchi”, me li ero presi, lasciando al loro posto solo le custodie vuote. Immaginavo che non servissero più.
Le cassette mi erano servite per fare alcune copie del suono della creazione: a forza infatti di farlo girare, il nastro originale si era usurato. Si erano sovraimpressi fruscii e fastidiose imprecisioni che mi obbligavano a tenere il volume sempre più alto nelle cuffiette. Purtroppo a ogni copia la qualità della registrazione diventava più scadente.
Quando capii che non sarebbe stato possibile conservarne la bellezza e la potenza, e che il suono della creazione si sarebbe lentamente ma irrimediabilmente rovinato, pensai di inventarmi un metodo per trascriverlo. Mamma lo avrebbe fatto, lo sapevo. Il pentagramma appreso a scuola non era sufficiente: elaborai un sistema fatto di frecce, insiemi e diagrammi di flusso. Riempii quaderni di annotazioni che potevo interpretare solo io: schizzi, lettere, cancellature, ripensamenti.
Canticchiavo con la bocca ciò che scrivevo, stando ben attento a non farmi sentire, e sventagliavo la biro come un direttore d’orchestra alla ricerca del segno giusto: quadrati, ellissi, stelline, lemniscate, sgorbi tutti miei.
Negli ultimi anni di liceo iniziai a utilizzare anche i numeri per trascrivere e fissare ciò che ascoltavo. Funzioni, successioni ed equazioni mi tornarono utili per mettere passaggi e ritmi nero su bianco. Ma intuivo che le quantità andavano a discapito dell’essenza: erano solo un’illusoria approssimazione a certe vastità.
Man mano che nei miei diagrammi cominciavo a intravedere delle sagome (o almeno così mi sembrava: plettri, cuori, ali, bisce, nuvole, che emergevano già bell’e fatti da una materia oscura), la registrazione sonora si sporcava, obbligandomi a tenere il volume costantemente al massimo, fino a farmi fischiare le orecchie in cuffia, fino a farle sanguinare.
I miei compagni di scuola mi consideravano uno stravagante, mezzo genio e mezzo sfigato. Mi cercavano per copiare i compiti e i cd, ma non mi coinvolgevano nei loro discorsi sul calcio e le ragazze, e ovviamente nulla sapevano delle mie ricerche. So che ridacchiavano alle mie spalle. Nella casa ai piedi della collina nessuno veniva a trovarmi.
Terminati senza molto dispiacere gli studi, cominciai a seguire mio padre nelle serate e nei concerti. Davo una mano a montare americana e casse, e a gestire il mixer. Imparavo alla svelta, senza bisogno di molte spiegazioni. Non ricercavo particolari gratificazioni: avevo la mia paga, scarsa come sempre quando si inizia, e me la facevo bastare.
Con papà s’era instaurato un equilibrio fondato su poche parole e sulle cose da fare. Colleghi e clienti ci dicevano che ci assomigliavamo in maniera impressionante. Ma mentre lui rimaneva indietro senza sapersi riconvertire, colto alla sprovvista dalla comparsa di pc e hard disk, e dalla continua uscita di strumentazioni sempre più sofisticate e precise, io diventavo bravo nel mestiere e ricevevo numerose committenze. Stavo fuori casa settimane intere, stordendomi tra amplificatori e distorsori, e ogni volta al ritorno lo trovavo un po’ più invecchiato e arreso.
In quel mondo c’era chi mi considerava una specie di mago, perché sapevo abbellire e trasformare le voci. Non erano al corrente di due cose, di cui invece ero ben consapevole io: che stavo velocemente diventando sordo e che non ero in grado di sviluppare una mia creatività. Ero veloce a preparare e bravo a dosare, ma non ero capace di inventare sonorità e suggerire arrangiamenti.
In fondo non ero interessato alla musica umana, dopo avere ascoltato quella primordiale. Non mi importava. Ero un fissato: «Come papà», diceva a volte la Scimmia per compatirmi e strapparmi un sorriso. Decifrare e trascrivere il suono della creazione rimaneva il mio vero, unico interesse. Lo scopo della mia vita.
Una sera di un marzo particolarmente burrascoso, rientrando a casa mi accorsi che nessuno aveva chiuso le finestre. Le tende gonfiate dal vento spazzavano l’aria irritate. Una porta sbatté.
Notai subito le custodie vuote di alcune cassette, sparpagliate sul tavolo della cucina. Le riconobbi: i “provini vecchi”, quelli sui quali, anni prima, avevo sovrainciso il suono della creazione.
Appena mi vide, Cobain, che stava sulla credenza come ad aspettarmi, balzò fuori con un miagolio e sparì nelle tenebre. Il giorno dopo non rientrò in casa, e nemmeno quello successivo, e nessuno riuscì a trovarlo. Non lo vedemmo più.
Mia sorella sedeva col volto nascosto dai capelli, il mento poggiato sul palmo. Con la mano libera, apriva e chiudeva una delle custodie vuote, un colpetto dopo l’altro, tenendo il tempo scandito dall’orologio. Quando alzò lo sguardo, capii che aveva pianto.
Mi precipitai di sopra, in camera. La porta era ostruita dalla schiena di papà, larga e dritta come non la ricordavo. Per un interminabile istante mostrò di non curarsi del mio arrivo. Aveva le cuffiette del mio vecchio walkman in testa. Ascoltava qualcosa a un volume tanto alto che potevo sentire anch’io.
Quando si girò, i suoi occhi erano due buchi neri.
«Cosa ci hai registrato sopra?», domandò.
Non risposi.
«Te lo ripeto: cosa cazzo ci hai registrato sopra?».
Non l’avevo mai sentito parlare così.
Non attese una replica che non sarebbe arrivata. Aprì il raccoglitore e cominciò a farne passare il contenuto.
«Anche questa?», disse, mostrandomi una seconda cassetta.
Al mio cenno di assenso, la aprì in due, strappò la fettuccia e lasciò cadere tutto a terra. Mentre ci saliva sopra con la scarpa, mi arrivò un crac che già conoscevo: c’era pari pari nella sinfonia celeste, lo avevo tradotto sui miei quaderni tracciando una serie di croci.
Pescò un altro nastro dal suo alloggiamento.
«E questo?».
Sussurrai un sì così debole che dubito lo abbia sentito.
«E anche questo suppongo… e questo».
Una delle cassette rimase a contemplarla a lungo, come osservando in foto un volto che non ricordava più esattamente di chi fosse.
Spaccò anche quella, e poi tutte le altre, esaminandole prima una a una, con la collera calma di un terremoto sottomarino, calpestandole sul pavimento, ammucchiandole coi piedi per romperle meglio. Diventarono frantumi e frammenti, pezzi di plastica senza più scopo alcuno, pronti da bruciare.
Mi veniva da pensare a ciò che lui stesso mi aveva spiegato una volta: che i suoni e le voci si disperdono irrimediabilmente nell’aria, e nessuno può più ricomporli.
Non dissi nulla, mi limitai a ricacciare indietro le lacrime.
Mia sorella mi raggiunse più tardi nel buio del cortile. Mi spiegò che quelle registrazioni conservavano la voce di mamma, le sue canzoni, le sue poesie. Papà non le aveva mai riascoltate; e quando infine, dieci anni dopo, aveva trovato il coraggio, aveva sentito solo soffi, crepitii e incomprensibili borbottii.
Quando morì, e non erano trascorsi neanche tanti mesi, non avevo ancora trovato il coraggio di chiedere scusa.
Finii per perdere buona parte dell’udito, dopo che per anni l’avevo sforzato oltre i limiti della ragionevolezza. Non sentivo più le frequenze acute né quelle gravi: captavo solo una specie di fanghiglia torbida che ricopriva tutto.
Il suono della creazione l’avevo udito una volta per sempre. Ora si trattava di capirlo. Ero sicuro che, se ci fosse stata mamma, assieme ce l’avremmo fatta. Riempivo i miei fogli di eliche, piramidi, complicate scale che s’immettevano su altre scale, macchie di colore, buchi nella carta e segni convenzionali di mia ideazione.
Più approfondivo lo studio della partitura – non facevo altro tutto il giorno – più identificavo trame e collegamenti. E più comprendevo che a sfuggirmi era la nota costante che armonizzava l’intero concerto. Non l’avevo udita in sottofondo, non riuscivo a farla emergere dal magma dei miei ricordi, ma ero certo della sua esistenza: intercettarla mi avrebbe permesso di penetrare il segreto della creazione.
Diventai una specie di eremita, escluso dai rumori della vita quotidiana. Non provavo empatia per nulla. Mi rimaneva solo mia sorella, che non cessò di volermi bene, come se ne vuole a un fratello un po’ tocco, e continuò ad accudirmi e proteggermi pure quando anch’io, come papà, smisi di aggiornarmi e cominciai a perdere i lavori.
Un giorno però mi fece un discorso. Era chinata su Mandela per darle da mangiare, ma non riusciva a sorridere, nonostante la micia si abbuffasse come se stesse per morire di fame. Poi alzò lo sguardo e lo fissò nei miei occhi: «È una fatica inutile, Cosimo – le lessi sulle labbra – lascia stare i tuoi scarabocchi. Non cercare un significato dove non c’è. Butta quei fogli, ti prego. Trovati qualcuno cui voler bene. Fatti una dormita, una buona volta. Adesso te lo trovo io qualcosa da fare, e per favore mi ascolti».
Le sue parole, che pure mi erano giunte ovattate e distanti, mi fischiavano nelle orecchie come un ceffone. Davvero pensavo di poter svelare il mistero della creazione? E poi, davvero contava?
Su invito di mia sorella, che mi aiutò anche a studiare e apprendere i rudimenti, iniziai a curare un frutteto in un piccolo appezzamento a mezza costa. Nel giro di qualche anno, cominciammo a produrre abbastanza mele da venderne, di quelle gialle che piacciono ai bambini.
La conformazione dei pomi – una sfera che sgorga dai suoi stessi poli – mi affascinava: c’era uguale nelle mie annotazioni sulla sinfonia.
Allo studio della partitura riservavo le ore notturne. Ma mi capitava a volte di provarne gratitudine, quando l’avvicendarsi dei lavori e delle stagioni mi assorbiva, impedendomi almeno per un po’ di pensare agli spartiti. Ero riconoscente alla stanchezza che mi faceva addormentare presto la sera.
La trascrizione non faceva quasi più registrare progressi. Approfondivo certi passaggi, li svisceravo e descrivevo meglio, ma nulla riuscivo ad aggiungere alla comprensione complessiva della partitura.
Fu la gioia che brillava negli occhi di Maria – mia sorella, la Scimmia – il giorno delle sue nozze, a ispirarmi a mettere su carta una mia personale variazione alla sinfonia originaria. Ci misi il disegno di un aquilone che aveva fatto mamma, tanto tempo prima. Un otto che sembrava una chitarra.
E la prima volta che vidi il figlio di Maria, mio nipote Giacomino, piangere tutto rosso in viso, con la manina che mi si aggrappava al dito, inventai una mia musica. Originale, anche se nello stile di quella della creazione.
Quando Giacomino era ancora un bambino, a Maria venne diagnosticata una grave malattia. Fu necessario un interminabile ricovero in città, e suo marito, mio cognato, ebbe bisogno di starle al fianco e badare a lei per lunghe settimane.
Al bimbo, alla casa e ai gatti mi offrii di pensarci io. La verità è che quella era la sola cosa importante che avessi da fare.
In quei mesi ho aiutato mio nipote a vestirsi la mattina, come avevo fatto anni prima con sua mamma, e lo sono passato a prendere a scuola. Gli ho preparato la cena e lo spazzolino da denti. Gli ho raccontato delle storie (ai miei astronauti, preferiva maghetti e topi giornalisti), e caricato le videocassette coi cartoni. Pendeva dalle mie labbra, e a volte ridendo mi veniva di chiamarlo Scimmietta. Perdonavo il suo disordine e, con la scusa della sordità, fingevo di non accorgermi delle sue trascurabili marachelle. Avrei fatto quanto era nelle mie possibilità, perché si sentisse completo e in sintonia col mondo come lo ero stato io da bambino, prima di quel giorno che cambiò tutto.
Quando mi comunicarono che Maria si era aggravata, la sera, dopo aver messo Giacomino a letto, andai a camminare nel frutteto. Non tornai a letto. Non potevo sentire la cantilena dei grilli, né i richiami degli animali notturni. Ero solo, e mi misi a piangere.
Fu lì, ai piedi della collina, sotto la Via Lattea, che un canto mi affiorò alle labbra. «Prendi me piuttosto».
D’improvviso, pur nella tristezza, mi sentii libero. Avevo la certezza di non essermi mai avvicinato così tanto alla nota di fondo che da sempre mi sfuggiva.
***
Sono passati quarant’anni da quando ho sentito la prima volta il suono della creazione, e anche stamattina ci ho rimuginato sopra. Non mi sono fermato a lavorare nel frutteto, come faccio tutti i giorni, ma ho proseguito verso la cima della collina. È il primo giorno di primavera, e intendo onorare un appuntamento.
Salgo con calma, al mio ritmo. Ogni tanto mi fermo a prendere fiato. Attraverso il prato di trifogli e seguo il sentiero lungo i muretti.
La gatta bianca sbuca da un casotto di pietre crollate, si fa carezzare e mi segue. La vediamo sempre più spesso, e a volte ci cerca per la pappa: dovremo darle un nome.
L’ultimo tratto di salita è il più ripido, ma lo faccio quasi correndo. Ritrovo la macchia di alberi inclinati dal vento, e ci seppellisco ai piedi un plico. Ci pensavo ormai da tempo.
È lo spartito della sinfonia. Poche pagine: ne ho strappate tante, ho sintetizzato e tolto il superfluo. Rimane una riga vuota: l’ultima, quella decisiva per comprendere il mistero della creazione. Quella del suono che farà il mio ultimo respiro, quando sarà. Quella che non avrò tempo per trascrivere.
C’è un basso continuo ad armonizzare tutto? C’è un direttore d’orchestra a tenere insieme questa baraonda? Se c’è, qual è la nostra parte? Io non lo so. Perché mamma se n’è andata così presto? E perché, come papà, non sappiamo accettare l’irruzione del dolore e del disordine nel creato? O forse il suono che ho sentito è solo casualità e rumore bianco?
Mi siedo sul cocuzzolo e contemplo l’orizzonte. Non sento il fruscio della brezza tra i rami e della lucertola nell’erba, non il lavorio delle api. Ma li ricordo, e sono una grazia per me, come lo sono il mare laggiù in bonaccia, e i profumi, e i meli che presto fioriranno, e i miei ricordi.
La gatta rincorre un uccellino: la vedo saltare, d’un tratto sparisce. Poi ricompare con la preda in bocca e me la depone vicino. La sento fare le fusa sotto le mie dita. «Ci sei anche tu», le dico. Nell’universo unica e irripetibile…
Ha un senso coltivare pensieri troppo grandi, come ho fatto per tanti anni? Ha senso decidere infine di accontentarsi e lasciar andare, come sto facendo adesso?
Il telefonino vibra, è un miracolo che ci sia campo anche qui. Sul display lampeggia la scritta SCIMMIA. «Vado al mercato. Ti aspetto?», scrive.
No, oggi no. Domani sì, volentieri, ma oggi sto bene qui.
Riccardo Negri è nato nel 1970 a Viadana (Mantova), dove tuttora vive con la famiglia e tre gattini. Giornalista, collabora con una radio libera e un quotidiano locale. Alcuni suoi racconti sono stati apprezzati in concorsi e contest letterari.
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