Ecco il primo capitolo tratto dal romanzo “Il gioielliere” di Alberto Nicolai che ha partecipato alla rubrica la verità, vi prego.
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Un pomeriggio di fine ottobre rientrando nel mio appartamento all’ultimo piano di un vecchio palazzo del centro storico di Roma, nell’androne fui fermato dal portiere: «Ah’ dottò, è arivato n’ pacco pe lei… l’ha portato n’coriere stammattina… la ricevuta, me sò permesso dottò, l’ho firmata io… era scritta in straniero… » Non fui tanto sorpreso per l’arrivo di un pacco, ma peraver sentito la voce del portiere. Erano due anni che occupavo quell’appartamento e quella credo fosse la prima volta che lo sentivo parlare. Lo vedevo sempre seduto dietro la sua guardiola di vetro inclinato su giornali sportivi intento a prendere appunti e compilare moduli del totocalcio. Il “pacco” era una scatola poco più grande di un pacchetto di sigarette avvolto in una carta azzurra e su un lato il mio nome e il mio indirizzo. Presi la ricevuta di consegna: non c’erano i dati del mandatario, ma solo una sigla: M.M.,T. Clock Market, Jodhpur, Rajasthan,India.
Salii le scale giocherellando con quel pacchettino portandolo ogni tanto all’orecchio come si fa con i
fiammiferi, pensando a chi poteva avermelo mandato. A Jodhpur conoscevo tante persone, avevo trascorsoin quella meravigliosa città, la città azzurra, molto tempo per conto della agenzia per cui lavoravo. La scatola, scuotendola, dava un suono tonfo, come un sasso avvolto in un panno. A casa aprii il pacchetto e dentro trovai un foglio accuratamente piegato con sotto quello che avevo immaginato; una pietra avvolta in un tessuto. Il foglio era scritto in inglese e diceva più o meno così: Mio caro Albertoji, sarei felice se accettasi questo regalo. Sto abbandonando la mia casa e la mia famiglia. Lascio a mio figlio tutte le mie cose e le attività che conosci e che ho devotamente seguito per quarant’anni. Adesso è tempo che mi liberi e che mi metta in cammino senza pesi e senza pensieri impuri. Non ti imbarazzare per questo dono e se dovessi avere bisogno vendilo, sono sicuro che ti aiuterà. Lascia che questo segreto resti tra noi e non pensare più a me. Conservo con gioia i pomeriggi trascorsi insieme. Ti auguro di trovare pace Albertoji e che dio ti benedica Mahaver Maharani. Era Mahaver, il mio amico gioielliere di Jodhpur. Lo avevo conosciuto dieci anni prima nel suo negozio del vecchio bazar della città azzurra. Non lo vedevo dall’inverno scorso. Quello che sembrava un sasso, svolgendolo da una tela di seta grezza, era una pietra di un tenue colore azzurro, trasparente, grossa come un’oliva, qualcosa che anche agli occhi di un profano come me, soltanto ammirandone la splendente lucentezza, si capiva fossequalcosa di un certo valore. La mattina seguente per avere qualche informazione riguardo l’insolito regalo mi recai da un mio amico creatore di gioielli che aveva un laboratorio non lontano da casa mia, nella zona degli orafi, dietro la piazza dove fu arso vivo Giordano Bruno. «Chi ti ha dato questa gemma Alberto? » disse togliendosi quella specie di monocolo nero dall’occhio destro dopo aver ispezionato la pietra per più di dieci minuti. «L’ho avuta in regalo », risposi con una naturalezza che al mio amico sembrò una presa per il culo. «Non dire cazzate… dove l’hai presa..? ». «Mi è stata regalata, davvero! », replicai con un tono perentorio che, mi parve, non convinse del tutto l’artigiano. Indugiò ancora qualche minuto sulla pietra con il suo monocolo. «Alberto, questo è uno diamante purissimo e sinceramente non so dirti che valore può avere, ma di sicuro una valanga di soldi.» Rimasi basito alle parole del mio amico: immaginavo, si, avesse qualche valore, ma non certo le cifre da capogiro che andava supponendo. Inventai che avevo avuto la pietra in regalo da un facoltoso mercante di gioielli indiano per dei contatti che gli avevo fatto avere con l’ambasciata indiana a Roma perché suo figlio voleva investire in Italia. Ci conoscevamo, io e il creatore di gioielli, sapeva che avevo lavorato a lungo in India, ma non abbastanza per poter dubitare delle mie conoscenze in alto, e, quella, mi sembrò una cazzata credibile. «Bé, è stato piuttosto generoso questo mercante indiano » disse restituendomi la pietra. «Se vuoi ti do il telefono di un esperto di pietre preziose, è spesso aRoma, tiene dei corsi, lui saprà senz’altro dirti il valore effettivo e, naturalmente, i contatti giusti se volessi venderla ». Uscii dal laboratorio del creatore di gioielli e andai a sedermi al tavolino di un bar all’aperto . Ma come è possibile, santa pazienza, ma come è possibile, continuavo a ripetermi: spedire con un corriere, senza nessuna certezza dell’arrivo, senza nessuna garanzia, con la possibilità che vada perso, un pacchetto con dentro un diamante, ma come è possibile. Ordinai un americano con la speranza che mi aiutasse ad alleviare o, perché no, amplificare quella strana sensazione mista di incredulità e contentezza. Tirai fuori la lettera di Mahaver rileggendola più volte cercando di capire tra le poche e semplici righe che mi aveva mandato qualche motivo di questo suo inaspettato e prezioso regalo. Avevo qualche idea, certo che l’avevo, sicuramente incrementata dal drink che sentivo predispormi alla fantasia. Tornai verso casa camminando leggero e sicuro, di quella sicurezza che da l’alcool bevuto a digiuno e la consapevolezza di avere in tasca qualcosa di molto
prezioso. «Le andrebbe bene stasera per le 18,00 », disse il mio interlocutore dall’altra parte del telefono. Ruggero Ramini era un gemmologo di fama nazionale e proprio quel pomeriggio si trovava a Roma. Ci incontrammo in una stanza dell’hotel Minerva. Era un uomo sulla sessantina, elegantissimo: notai le sue mani e pensai che a furia di maneggiare diamanti anche quelle avevano acquisito una lucentezza particolare. Da una valigetta estrasse delle
apparecchiature elettroniche e sottopose la mia pietraad una serie di analisi con lo stesso scrupolo di un medico su un paziente di riguardo. Dai vetri trasparenti della finestra guardai fuori l’elefante di marmo con l’obelisco sul garrese in piazza della Minerva e mi venne in mente il Rajasthan, i suoi colori, la sua gente, Mahaver. Dopo la “visita” alla pietra il dottor Ramini con un certo distacco disse: «Molto bene! Lei ha intenzione di venderla?».
«Non so », risposi «in realtà non ho ancora deciso, l’ho avuta in regalo da… » Mi interruppe, e togliendosi gli occhiali: «Non mi interessa dove ha preso o chi le ha dato questa pietra, le ho chiesto se vuole venderla». Il gemmologo mi stava innervosendo con i suoi modi risoluti e poco cortesi. «Dovrei sapere almeno quanto vale prima, non crede signor Ramini? » «Se ha intenzione di cederla ho un gioielliere a Montecarlo che, intermediando per lei – io prendo il dieci per cento – le posso far avere centocinquanta mila dollari in contanti ». Provai fastidio per le parole del professionista: non sopportavo il suo modo di parlare, quell’accento lombardo quasi affettato, il precisare la sua parcella ancor prima di sentire le mie intenzioni. «Mi lasci pensare » dissi avviandomi verso l’uscita:«e poi, anche se a lei non interessa, per me è pur sempre un regalo.» «Scusi, dottore, sta dimenticando la mia consulenza » disse l’esperto porgendomi il suo biglietto da visita. Lasciai sul tavolo della stanza il corrispettivo di una cena per quattro persone nel miglior ristorante della città e uscii per strada. L’aria era tiepida e piacevole come solo Roma sa esserlo in autunno. La piazza, incantevole, la facciata semplice della chiesa, i negozi di arte sacra, le vetrine dei sarti, mi sollevaronodall’incontro con quell’uomo apparentemente distinto, senza tuttavia sminuire i pregiudizi che avevo per certe categorie dove il denaro è soppesato con crismi
diversi da chi, invece, il denaro è abituato ad ottenerlo non dico con l’abnegazione, ma se non altro con
discernimento. A casa misi la pietra nel cassetto del mio scrittoio, la guardai qualche istante prima di chiuderlo: pensieri su pensieri, il corriere, Jodhpur, Mahaver, il gemmologo, l’elefante sulla piazza, le migliaia di dollari; ero frastornato, avevo voglia di camminare. Una delle cose che più amavo fare quando avevo tempo, e di tempo ho sempre fatto in modo di averne tanto, era passeggiare di notte per i vicoli del centro
storico. Mi piaceva il vecchio ghetto ebraico dove abitavo, la zona di piazza Farnese, i vicoli con i nomi di tutti degli antichi mestieri, piazza Navona con le stradine di Tor Millina, le zone intorno al parlamento. Di notte Roma
svela bellezze che di giorno sembra non esistano, come se si materializzassero col far del buio. Un tabernacolo,
un’edicola sacra, un portone, una colonna romana che sbuca da un muro: non dico le grandi chiese, i palazzi, i
monumenti; ma i particolari di questi, che quando la città si fa scura e deserta si manifestano in tutta la
loro curiosità e bellezza. Fu in quella passeggiata notturna che attraversando l’arco de Cenci per tornare a casa sentii una voce chiedermi: «Hai una sigaretta per favore? » Dalla penombra non riusci bene a vedere chi fosse. Si
avvicinò e gli porsi il pacchetto. Era un uomo sulla quarantina, mal messo in arnese mi parve di primo acchito, ma quando l’ebbi difronte capì che non era un barbone o uno dei tanti ragazzi che vivono con i cani.
Lo vidi dalle sue dita quando estrasse la sigaretta,erano curate e pulite, e anche il suo aspetto, da vicino, non aveva un’aria poi così dismessa. «Ti dispiace se faccio due passi con te, sai… ho paura. » mi chiese dopo aver acceso la sigaretta. «Paura di cosa… che qualcuno possa farti del male?» gli dissi guardandolo bene ora sotto la luce del lampione. «No, no, ho paura di bloccarmi! Era un’ ora che stavo appoggiato a quel muro… è una forza che mi preme sul petto e non riesco più a camminare. E devo arrestarmi, ovunque mi trovi. Prima mi capitava di più, ora un po’ meno grazie a dio, ma… non so come spiegarti: è come un toppo, qui, dentro, che mi costringe a fermarmi e a ridossarmi su un muro; e mi blocco, come fossi paralizzato, e non riesco più a muovermi, anche le gambe si bloccano…» Parlava bene con un lieve accento meridionale. Ci incamminammo lungo la strada che porta al
lungotevere. Indossava pantaloni troppo lunghi per la sua statura e una giacca di velluto scura, anch’essa fuori misura. «Per me erano di un gigante » disse guardandosi addosso dopo essersi accorto del mio indugiare lo sguardo su di lui, «me li ha regalati il prete della chiesa di san Carlo» «Di dove sei? » gli chiesi dopo essermi presentato.«Mi chiamo Sergio, sono della provincia di Bari…ormai sono otto mesi che mi trovo a Roma ». Avrei voluto di fargli molte domande ma preferii che fosse lui a parlare. La notte era fresca e l’acqua del fiume sembrava metallo fuso sotto la luce delle luminare dei bastioni. «Lavoravo in banca, allo sportello, un pomeriggio
dopo la chiusura andando a prendere la macchina per tornare a casa mi bloccai la prima volta. Fu una
sensazione bruttissima e restai dieci minuti con le chiavi in mano senza riuscire a muovere un muscolo. Pensai fosse dovuto allo stress, al troppo lavoro, e non gli diedi troppo peso. Poi accadde di nuovo, dopo qualche giorno, sempre rientrando a casa. Andai da un medico per parlargli di questi strani fenomeni che mi
accadevano. Il dottore disse che, secondo lui, erano sintomi di nevrastenia, di esaurimento nervoso, e mi prescrisse una sfilza di medicine, ma io quelle medicine non le ho mai né comprate né tanto meno prese… e sai perché..? perché non mi fidavo, perché non volevo aggiungere al mio male altro male. Non so se ho fatto bene, ma non mi fidavo, davvero: il dottore mi fece un’infinità di domande riguardo il mio fisico, quello che sentivo, le malattie che avevo avuto da bambino, cosa mangiavo, ma non mi chiese una cosa banalissima: se ero contento di quello che facevo. Certo che non lo ero: ma si, guadagnavo bene, avevo una bella macchina, avevo tutto quello che la maggior parte della gente desidera, ma non ero felice! Non ero felice e non amavo… non avevo amore! non amavo nessuno e nessuno amava me» queste ultime parole le disse unendo il pollice e l’indice della mano destra davanti al suo naso. Mi piaceva sentirlo parlare, era lucido ed ironico. «Continuai a bloccarmi sempre più spesso fino a quando un bel giorno andai dal direttore e, certificato alla mano, chiesi di mettermi in aspettativa. Mi feci dare un po’ di soldi e andai direttamente in stazione senza nemmeno passare per casa. Avevo sempre avuto il desiderio di visitare, o meglio di vivere questa città, cosi arrivai a Roma. Presi una pensione vicino alla stazione e pagai un anno anticipato, buona parte dei soldi che avevo: almeno avrei avuto un tetto e un bagno assicurato. Geniale éh?» Si geniale, pensai. Sembrava una battuta la sua, ma in realtà era davvero una buona mossa. «Sai, se parlo, se sto con qualcuno, mi blocco meno. Inizialmente frequentavo un bar vicino Torre Argentina, avevo fatto anche amicizie. Poi i proprietari iniziarono a trattarmi male, non sopportavano che stessi ore davanti la vetrina senza consumare nulla e un bel giorno mi cacciarono. Cominciai ad esser a corto di soldi. Fortunatamente conobbi il prete della chiesa di san Carlo, come ti dicevo, che mi aiutò a trovare dei vestiti e a guadagnare qualche soldo per mangiare. Vado lì quasi tutte le mattine e lo aiuto a pulire e sistemare le stanze della sacrestia. Ma non mi piace sai… o meglio non è che non mi piace lavorare, non mi piace stare tra quelle mura: mi opprime, mi sento.. come dire, nudo, si nudo, poi dopo un po’ mi stordisce quell’odore che c’è. Mi sembra un odore di fiori morti, un odore febbrile, di qualcosa che non ha vita. Scusami èh, se ti dico questa cose, non vorrei offenderti, magari tu…» «No no, non mi offendo, anzi.. è la stessa identica sensazione che ho provato anche io le poche volte che da bambino sono entrato in una sagrestia… » Si era fatto tardi e Sergio propose di andare a dormire: «Domattina devo svegliarmi presto, devo andare dal prete a stordirmi un po’. » Ridemmo. «Mi ha fatto piacere fare questa passeggiata con te, mi ha
fatto star bene. Sai… le sigarette le avevo… era per attaccare discorso… mi ispirava la tua camminata». Gli chiesi se conosceva la piazza soprannominata delle tartarughe: «Abito lì, passa a trovarmi un giorno di questi se ti va, così chiacchieriamo un po’.» Gli diedi l’indirizzo e ci stringemmo la mano.
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