Fino ai ventisei anni cambiavo casa di continuo. Prima dietro a mia madre o mia nonna (il nocciolo della mia famiglia matriarcale e incasinata), poi per conto mio.
La “Regina dei traslochi” dicevo di essere, Dammi mezza giornata e t’inscatolo una vita.
I libri li portavo via per primi. Una volta, sbattendo la porta e uscendo impaziente dalla casa di un qualche fidanzato, ho abbassato i sedili della mia vecchia Suzuki Ignis (che macchina di razza!) e ho caricato tutti i miei libri sfusi nel portabagagli. Arrivavano fino al tettuccio, non vedevo niente e non sapevo come fare retromarcia. Un passante, che capì la difficoltà, mi venne in soccorso e, per stemperare l’agitazione, disse: «Puoi posarne qualcuno qui, sul marciapiede, nessuno se li prende!»
Il sottinteso alla sua dichiarazione era, come sempre è, che la gente che ha una vita dei libri non sa che farsene.
Le risposte del mondo editoriale a questa sciocca convinzione non mi hanno mai appassionata molto.
Le discussioni sulla quantità dei lettori in Italia (pochi), sulla quantità dei lettori di racconti (ancor meno), sul luogo comune per cui “tutti scrivono e nessuno legge” – ormai del tutto inutile, perché abusato proprio da quelli che, in effetti, prima di scrivere sarebbe meglio leggessero un po’ – non si muovono di un millimetro dall’ovvietà di quello che denunciano.
Trovo spesso ridicole le iniziative per incentivare la lettura (indimenticabile l’#ioleggoperché organizzata dall’AIE l’anno scorso, con i Messaggeri – i messaggeri! – che distribuivano per strada i libri da classifica).
Trovo inutile il dibattito sulle scuole di scrittura (l’omologazione e blablabla).
Trovo esasperante l’idea di snobbare la gente per quello che legge (Fabio Volo) o per quello che vede (Checco Zalone) e non per quello che è: qualcuno che ride di una certa battuta, una battuta che a te non farebbe mai ridere, neanche se la sentissi venir fuori dalla bocca del tuo intelligentissimo idolo, a cena fuori e ubriaca. (Dunque se qualcosa di sbagliato c’è non è in Fabio Volo o in Checco Zalone, ma nel tipo con cui hai scelto di andare a cena. E perché non lo molli e basta, e lasci in pace chi, invece, lo trova irresistibile?)
E trovo più dannosa di tutti la mitologia sul “lettore forte” che è questo tizio in gamba che legge almeno un libro al mese e grazie a lui l’editoria si tiene a galla, e nessuno che vada a domandargli: scusa, ma quale libro leggi?
Il problema dell’editoria italiana – è, da sempre, anche il problema del mondo della cultura tutta – è che crede di essere migliore. Di chi? Di cosa? Non si sa.
E in questa vaghezza spacciata per categoria filosofica si nasconde il difetto dell’obiettivo. Se l’obiettivo è far comprare più libri, perché così ci si tiene a galla, allora spacciarsi per migliori diventa un gioco disonesto.
Se l’obiettivo è, invece, mostrare a chi non lo sa che leggere e la vita non sono contrapposti, allora è falso insistere con la storia che per essere intelligenti e migliori bisogna leggere tanto.
Tutt’altro: bisogna leggere meno, e semmai leggere meglio.
Ed è nel leggere meglio che si può fare qualcosa. Qualcosa che non sia suggerire al prossimo di leggersi un bel classico, come se fosse facile, come se fosse un sempreverde buono per tutti. Come se stessimo davvero facendo una buona azione, un’azione utile, dicendo Dai, appena finisci di leggere quella cavolata di Fabio Volo ti presto Anna Karenina: vedrai che meraviglia!
Se lo facciamo non abbiamo capito niente. Oppure non abbiamo mai letto Anna Karenina.
Dunque per me va benissimo la pubblicità (Comprate tanti nostri prodotti, così diventate più intelligenti!) perché è nel gioco del mercato sedurre i clienti e perché io davvero non credo che pubblicare tanti libri faccia male a qualcuno e, se è per questo, neanche pubblicare libri scadenti. Ma la storia del ridicolizzare la gente che non legge almeno un libro al mese, perché sono più scemi, quella no.
Leggiamo di meno anche noi, piuttosto, e ri-leggiamo pure.
Così magari si risveglia qualche idea sopita, un modo migliore di vedere le cose, ci accorgiamo che andare a correre con la vicina che si porta in borsa dei titoli imbarazzanti non è poi così male e, d’incanto, a qualcuno di noi verrà in mente una cosa giusta da fare per rendere più interessante questa vecchia, stanca, buffa editoria.
[Messaggio privato]
Caro passante, mi sono trasferita nella casa nuova da un paio di settimane, i miei libri sono ancora tutti nella vecchia e, nonostante ciò, le cose vanno a meraviglia.
copiosi applausi anche di qui!
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Grazie! 🙂
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Mi hai fatto vedere le cose da un altro punto.
Credo che nella parte di società che si occupa di “cultura” ci sia una “spocchia” ben tenuta e ben coltivata fin dal liceo classico. Forse dovremmo iniziare a vederci come gente che vive nel mondo, piuttosto che prigionieri nella torre d’avorio.
Grazie per questo post!
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Grazie a te!
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[…] Il problema dell’editoria italiana – è, da sempre, anche il problema del mondo della cultura tutta – è che crede di essere migliore. Di chi? Di cosa? Non si sa.
E in questa vaghezza spacciata per categoria filosofica si nasconde il difetto dell’obiettivo […]
In tre righe hai concentrato il problema.
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Grazie (non era difficile!) 😉
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Interessante. Molto.
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Pingback: Virgawards – 7 – Virginiamanda
Riflessione originale.
Credo onestamente che i libri pubblicati oggi in Italia siano davvero tanti, non so se dirti “troppi”. Da insegnante, ti confesso che sentirmi dire “DEVI leggere quel libro, è un CLASSICO” mi ha sempre messo ansia. Io leggo libri che mi ispirano o che in quel momento ho voglia di leggere.
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