di Marco Terracciano
La paranza dei bambini non è Gomorra romanzo e non è Gomorra la serie: è una narrazione che prova a essere entrambi, ma non ci riesce. Ha i vizi dell’eccessiva premeditazione e la supponenza dell’opera definitiva sintesi di poetica letteraria.
Gomorra romanzo e Gomorra la serie sono storie che appartengono a due mondi narrativi opposti: l’uno è un racconto in prima persona scritto con sguardo retrospettivo e riflessivo, l’altra è un racconto scritto e girato con intenzioni mimetico-realistiche. La paranza dei bambini è l’una e l’altra cosa, ma ha evidentemente i difetti di un mash-up troppo costruito, realizzato – come si dice spesso ingenerosamente delle opere figlie di una certa idea di editoria – a tavolino: Saviano ha pensato a costruire un romanzo, non a rappresentare un mondo.
Fin dal primo capitolo si capisce che ha un problema con questa storia: non riesce a restituire, attraverso gli espedienti della costruzione romanzesca, il realismo delle paranze e della Napoli criminale; o meglio: non riesce a restituire realisticamente la plasticità dei tipi umani di quel mondo, il loro linguaggio e il loro sistema simbolico.
«Bastardi! O!!! O!!! Bastardi!!!» […] Un suono secco. Una “o” gutturale, scimmiesca, disperata. Chiedere aiuto è la firma alla propria codardia, ma quella sola lettera, che era poi la lettera finale della parola aiuto, sperava potesse essere intesa come una supplica, senza la massima umiliazione di doverla esplicitare.
Questo brano è perfettamente emblematico. L’uso reiterato dei tre punti esclamativi – e soprattutto la contrapposizione tra un primo “Bastardi” con un solo punto, e un secondo “Bastardi” con tre – e l’interiezione “Oh” monca di “h”, testimoniano la difficoltà di rendere efficace e sfaccettata la mimèsi del parlato dei ragazzini e dunque la necessità di sopperire a questa inefficienza attraverso una macchinosità sintattica e – espediente molto usato nel romanzo – attraverso una complementare spiegazione di taglio vocabolaristico.
Altro esempio:
Vai mettendo “mi piace” a tutte le foto di Letizia. Vai mettendo commenti pe tutt’e pparte, e quando vengo qui alla piazzetta mi guardi pure? […] – E secondo te quindi non ti dovrei vattere?
Il linguaggio non funziona: ai lettori napoletani questo dialetto italianizzato potrebbe risultare addirittura ridicolo e, considerato che il successo di Gomorra la serie ha introdotto un grandissimo numero di persone all’ascolto del napoletano vernacolare, scommetto che risulterebbe ridicolo anche a quelli non napoletani. È la difficoltà di cui parlavo prima: è un realismo col freno a mano tirato.
Di questo si rende conto lo stesso Saviano che infatti ci tiene ad aggiungere una nota a fine romanzo che comincia così:
Una delle sfide di questo romanzo è l’uso del dialetto. […] Non volevo il dialetto “classico” che è tuttora quello che, anche in termini di trascrizione, vige nelle opere dei poeti e degli scrittori dialettali. Ma al contempo volevo che di quella classicità ci fosse piena consapevolezza.
È dunque una sfida sentita, ed è una sfida persa.
La forza di Gomorra la serie sta nel dialetto, nella portata culturale e antropologica che i personaggi riescono a comprimere nel tempo di poche e lapidarie battute, nell’efficacia comunicativa di un’espressività mai filtrata, mai moderata o misurata ma sempre – anche nelle espressioni non necessariamente volgari – perfettamente funzionale al realismo di un contesto sociale. Il dialetto della serie non si auto-commenta, esprime un tipo, una psicologia, un mondo e non permette allo spettatore di ragionare sull’architettura mimetica, di vedere l’autore che scrive la sceneggiatura o la macchina da presa.
Altra questione: ne La paranza dei bambini la struttura di fiction è palesata, a differenza di Gomorra romanzo. Lo scarto fiction non-fiction di per sé non dovrebbe rappresentare anche uno scarto qualitativo: non necessariamente una narrazione non finzionale ha una densità e una forza maggiori rispetto a una narrazione inventata, a una “storiella”. Qui però questo slittamento si avverte, l’intreccio non è abbastanza consistente, ma, soprattutto, è il narratore a essere poco convincente. L’indiretto libero confonde e crea un linguaggio che nei brani più prossimi al dialogato si mescola alla cadenza italo-napoletana dei personaggi: il risultato è uno stile che Saviano non riesce a gestire e che forse non è nelle sue corde, a differenza di quello lucido e misurato che rende invece Gomorra un libro perfettamente coerente per il gioco di contrasti tra la violenza della materia e la distanza rabbiosa, morale e disincantata del narrato. Non a caso le parti migliori del romanzo sono quelle in cui Saviano si mette a distanza di sicurezza e commenta, descrive, analizza, si cala nei panni dell’intellettuale che empatizza con la miseria di Forcella e delle paranze, traendone momenti lirici e intensi: la madre di Nicolas, il ragazzino protagonista del romanzo che diventa il capo della sua paranza a contatto col sistema, dopo l’ennesima bravata del figlio capisce la sua situazione e non riesce a darsi pace:
Ch’aggio fatto? Torna al ferro da stiro con furia, e le pare che quello strumento, quel negozio, quel lavoro per pulire, rassettare, mettere in piega abbia anche a che fare con la sua opera di madre. Nicolas non ha paura, si dice, e ha paura di dirselo. Ma è così: lo vede. Quella faccia tutta baciata dalla giovinezza, tutta cielo, quella faccia non si lascia mettere in ombra dai pensieri cattivi, se li tiene sotto la pelle, e continua a cacciare luce. Per qualche tempo ha pensato di portarselo in negozio, dopo la scuola. Le viene persino da sorridere. Ma quale negozio, ma quale scuola. Pensa che forse sta bene dove sta. Ma dove sta? E per non lasciarsi contagiare dal brivido che sta arrivando sulla pelle, si rimette sulla porta del negozio, e si sente bellissima, gli occhi del mondo addosso.
Per chiudere: Gomorra è uno dei libri più importanti, intensi e sorprendenti della letteratura italiana degli ultimi decenni; La paranza dei bambini ha il merito, se non altro, di aver arricchito un immaginario che è solo di Saviano e che solo lui può raccontarci, nel bene e nel male; la forza di questo immaginario è sempre la stessa, ancora vivida e inesauribile.
In esergo c’è questo distico:
Ai morti colpevoli.
Alla loro innocenza.
Chi ha letto o visto qualcosa di Saviano sa cosa significa: tutti i criminali, i più efferati, i più sanguinari, i giovani e i vecchi aguzzini, assassini, spacciatori, i boss, i subordinati, le famiglie sovrane dei più pericolosi quartieri di Napoli, tutti, sono colpevoli, ma sono anche innocenti. Vittime di un ecosistema malato colpito dalla peste del sistema camorristico. È la verità più sconvolgente dell’immaginario di Gomorra, è inaccettabile, eppure è la cifra caratterizzante di tutte le narrazioni di Saviano: l’umanità, la vita, dietro a tutte le cose sporche e crudeli.
Guido Mazzoni, a proposito del romanzo “Le benevole” di Jonathan Littel, scrive:
«Così facendo [Littel ndr] varca una frontiera morale e si espone a quelle critiche di origine platonica che riemergono periodicamente nella storia delle arti occidentali: rappresentare il male senza apparati didascalici e senza biasimo manifesto significa legittimarlo. I recensori che hanno scritto questo sono molti.».
“Le benevole” è la storia, narrata in prima persona, di un ufficiale nazista che assiste o partecipa ad alcuni episodi decisivi della seconda guerra mondiale. Secondo Mazzoni la forza di questo libro sta nell’aver sondato una possibilità che è appannaggio solo delle arti mimetiche: immedesimarsi nella vita psichica di altre persone e dar voce – diritto di parola – a chi non ce l’ha, anche «a un individuo che ha perduto il diritto di essere chiamato umano.».
Questo è ciò che da anni fa Roberto Saviano, fomentando, com’è ovvio, le nuove forme di platonismo estetico secondo cui sarebbe indecente, amorale, inammissibile l’immedesimazione emotiva in un camorrista senza apparato didascalico. Eppure: cosa ci lasciano le sue opere? L’esperienza di aver vissuto per un po’ nella coscienza del male e aver capito che quella coscienza e un po’ come la nostra, solo più sporca, fuligginosa. L’immaginario di Saviano è uno scrigno dimenticato da cui è stata soffiata via la polvere, una montagna di polvere, ma che ora siamo in grado di aprire e dentro ci sono tempere, pupazzi e figurine: i giochi della nostra infanzia.