lettura, non prenderla come una critica
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Non prenderla come una critica – “Resto qui” di Marco Balzano

di Daniele Campanari

Premio Campiello tre anni fa con L’ultimo arrivato, finalista allo Strega quest’anno: è con Resto qui che Marco Balzano salva la storia di un popolo. Siamo a Curon, borgo della Val Venosta noto come il “paese sommerso”: una specie di Venezia che c’è già passata. La storia narra una suggestione portandoci nel 1950, anno in cui le località di Resia e Curon vengono sommerse dalle acque di un bacino artificiale. Un bacino discusso e movimentato, impedito come Balzano fa raccontare ai suoi personaggi combattivi a difesa dell’origine. Anche se i personaggi scappano come la gente. Guerra e inondazione: a Curon è venuta prima l’una e poi l’altra. Pure se l’autore si risparmia dal raccontare le cose così come sono andate, adottando altri punti di vista, preferendo la creatività della sua immaginazione. Quindi la storia ci dice che tutto è sott’acqua tranne il campanile della chiesa di Santa Caterina, lo stesso che appare sulla copertina del libro. Perché il campanile è un monumento e va tutelato, mentre gli uomini non sono monumenti, con l’acqua si fanno ruggine e vanno buttati.

Eravamo storia

Nella primavera del ’23 mi preparavo per l’esame di maturità. Mussolini aveva aspettato proprio il mio diploma per stravolgere la scuola. L’anno prima c’era stata la marcia su Bolzano, con i fascisti che avevano messo a ferro e fuoco la città. Hanno incendiato gli edifici pubblici, pestato gente, cacciato con la forza il borgomastro, e come al solito i carabinieri sono rimasti a guardare. Senza le loro braccia conserte e senza quelle del re il fascismo non ci sarebbe stato […] Mussolini ha fatto ribattezzare strade, ruscelli, montagne… sono andati a molestare anche i morti, quegli assassini, cambiando le scritte sulle lapidi.

Come Antonio Pennacchi in Canale Mussolini, anche Balzano parla del duce e delle sue “buone azioni”. Lo fa diversamente, chiaro; Pennacchi faceva dialogare i suoi uomini e le sue donne con la lingua del popolo, la lingua di quegli anni. Il contesto storico, però, è evidente e ben inquadrato dal punto di osservazione narrativo: siamo nell’epoca delle azioni e delle reazioni.

Il fascismo sembrava esistere da sempre. Da sempre c’era stato il municipio col podestà e i suoi tirapiedi, da sempre c’era la faccia del duce appesa ai muri, da sempre c’erano i carabinieri che venivano a mettere il naso nei fatti nostri e ci obbligavano ad andare in pizza per ascoltare gli annunci. Ci eravamo abituati a non essere più noi stessi. La nostra rabbia cresceva, ma i giorni correvano veloci e il bisogno di sopravvivere la trasformava in qualcosa di debole e sfibrato. Simile alla malinconia, diventava la nostra rabbia, non esplodeva mai. Sperare in Adolf Hitler era la ribellione più vera. Quella ribellione si faceva palpabile ai tavoli dell’osteria, nei ritrovi clandestini dove gli uomini si davano appuntamento per leggere i giornali tedeschi, ma svaporava quando soli nelle stalle mungevano le mucche e s’incamminavano verso la fontana a dissetarle.

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foto di ifrah akhter

Una e Trina
Allora Balzano si mette dalla parte di Trina, il personaggio fulcro, l’io narrante che aggiorna come con un diario il suo interlocutore – potremmo dire lettore – sugli accadimenti della cittadina, sulle armi dei tedeschi, sulla guerra che vede sfidarsi pedine e re come in una partita a scacchi; aggiorna sulle fughe sulle montagne, determinanti per un’area geografica letteralmente definita. I personaggi si fanno chiave per la serratura della storia e scandiscono i tempi dell’azione. Tempi piuttosto lunghi e sussultori, come vedremo più avanti. Intanto Trina vorrebbe fare la maestra: condizionale necessario per riconoscere che a quei tempi ogni desiderio non è un ordine.

La prima volta che ci ho parlato è stato nel cortile del maso. Pa’ faceva il falegname a Resia, ma anche a casa nostra sembrava essere di bottega. C’era sempre un viavai di gente che veniva a chiedere riparazioni. Quando gli ospiti se ne andavano, Ma’ brontolava che non si stava mai in pace. Allora lui, incapace di tenersi mezzo rimprovero, le rispondeva che non c’era proprio niente da brontolare perché un bottegaio lavora anche quando offre un bicchiere o fa quattro chiacchiere, anzi è così che si guadagna clientela. Lei per troncare la discussione gli tirava il naso, quel naso spugnoso che aveva Pa’
– Ti è cresciuto ancora, – gli diceva.
– A te invece è cresciuto il culo! – ribatteva lui.
A quel punto Ma’ s’infuriava: – Ecco chi ho sposato, un balordo! – e gli lanciava lo strofinaccio. Pa’ se la ghignava e le lanciava la matita, lei un altro strofinaccio, lui un’altra matita. Per loro lanciarsi le cose era volersi bene.

Balzano presenta Trina, la sua narrazione, in questa maniera. È importante soffermarsi sui dialoghi perché sono loro, più che la descrizione, a spiegare la relazione familiare. In questo caso, il susseguirsi delle azioni e il dettaglio linguistico conferma familiarità tra i coinvolti. L’elisione gergale Pa’ e Ma’, d’altronde, è la prova dell’uso della parola senza preoccuparsi della posizione dell’apostrofo. Detto in altro modo: parla come mangi se sei a casa tua.

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foto di daria nepriakhina

Periodi brevi o brevi periodi
Certo il dialogo non è tutto in questo romanzo. Un romanzo potrebbe essere interamente introspettivo, a prova di pensiero, e funzionare ugualmente. Dipende dalla capacità di coinvolgimento della scrittura. Così come tutto non può essere circoscritto nella lingua dei personaggi o nella forza del narratore di diventare il protagonista che parla. Quanto detto trova conferma evidenziando un’altra delle caratteristiche della narrazione: il tempo. Proprio come un metronomo fondamentale per uno strumento musicale, la scrittura necessita di ritmo, note alte e basse, pause; insomma di una forma d’onda che respinga o coinvolga a partire dal momento. Nelle brevi righe riportate sotto troviamo brevi periodi che risultano necessari per affidare concitazione alla lettura. Come in questo caso l’attenzione rivolta a un nome:

«Abbiamo inghiottito il rospo di aver combattuto con gli austriaci per ritrovarci italiani. Siamo riusciti a fare tutto questo perché eravamo convinti che fosse l’ultima guerra. La guerra per eliminare le guerre».

Se fossero state inserite interpunzioni differenti dal punto fermo il messaggio non sarebbe arrivato allo stesso modo. Con tale forza comunicativa almeno. Qui serviva chiusura alle frasi, una pausa affinché si permettesse di respirare dopo essersi messi a conoscenza di fatti importanti. In basso, nelle prossime tre righe, si conferma la diga d’interpunzione. Stavolta con un po’ di poesia.

«Fuori c’erano grappoli di stelle che a guardarle mi facevano perdere nel pensiero che niente fosse vero».

«Le nostre bocche sputavano nebbia».

«Quando il buio si arrampicava sulle montagne restavo a guardare il cielo cercando di trattenere la luce».

Decollo lungo e capitoletti
Per un certo tipo di lettore i capitoli brevi o lunghi possono decidere l’acquisto di un libro o l’altro. Alcuni hanno bisogno di una boccata d’aria o soltanto di assimilare quanto letto. Fatta la considerazione, in Resto qui la divisione in capitoletti di cinque o sei pagine al massimo permette questa pausa tra una scena e l’altra. È di scena che si parla proprio come fossimo a teatro: sotto al palco lo spettatore posiziona i tasselli, compone le parti dello spettacolo, forma il giudizio finale. Qui è lo stesso, ecco perché parliamo di atti e capitoletti visto che per ogni chiusura numerica corrisponde un momento apparentemente discontinuo. In ogni caso, ce ne vogliono cento di pagine per arrivare all’azione, per ottenere l’effettivo decollo da una pista d’atterraggio forse troppo lunga. Il pilota-scrittore avrà steso il romanzo estromettendolo dalla fretta di raggiungere la meta. Giusto. Il problema si pone per alcuni lunghi passaggi senza particolari picchi d’azione, tanto che dopo il decollo si rischia più volte lo schianto sul “paese sommerso”.

 

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