di Giacomo Faramelli
Una sera una ragazza in un locale mi ha detto: «Sei umbro? Per me l’Umbria è tipo l’Islanda».
Non so, ho risposto, queste son domande che non posso farmele.
Per me casa mia, l’Umbria, è sempre stata quella descritta da Sebastiano Vassalli:
Alla finestra vedo solo “monti azzurri”, le rocce “strati su strati”, quasi profili di pagine del libro squinternato del mondo: e mi ricordo le parole di Dio, ciò che lui disse a Sibilla: “Questo è un paese dove ho molto sofferto. Qualche traccia del mio sangue è rimasta tra le rocce, lassù”.
L’Umbria è la terra d’elezione dei santi. I santi hanno fiuto per le cose di dio, figuriamoci per il suo sangue: qui, in queste colline a tratti dolci come una scollatura, a tratti dure come montagne himalayane, i santi ci hanno fatto la cova, il nido. E i loro eredi, sparuti o solitari pensatori francescani, residuati hippy, discendenti di colossali dinastie mitteleuropee fondano da secoli spazi di preghiera e meditazione, persino nuovi ordini monastici, nelle campagne punteggiate di ruderi dell’Appennino. Di là case per bonzi, lassù i piccoli fratelli di qualche scritto, oltre la cresta i pauperisti dell’ultimo delirio. Tutti intenti a cercare di tirare dalla propria parte autoctoni e indigeni riluttanti.
Una lotta impari contro un popolo di bestemmiatori incalliti, anticlericali, eppure animato da una religiosità primitiva, totalizzante, pagana. Forse ha ragione lo psichiatra Vittorino Andreoli, che dopo un giro per le feste patronali dell’Umbria ha serenamente deciso che “Qui Dio è fatto di mistero non di logica. Di poesia non di sillogismi”.
Un Dio antico e casalingo, come noterà Curzio Malaparte nei suoi anni di guerra tra le alpi e il fronte francese, combattuta tutta assieme agli umbri della Brigata Alpi:
Discorrevano di Dio e dei Santi con una singolare familiarità, ma senza ombra di sacrilegio: come di persone di famiglia, come di compaesani. Per quelli di Gubbio, Dio era di Gubbio. Per quelli di Passignan del Lago, Dio era di Passignan del Lago.
Un dio a oggi perso e confuso tra i ninnoli delle bancarelle, i bus arrancanti tra santuari e monasteri, scaduto a oggetto di facile consumo che della mistica pazzia dei vecchi non ha più nulla. Tutto appiattito dal gusto generale arrivato in onde di marea fin sull’Appennino.
Non è un caso che l’Umbria sia la regione con la più alta incidenza di fiction a carattere religioso d’Italia, dunque dell’intero universo antropizzato.
Don Matteo arrivò nella mia città con lo stesso impatto che potrebbe produrre uno sbarco di alieni grigi in una domenica di sole a Central Park. A distanza di ormai venti anni dalla messa in onda della prima puntata vedo ancora decine di comitive gonfie di ottuagenari spingersi oltre i limiti tracciati dalla cardiologia moderna su per le salite di Gubbio: alla ricerca della casa, della chiesa, dello spirito di don Matteo.
L’intera città è ancora pervasa dalle note della sigla. Una singolare risonanza di un minuscolo big bang da prima serata.
Più di ogni altro evento mediatico la fiction del prete detective coi carabinieri amici di tutti ha tracciato un solco, cambiando il paradigma umbro nell’immaginario collettivo: al tempo degli sceneggiati e documentari Rai terra di gotico severo, di medioevo feroce, un Game of Thrones ante litteram, con i comuni al posto delle casate, ora trasformata in una ridente contea tolkeniana abitata da hobbit benevoli e un po’ tocchi, gente che sbaglia per caso, corretta da un Gandalf in abito talare, capace di magie incredibili (come percorrere scalinate ripidissime in sella a una bici nera).

foto di samuel zeller
«Ed è bella l’Umbria? Non ci sono mai stata.»
«Io penso di sì, ma parecchi dei nostri non se ne accorgono più.»
Perché se hai letto le pagine di Guido Piovene sull’Umbria, anche se non ci abiti sai una cosa importante: “Con le sue millenarie infiltrazioni, l’arte ha saturato gli animi. Tutti qui vivono nell’arte, consapevoli o inconsapevoli”.
Non so quanti umbri o quanti turisti, quanti commessi viaggiatori o quanti degli studenti dell’università di Perugia siano consapevoli di tutto il bello che li circonda, per esempio. Non lo erano nemmeno i giornalisti e i cameraman che si arrampicavano sui fregi di pietra del tribunale di Perugia in attesa delle sentenze del processo Kercher.
L’unico altro evento che abbia prodotto un racconto sull’Umbria negli ultimi anni è stato un omicidio maturato in ambito universitario. È così che Perugia è diventata lo scenario di una versione tartufata di Meno di Zero di Bret Easton Ellis.
Una città di studenti universitari sociopatici, affetti da turbe psichiche e dipendenze di varia natura, dediti all’eccesso e consapevoli di vivere in una strana teenage wasteland libera dalle leggi o dalle regole degli adulti, che ha lasciato in eredità un (bel) documentario su Netflix, polemiche, strette concentriche alla movida, la sensazione di una pressione crescente intorno a tutto quello che non si conforma agli standard del nuovo brand Umbria.
Un’identità collettiva composta da artigianato, arte e cibo, storia e folklore millenari. In fondo l’Umbria dei Gran Tour era la metà selvaggia dell’inflazionata Toscana.
Eppure c’è sempre qualcosa di misterioso che si muove nell’ombra, un’enorme serpe d’acqua che striscia tra le spighe di grano e i cespugli del bosco, nelle inquietudini che ne animano certe impercettibili riluttanze come se ogni cosa qui fosse stata creata per essere vista ma da una distanza definita dall’uso e dalla tradizione. Una vibrazione tirata allo scoperto dalle folate di tramontana scese giù dalla foce dei monti, raffiche di vento capaci di tagliare la faccia nei giorni in cui il freddo, come lo descrive mirabilmente il critico Emilio Cecchi, è “da rannicchiarsi sotto al cappello e tenere alzato il bavero del cappotto. Quel freddo umbro-toscano che spacca le pietre, e odora lontanamente di polenta dolce e castagne arroste”.
Ecco sì, questa è un’immagine a cui tengo molto. In Umbria, in tutta la sua storia, nel misticismo pagano e nei suoi riti confluiti con riluttanza nel cristianesimo, nei suoi inverni lunghi sei mesi, fatti di vento gelato e cieli troppo lividi per nevicare, c’è un anticipo di ogni altra nostalgia futura. Si vive in preparazione della rinascita, dei suoi riti, o per dirla come Sandro Penna, in attesa di respirare e vivere “la celeste luminosa aria della primavera umbra”.
Robe per contadini e camminatori solitari abituati a capire il cielo dall’odore. Umbri meravigliosi, un po’ matti un po’ feroci. “Tutti così, tutti matti. Erano uomini pieni d’estro e di coraggio meravigliosi, e, insieme, di pazienza. Ma anche quella straordinaria pazienza era una forma della loro pazzia”. Curzio Malaparte lo aveva capito. Ascoltiamolo ancora, sfrondando superomismo e spirto guerrier ch’entro gli rugge:
E mi accorsi poi, nei tre anni che rimasi nella Brigata Cacciatori delle Alpi, in gran parte formata di soldati umbri, che non soltanto quelli di Gubbio, ma quelli di Perugia, di Spoleto, di Città di Castello, di Umbertide, di Terni avevan tutti, dal primo all’ultimo, e chi più chi meno, un ramicello di quella singolare pazzia che molti, chi sa mai perché tengono in conto di misticismo, e chiamano spirito virgiliano, ascetico, serafico, francescano […] Tutti matti, non c’era da dubitarne: ma più degli altri quelli di Gubbio e di Città di Castello, che dicevano “tulì”, che dicevano ”tulà”, che dicevano ”tascapène, capitèno, mi ha fatto mèle” e si aizzavano, si mordevano, si azzuffavano tra loro, sempre ridendo, sempre vociando, ed erano i più strani soldati che io avessi mai potuto immaginare.
Il cielo come un riflesso della terra, i santi per parenti e i vicini di valle come nemici secolari, la primavera come compleanno, ogni anno dall’inizio dei tempi, tutti matti, disincantati e speranzosi, tutti silenziosi ringhianti urlanti, specchio di ogni altro italiano questi umbri, immagine di mezzo dell’Italia intera questa regione di ombre e aria luminosa.
foto di copertina di ember ivory
Un bellissimoa rticolo, lo sottoscrivo in toto, grazie
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Grazie mille,
Giacomo Faramelli
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Un bell’affresco di questa terra, a tutto tondo, con i paesaggi fatti di luoghi e persone che si sfumano gli uni negli altri.
Grazie.
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grazie mille Rebecca, ti aspetto in Umbria!
Giacomo Faramelli
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Mi commuovono le parole che hai trovato per parlare della nostra terra. E che tu abbia richiamato quello che ne ha detto Malaparte, in ‘Benedetti Italiani’, nel parlare di noi: ‘Per quelli di Gubbio, Dio è di Gubbio’. Grazie.
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Grazie mille per la lettura appassionata,
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Giacomo Faramelli
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Da marchigiana adottata dall’Umbria quasi 20 anni fa, complimenti!
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grazie Silvia.
ANche io ho sangue marchigiano, seppur di confine, e sempre montefeltresco! 🙂
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