Il 29 Dicembre scorso, Antonella Cilento scrive su Repubblica un articolo intitolato: C’era una volta la letteratura, oggi solo libri senza stile:
Ognuno ci racconta dei suoi genitori scomparsi e della strada a ritroso che si fa per capirli e capirsi, di come ha avuto un figlio (ohibò, ho partorito), di come si è ammalato di tumore (caspita, si muore? L’ultima parola sulla questione l’aveva scritta un certo Tolstoj ma non importa), di come è difficile tessere relazioni (e mica tutti abitano a Cime tempestose, al massimo in un’ordinata periferia dove si gioca a playstation), di come è difficile essere padri, se si vuol restare bambini (e anche Barrie ha vissuto invano).
Analizziamo questo passaggio. La prima cosa che salta all’occhio è l’avversione del critico verso una precisa tendenza della letteratura italiana contemporanea. «Ognuno» a inizio frase sta per: gli scrittori di oggi sono indistinguibili; «ci racconta dei suoi genitori scomparsi» sta per: ci rende partecipi dei fatti suoi; le citazioni in sequenza di Tolstoj, Cime tempestose, James Barrie stanno per: è lecito che si ritorni sugli stessi temi dopo i grandi classici? C’è un problema dietro questo attacco. L’aperta contrarietà non è un’emozione che nasce per caso. È una reazione eloquente, il riflesso automatico di chi si sente pungolato da un certo tipo di immaginario. Una critica reattiva – non necessariamente ostile – dimostra che è dentro questo immaginario che facciamo le nostre esperienze più forti, è con questi traumi che facciamo i conti. La letteratura, con buona pace di chi vorrebbe goderne come fosse fuori dal tempo, ci dà la possibilità di elaborare i simboli e le attese del nostro mondo attraverso la condivisione di storie individuali. Il racconto dei padri, del «viaggio a ritroso che si fa per capirli e capirsi», del lutto per malattia, è uno dei riti fondamentali del nostro esorcismo privato.
Tra le pieghe del dibattito si annida, però, anche il problema opposto, un entusiasmo eccessivo motivato forse dalla sete di tracciare una sintesi culturale che sia ben leggibile. I figli che scrivono dei padri sono molti, sono un tassello importante del puzzle di valori contemporaneo, ma difficilmente rispondono in modo ordinato e finalistico al nostro bisogno di chiarezza. Il senso di questo entusiasmo lo esprime bene Paolo Di Paolo, sempre su Repubblica, che firma, il 30 Ottobre 2016, un articolo che si chiude così:
I romanzi di Giagni e Grossi [Prima di perderti e Il passaggio n.d.r.] convincono per l’asciuttezza, per un rigore che non lascia spazio, finalmente, all’ironia (quella che la generazione di mezzo – i padri, appunto – ha sparso a palate su tutto, per nascondere l’ansia di fuga, i segni della sconfitta, per nascondere soprattutto una dannata paura). […] Una staffetta che sembrava bloccata può forse riattivarsi. Più per merito dei figli, a quanto pare, che dei padri spinti spalle al muro, costretti a lasciar cadere almeno la maschera sorridente, sorniona, ironica indossata troppo a lungo. E a invecchiare, se non con autorevolezza, almeno con un po’ di serietà.
I figli-scrittori, secondo Di Paolo, stanno riattivando la staffetta generazionale rivolgendosi ai padri per abbatterne le difese. Un movimento unidirezionale, quindi, un’assunzione di responsabilità virtuosa che renderebbe concreta l’utopia della cancellazione del conflitto. I nuovi figli chiamano in causa i padri, inarcano le sopracciglia e li sfidano con serietà, ma il duello dura poche pagine. Basta una breve epifania e «sospendono la lotta»: hanno imparato, finalmente, a comprenderli.
Eppure, che il conflitto generazionale sia sul punto di risolversi grazie a una nuova leva di scrittori è una tesi difficile da accettare, così come è difficile restare impassibili davanti allo scetticismo di chi crede che parlare dei padri sia un modo come un altro per far prendere aria alla bocca. Raccontare la ‘staffetta’ è, certamente, un’esigenza imprescindibile della nostra letteratura ed è il nucleo narrativo di alcuni dei romanzi più belli e interessanti degli ultimi anni; il passaggio di testimone, però, è ancora una delle operazioni più drammatiche che gli uomini sono chiamati a compiere. La cifra tragica di questo duello è più viva che mai in molte storie del nostro tempo.
Nei prossimi paragrafi, allora, proverò a leggerne qualcuna attraverso singole immagini rappresentative e in compagnia di personaggi che fanno i conti con la figura paterna in modi allo stesso tempo opposti e complementari.
Fatto a pezzi dal padre
L’animale che mi porto dentro di Francesco Piccolo, 2018
C’è un’immagine nell’ultimo libro di Francesco Piccolo che mi piacerebbe osservare da vicino, proiettarla su un telo e inquadrarla, zoomarla, regolare i toni e la luminosità. La scena è quella di un ragazzino preso a calci e pugni da suo padre. Questo ragazzino, racconta Piccolo, subisce quasi quotidianamente le scariche violente dell’uomo adulto, si copre la faccia mentre sta a terra e cerca di incassare senza riportare danni seri. La madre piange, ma non interviene. «Mi picchiava non solo per rabbia, ma anche per convinzione. Era sicuro che così bisognasse fare». Mi piacerebbe prendere le misure di questa violenza domestica per capire le ragioni della riflessione seguente:
Eppure non c’è nulla che abbia scalfito con un solo graffio l’amore, l’ammirazione e infine la tenerezza che ho avuto per lui in tutta la vita. […] Non so perché, non ho mai dato troppo peso a quella violenza. A tutte le volte che mi ha picchiato. Alla furia con cui mi inseguiva per casa, mi stringeva in un angolo e cercava di colpirmi in faccia, o con calci sui fianchi scoperti.
Il suono dei colpi, la fatica dei corpi, la paura sui volti: tutti elementi che darebbero concretezza alla sensazione che ho della tragicità e della significatività di un’operazione narrativa che va dalla descrizione del dramma di un ragazzino picchiato alla riflessione sulla sua conseguente «indolenza», «distrazione» e «mancanza di partecipazione», le tre emozioni chiave – tutte maschili secondo Piccolo –, che hanno contraddistinto il suo percorso di crescita.
Non che questo non sia possibile, a un primo livello, con la sola lettura. L’animale che mi porto dentro se ha un grande pregio è proprio quello di rendere assolutamente verosimili le cose che racconta, pur con tutte le sue contraddizioni. Forse, però, quello che si cela come non detto dietro alle parole – non detto che potrei magari illuminare con un fermo-immagine –, è il dramma dell’uomo adulto, un aggressore spietato vittima della sua stessa violenza. Il libro è una confessione che cerca di grattare via la crosta che si forma sull’anima di chi ha ricevuto un certo tipo di educazione per poterla finalmente sbriciolare sporcandosi le mani. Come si fa a provare tenerezza per un padre così? Come si fa a dimenticare tutti i torti subiti, a ignorare le tracce lasciate sulla pelle? È assurdo, ma è possibile, ed è possibile perché gli credo. La prosa di Francesco Piccolo è una prosa credibile.
Fare a pezzi il padre
L’uomo che tremadi Andrea Pomella, 2018
Quando era poco più che un bambino, Andrea Pomella, narratore de L’uomo che trema, subisce il divorzio dei suoi genitori. Il padre si innamora di un’altra donna ed è la causa principale della separazione. Qui, in questa crepa, si insinua il quesito originario, il seme da cui è germogliata una pianta apparentemente storta: in che modo il bambino decide di difendersi dalla tempesta emotiva che lo travolge? La risposta di Pomella è questa: il bambino da passivo diventa attivo, compie il passaggio dalla condizione di abbandonato a quella di abbandonante. Si rifiuta, per i successivi quarant’anni, di averci a che fare. Pomella racconta tutto ciò con una lucidità notevolissima, dedica un intero capitolo alla concettualizzazione di questo meccanismo. Ho capito, attraversando l’esattezza di una narrazione che è un unico grande ragionamento, che fare a pezzi il padre è qui la possibilità di sbriciolare il rapporto filiale con una semplice operazione di rimozione, recidendo un legame che ha nella mente e nella memoria il vero collante, non nel sangue:
Sono passati quasi quarant’anni dall’ultima volta che ho visto mio padre. Questo ho detto al medico psichiatra quando ha voluto vederci chiaro in quella mia frase generica: «Ho avuto un’infanzia travagliata»; quando mi ha domandato «In che senso?»; quando gli ho risposto «Parliamo dell’abbandono del padre». Ora, il medico psichiatra immaginava che per «abbandono del padre» intendessi il figlio abbandonato dal padre, e non l’esatto contrario.
Ma non si fa a pezzi il padre come se fosse un bicchiere di vetro. La storia della depressione del figlio comincia a partire da questa illusione, dalla convinzione ingenua che i cocci infranti siano fatti di una materia che non gli appartiene. L’uomo che trema è un racconto di distruzione e rigenerazione, di distruzione come condizione necessaria alla rigenerazione.
Accudire il padre
Un bene al mondo di Andrea Bajani, 2016
Un bene al mondo di Andrea Bajani è un romanzo quasi evanescente, ha uno stile soporifero che è il risultato della perizia studiatissima con cui sono disposte le frasi, periodi leggeri costruiti seguendo un ritmo di fiaba. Non ha molta forza, non è una storia d’impatto, ma c’è un aspetto che lo rende, per quanto mi riguarda, indimenticabile. Bajani racconta di un posto ai limiti del reale in cui le persone camminano per strada portando a spasso i propri dolori come fossero animali domestici:
C’era un bambino che aveva un dolore da cui non voleva mai separarsi. Se lo portava dappertutto, ci attraversava il paese per andare a scuola tutte le mattine. Quando arrivava in classe, il dolore si accucciava ai suoi piedi e per cinque ore se ne stava senza fiatare.
Se l’intreccio, alla fine della lettura, può facilmente risultare dimenticabile, la trovata di attribuire sembianze canine ai dolori delle persone è qualcosa che non riesco a togliermi dalla testa. Così come non riesco a togliermi dalla testa quella che è di certo la scena più rappresentativa del libro: un padre affida al figlio la custodia del proprio dolore, diventato, dopo anni di trascuratezza, selvaggio e ingestibile. Un pomeriggio l’adulto ha una rivelazione, capisce che il bambino ha una sensibilità diversa dalla sua, una capacità di gestione della propria emotività che può salvarlo dall’autodistruzione. Il gesto, così come lo racconta Bajani, è quasi una violenza. Il padre entra nella camera del figlio, vi introduce il proprio dolore che salta sul letto, divora le lenzuola e interrompe la serenità del bambino per richiamarlo a un dovere che non pensava di avere. La vita comincia nel momento in cui il patto generazionale si salda. È il capitolo più pesante e più denso del libro, l’immagine più convincente.
Indossare il padre
Vita e morte di un ingegneredi Edoardo Albinati, 2012
Ho già avuto occasione di scrivere di questo libro, perciò mi è estremamente chiaro individuare la chiave che permette di decodificare il suo apparato simbolico: il corpo. Anche Vita e morte di un ingegnere è il racconto in prima persona di un figlio che fa i conti con il proprio padre. È un padre sfuggente quello di Albinati, è l’ombra di una relazione affettiva, un guizzo di ironia e indifferenza. Talmente ambiguo e impenetrabile che, dopo la sua morte, il figlio ha l’impulso inderogabile di indossare i suoi vestiti per capire se è possibile avere la percezione almeno di un calco del suo corpo:
Mentre i tratti del suo volto, e soprattutto il naso segnato da una gobba, erano molto caratterizzati, non ho mai saputo di preciso quale fosse la sua taglia e solo poco tempo fa, provando alcuni suoi vestiti, ho avuto la conferma dell’inafferrabile conformazione fisica di mio padre. […]Ora io sono ben piantato e un po’ più alto di com’era lui: eppure mi infilavo le sue giacche e ci ballavo dentro. Cerco allora di ricordare, di immaginare il corpo che riempiva quelle giacche, le riempiva fino agli orli. Mi è difficile.
Come raccontare questo grande segreto? Perché al figlio non è data la possibilità di svelare le fattezze del padre quando è ancora in vita? Com’è possibile che la verità non stia nella materialità di un corpo, bensì nella sua assenza? Albinati prova a rispondere a queste domande raccontando prima di tutto la miseria del corpo, filtrando il suo rapporto col padre attraverso la presa d’atto che la carcassa che ci portiamo dietro per tutta la vita non è altro che una carcassa, che lo scorrere del tempo, una malattia, può sbriciolare la materia, può annientare la fisiologia senza, però, portarsi via un grammo del segreto che covano dentro le persone. Specie i padri.
Raccontare il padre
Via Gemito di Domenico Starnone, 2000
Per concludere il viaggio, l’immagine che ho tratto da Via Gemito è questa: a un certo punto del racconto, Starnone riflette sulla sua condizione di scrivente. Gli si rompe il computer su cui sta scrivendo vita, morte e miracoli di suo padre «Federì» (uomo violento ed esibizionista, un impiegato delle ferrovie completamente assorbito da una spropositata ambizione artistica). Lo porta a riparare afflitto da una sensazione costante di perdita e smarrimento e, quando si rimette a lavoro, pensa questo:
Tutte quelle parole sullo schermo, un numero impressionante di caratteri che compendiavano fatti, luoghi, tempi. Sono qui a casa mia, sono per via Casanova e in piazza Nazionale, mi appoggio su un ginocchio dolente per aiutare mio padre a dipingere un garzone di muratori, sono mio padre stesso e mia madre, sono persino mio nonno, don Mimì. Quante cose sono. Se premo il tasto che ordina “cancella”, divento niente: né nome né sesso di cui si sappia, solo la nebulosa di uno schermo guasto.
Raccontare il padre, mi sembra allora di capire, è un po’ come raccontare se stessi. Anzi è qualcosa di più. Starnone dà una voce narrativa al padre, gli permette di ‘inchiostrarsi’ per sempre, gli fornisce una dignità letteraria e, così facendo, trova il punto prospettico attraverso cui guardarsi dentro. Il racconto è qui strumento di salvezza e di realizzazione, cioè il dispositivo grazie al quale un uomo costruisce, frase dopo frase, la propria identità. Identità che, quindi, è frutto di un’esigenza non oggettiva, ma affabulatoria. Raccontando il padre il figlio si invera ed elimina, finalmente, il genitore dalla sua coscienza. Mimì, ottenebrato per tutta la vita dal brusio di Federì, si libera di una presenza che nel corso della sua vita ha interrotto costantemente il flusso dei suoi pensieri, saturando a priori l’elaborazione personale delle sue esperienze.
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