di Marco Terracciano
Mi è difficile spiegare o anche semplicemente raccontare il modo di vita dell’uomo che era mio padre. Per far questo bisognerebbe penetrare nel suo carattere, capirlo, e io mio padre non l’ho mai capito.
Vita e morte di un ingegnere (Mondadori, 2012) è il racconto di uno scrittore, Edoardo Albinati, che dopo la morte del padre prova a capire cosa quest’uomo sfuggente, misterioso, inafferrabile ha significato per lui quando era in vita. L’ordine o il disordine eventuale, il figlio spera di trovarlo scrivendo un memoriale sotto forma di diario personale.
In un’intervista alla trasmissione La compagnia del libro di Saverio Simonelli, (TV2000, Marzo 2012), ad Albinati viene posta questa domanda: «Nel libro lei dice che di fronte al letto di morte di suo padre ha provato vergogna perché in quel momento stava prendendo come degli appunti mnemonici».
La domanda in effetti è implicita, Simonelli ci tiene a sottolineare: «è un passaggio molto intenso» ed è proprio questo eccesso di cortesia, quasi a tutelare l’imbarazzo dell’intervistato, che smaschera l’intenzione: “Ma che cosa le è venuto in mente? Ma le pare normale che lei si metta a prendere appunti mentali mentre suo padre sta morendo?”.
Vita e morte di un ingegnere è un libro che tematizza questa vergogna, tematizza i silenzi, le difficoltà di interazione tra i membri di una famiglia, tra un padre e il figlio. È un libro che fa della vergogna il nucleo emotivo e narrativo della storia, il sentimento nel cui cono d’ombra si mostrano e si nascondono i personaggi.
Albinati, nell’occasione, è una maschera di cera, la sua espressione racconta meglio di una quarta di copertina qual è il tono del libro: quello di chi attiva e disattiva autonomamente l’interruttore dello spettro emotivo.
Se esiste un corpo, voglio toccarlo.
A un certo punto del libro Albinati ricorda il giorno in cui, da piccolo, insieme al fratello, scopre una pila di riviste pornografiche in camera dei genitori. Momento imbarazzante, c’è tanta sorpresa ma soprattutto una cosa lo colpisce in modo particolare:
In un certo senso, il giorno che scoprii le riviste scoprii anche che mio padre esisteva, era una persona in carne e ossa e non una figura virtuale costruita dalle nostre proiezioni.
È la prima volta che nel racconto si parla di corpo in termini di carne e ossa, è il pretesto per introdurre una delle scene più rappresentative di tutto il libro:
Non era un bell’uomo ma poteva dirsi di aspetto gradevole. […] Il corpo di mio padre era di strana consistenza e alquanto indefinibile. Mentre i tratti del suo volto, e soprattutto il naso segnato da una gobba, erano molto caratterizzati, non ho mai saputo di preciso quale fosse la sua taglia e solo poco tempo fa, provando alcuni suoi vestiti, ho avuto la conferma dell’inafferrabile conformazione fisica di mio padre.
La situazione è particolare: il figlio ritrova nella memoria tutto quello che ha sempre saputo di suo padre, e non è molto. Ritrova i gesti, i particolari del viso, una strana calvizie e poi qualcosa di indefinibile riguardo al corpo. Indossa così gli abiti del padre scomparso e, nonostante la sua fisicità più consistente rispetto a quella che un tempo li vestiva, Albinati ha l’impressione di ballarci dentro. Semplicemente non gli stanno. Com’è possibile, si chiede:
Ora io sono ben piantato e un po’ più alto di com’era lui: eppure mi infilavo le sue giacche e ci ballavo dentro. Cerco allora di ricordare, di immaginare il corpo che riempiva quelle giacche, le riempiva fino agli orli. Mi è difficile.
Le giacche larghe sono neutre, conformiste, sono la metonimia di una generazione di uomini fattivi e sfuggenti, «una razza al tempo stesso serissima e scanzonata, di pionieri del benessere e fumatori accaniti» come recita la quarta di copertina. Una vita intera a rincorrere un corpo, prima di tutto, perché è nel corpo che il figlio spera che si riveli suo padre, l’illusione pragmatista che le cose comprensibili hanno sempre una consistenza tattile, tangibile. Eppure in quei vestiti non c’è niente, e può sembrare scontato ma quel che cerca il figlio è anche solo un profilo, o meglio un calco del corpo del padre.
Albinati però a un certo punto fa esperienza di quel corpo invisibile. È un momento che cronologicamente avviene prima della scena dei vestiti, ma nel racconto non a caso è descritto subito dopo. Ciò che rende possibile l’avvicinamento prima soltanto agognato è il dramma del cancro.
Solo assistendolo malato ho percepito le forme di mio padre, il volume del suo torace, quella massa candida e lentigginosa, tenera, livida, che avevo visto mille volte al mare ma che non potrò ricordare se non nell’ultima immagine, non potrò ricordare altro che quella schiena bianca suturata di rosso, mentre mio padre tiene le braccia alzate affinché io gli sfili dalla testa la canottiera fradicia, e in quel gesto di martire la carne gli dondola sotto le braccia, si gonfia soffice alla base del collo dove c’è ancora un po’ di tono muscolare attirando tutto il mio sguardo. E io debbo vedere tutto questo finalmente e comprendere.
Eccolo, un piccolo bagliore di comprensione. Davanti al corpo fatto a brandelli dalla malattia, Albinati figlio comprende. Ha potuto finalmente toccare il corpo, accarezzare il corpo, sondarlo, esaminarlo, annusarlo, accompagnarlo nel disfacimento. Il cancro ha arrestato la corsa senza scopo apparente del padre, ma ne ha restituito un corpo martoriato, quasi inattendibile. Eppure la cosa spiazzante è che c’è qualcosa che la malattia ha invece «potenziato», un particolare del carattere (il lato che lui chiama «bizzarro» e che lo porta a ironizzare a volte in modo grottesco perfino in fin di vita) che nonostante il declino fisico è cresciuto fino ad apparire, agli occhi della moglie, disumano.
Mia madre si lamenterà sempre più spesso, e alla fine si dispererà credendo di scoprire che mio padre non era affatto l’uomo che lei aveva conosciuto e amato, e saranno delle scene strazianti quando mia madre capirà che l’atteggiamento di mio padre non è una posa, non è affatto un atteggiamento ma piuttosto è la più riposta e intima e fedele immagine della sua interiorità. E allora fingerà di non averlo mai saputo, di aver sempre creduto che sotto quella scorza vi fosse un altro uomo. Sarà uno strazio quando lei penserà che mio padre non è più lui per il semplice fatto che si comporta esattamente come si è sempre comportato. La sua ironia, che in vita era considerata l’amabile difesa di un timido, nei pressi della morte verrà considerata da mia madre la prova di un animo sconsolatamente arido. […] Mia madre sperava che la morte portasse a galla i tesori sepolti nell’anima di mio padre, senza capire che il tesoro era appunto quell’acqua limpida.
La ricerca del figlio è, per l’Albinati scrittore, sintetizzabile nella ricerca del corpo; la comprensione, però, arriva a partire dall’assenza, non dalla presenza: mio padre, oggi, nel suo letto di morte, non è il suo corpo, ma le sue fughe, la sua impalpabilità, l’ironia che non è strategia, sentimento che nasconde, ma l’indole profonda che rivela.
Se questo è il corpo, che finisca in cenere.
Verso la fine del libro c’è la descrizione meticolosa degli istanti che precedono la morte del padre:
Allora succede, è proprio vero che si muore, pensavo, e questa, questa davanti a me è la morte, tra poco mio padre non ci sarà più, sarà freddo e morto per sempre, e in un certo senso ero curioso, lucidamente curioso di vedere e provare e toccare con la mano la morte, un fascino strano e ardente mi pervadeva fin nel profondo, dopo tante cose appena accennate e appena abbozzate, tante mezze verità, speranze confuse, dopo una vita di chiacchiere e cose discutibili per l’eternità, dopo una lunga e tormentosa attesa stava succedendo ciò che non era mai successo, l’arrivo della morte, la fuga della vita.
È difficile restituire l’enormità che in quelle poche pagine travolge chi legge, l’enormità di vita e di morte, di caos e formidabile lucidità, la smisurata distanza tra due uomini.
C’è tanto altro in quelle righe ma la distanza è la cosa che impatta con più forza, perché è una distanza spaventosa, e lo si capisce dal controllo quasi disumano della descrizione, la paura muta e imperturbabile e la disperazione più fitta che si possa leggere. Un uomo guarda gli ultimi istanti di vita di suo padre e non cerca la catarsi! È una maledizione che è stata tramandata di padre in figlio, è la maledizione, la trincea dei sentimenti, la prigione dell’afasia emotiva. Il più chiaro residuo di identità comune è la cosa che rende di fatto impossibile la comprensione reciproca.
Sono pagine terribili proprio per quest’assenza inspiegabile di catarsi, né personale né artistica: Albinati guarda, ricorda, descrive, e il momento della morte è costantemente rimandato (così è stato nella stanza d’ospedale e così dev’essere restituito in forma discorsiva), non ci sono lacrime, non c’è immedesimazione, non c’è climax e quando la morte arriva, nel modo tremendo in cui arriva, al rigo successivo già si parla d’altro. E non è un “altro” lasciato al caso. L’argomento che destituisce la catarsi è l’annullamento definitivo del corpo del padre, la cremazione.
Sulla cremazione termina il libro, ma la scena conclusiva è l’apparizione di due enormi arcobaleni dopo il funerale, uno dentro l’altro: a sorpresa Albinati tenta una sintesi, e questa sintesi è la sconfitta del corpo come chiave di lettura del mondo e dell’uomo.
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