lettura, non prenderla come una critica
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Non prenderla come una critica – Naviga le tue stelle di Jesmyn Ward

di Valentina Grotta

Naviga le tue stelle è un piccolo libro, pubblicato da NN Editore, contenente il discorso che la scrittrice Jesmyn Ward ha pronunciato alla cerimonia di consegna dei diplomi alla Tulane University nel 2018.

Nel 2017, per il discorso pronunciato per il National Book Award dedicato alla fiction, la scrittrice si scusava perché per l’emozione era costretta a leggerlo dal cellulare. Solo un anno dopo, Ward fa tutto a memoria, senza pause o incertezze, senza leggere e senza apparente emozione.

Una bussola per il futuro

I discorsi del diploma sono una consuetudine americana consolidata e spesso arrivano oltreoceano sotto forma di pillole di incoraggiamento (come dimenticare – nonostante tutto – lo “stay hungry, stay foolish” di Steve Jobs o il discorso di Jim Carrey sulle scelte dettate dall’amore e dalla paura?). Mai facilmente replicabili, soprattutto dalle nostre parti, questi discorsi hanno spesso una struttura narrativa da manuale. Il personaggio principale – il protagonista, l’eroe – parte da un mondo ordinario, viene richiamato da qualcosa – un ideale, una passione -, rifiuta il richiamo, ha dei mentori, supera diverse prove – alcune sembrano addirittura fatali – affronta i nemici, la prova centrale e poi, incarnata dalla sua stessa presenza su quel palco, c’è la resurrezione. 

Una bussola nell’oscurità

Naviga le tue stelle esce a dicembre del 2020 e contiene sentimenti e riflessioni che provengono dal 2018, quando niente di tutto quello che doveva succedere nell’anno appena trascorso era immaginabile, nemmeno per una scrittrice. Tutti i passaggi della storia che viene raccontata sono quelli classici che abbiamo elencato prima, chissà se adesso serviranno altri schemi. Lo stiamo imparando. Ma nel frattempo, nel discorso proveniente dal 2018, Ward narra prima di tutto le ragioni del suo richiamo iniziale:

Sono cresciuta in Mississippi, in una comunità povera, rurale, e prevalentemente nera. Tutta la mia famiglia (…) ha vissuto lì per generazioni. (…) Ma io avrei fatto scelte migliori. Non avrei vissuto il resto dei miei giorni in una cittadina di campagna, lottando per andare avanti, ammazzandomi di lavoro.

La scelta migliore sarebbe stata studiare. Ward racconta poi della decisione di fare la scrittrice, e di tutte le piccole decisioni intermedie, i passi minuscoli e quelli più ampi, gli aggiustamenti, le deviazioni dal percorso, gli ostacoli e i mentori che è stata costretta ad affrontare. Poi ci sono i mostri:

Un guidatore ubriaco finì contro l’auto di mio fratello e lo uccise: quel giorno ha cambiato tutto. Misi in dubbio tutto quello che pensavo di sapere (…)

E dunque, oltre all’ombra lunga della schiavitù, della sudditanza psicologica, della mancanza di educazione scolastica e cultura della sua famiglia, Ward si è dovuta scontrare anche con la perdita. Così si susseguono lavori modesti, la depressione causata dalla perdita delle persone amate, il vuoto che ne consegue, e l’apparente inutilità di ogni desiderio. Ma poi Ward si rialza, si rimette seduta a leggere, molto, e poi, qualche anno dopo, a scrivere. In questo discorso agli studenti confessa di non essere stata una studentessa brillante, di non essere stata il genio che credeva.

È vero che le storie più edificanti, quelle alle quali ci rivolgiamo per ricavarne degli incoraggiamenti, sono sempre storie di vittoria, di chi ce l’ha fatta a dispetto degli ostacoli, di chi si è rialzato. Chi fallisce il proprio obiettivo non lo racconta, o lo fa narrando il fallimento come un piccolo errore necessario, che lo ha portato a una vittoria da qualche altra parte. Dove sta allora il fallimento se lo consideriamo solo il passo verso una vittoria che sta altrove? Come al solito si tratta di punti di vista. 

“Fallisci ancora, fallisci meglio”, dice Samuel Beckett, ed è così che trascorriamo una vita, fallendo, forse non ce ne siamo ancora accorti.

Il turning point

Nel discorso del 2018 i diplomati vengono avvisati che non è solo studiando che si ottengono le cose; è già una decisione importante, sì, ma non è la sola. E ancora: non è solo lavorando sodo che si ottiene quello che si vuole. Sì è fondamentale, ma non è abbastanza.

La storia cambia quando alla volontà iniziale di affrancarsi da una famiglia ignorante e povera la Ward aggiunge la perdita di giudizio. Solo nel momento in cui, riguardando indietro, non giudica più con disprezzo quello che ha il suo racconto diventa universale:

“Li ho guardati e tutto il disprezzo che avevo covato per le loro vite si è dissolto e si è tramutato in comprensione. Ho capito cosa significa fare del tuo meglio con quello che ti è stato dato”.

Nel momento in cui ha sentito la compassione per chi era venuto prima di lei che Ward ha acquisito davvero le risorse per agire la vita, e per diventare una scrittrice. È forse questo l’unico strumento che possiamo ricavare dal fallimento o dalla vittoria (qualunque cosa esse siano): la possibilità di agire.

Reversibile

In questo piccolo libro non c’è quindi solo la retorica di un personaggio (una persona) che viene abbattuto e si rialza dieci, cento, mille volte, ma la potenza di una rappresentazione che si fa carico potenzialmente di un gruppo, di tutti quelli che non possono raccontare: i suoi parenti, relegati da sempre negli spazi angusti decisi dai bianchi, ma anche delle altre donne nere. Quando finalmente Ward opera questa apertura al mondo, questo le dà la possibilità che accada anche il contrario: ovvero che sia il mondo a rivelarsi a lei.  E può succedere nei momenti più duri.

Purtroppo, infatti, per la scrittrice gli ostacoli non sono finiti. Sul numero 465 de La Lettura, uscito il 25 ottobre del 2020, Ward scrive:

“Il mio Amato è morto a gennaio. Era circa trenta centimetri più alto di me, aveva bellissimi occhi grandi e scuri e mani capaci e gentili. Ogni mattina mi preparava la colazione e tazze di tè in foglia. (…) Me ne stavo in quarantena nella mia soffocante camera da letto, e credevo che non sarei mai più riuscita a smettere di piangere. La rivelazione che i Neri d’America non erano soli in battaglia, che altre persone nel mondo credevano che le vite dei neri contano, Black Lives Matters, ha spezzato definitivamente qualcosa dentro di me, una convinzione immutabile, che mi ero portata dietro per tutta la vita. (…) È la stessa convinzione che l’America nutre da secoli con sangue fresco, la convinzione che le vite dei Neri abbiano lo stesso valore di un cavallo da tiro o di un muro da soma.”

E dunque, anche se siamo tutti abbastanza conformisti da privilegiare la visione di chi vince rispetto a chi è sconfitto, dobbiamo permettere alle storie di essere reversibili. Così, nei momenti di fallimento, in cui siamo a terra, potremo accettare di buon grado di essere risollevati da una storia che viene da fuori che permette di rompere la convinzione che saremo sempre come siamo oggi. 

Il racconto di Jesmyn Ward è così onesto che ci fa vergognare di ammirare solo i vincenti. E sebbene venga pronunciato da una scrittrice affermata come possiamo non considerare anche  tutte le altre cose: il razzismo, la povertà, il lutto? È probabile che dobbiamo rivedere i nostri concetti di vittoria e fallimento e magari riportare tutto alla dimensione umana delle fasi della vita. E tra le varie fasi, tra gli alti e bassi che la vita costantemente ci ripropone, senza darci il tempo di goderci i primi o di elaborare i secondi, c’è lo spazio per vedere l’altro.

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