interviste, scrittura
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La prima cosa scritta

5 domande a partire da una fotografia: quella del primo testo scritto. Le prime parole delle quali scrittrici e scrittori hanno deciso di fare qualcosa, o quelle che hanno mostrato loro che scrivere era ciò che volevano davvero (e in cui davvero riuscivano). La svolta nella loro formazione, anche se in un momento iniziale, e nel loro percorso autoriale.

A cura di Francesca de Lena. Intervista di Francesca Ceci.
Risponde Azzurra D’Agostino.

Questa è la prima pagina di un lungo poemetto scritto di getto nel 2002, poi pubblicato per I Quaderni del battello ebbro l’anno seguente, in una plaquette dal titolo dialettale che significa: “Da nessuna parte”.

Cosa questa foto racconta del testo e cosa racconta di te?
Questa foto racconta il primo testo in cui ho capito che era successo qualcosa. Che avevo intravisto una traccia per terra, o sentito un suono che guida, o la lucina nel bosco buio. Da molti anni, o forse per la prima volta, non conducevo io un testo, non ero presente sulla pagina, ma ero in ascolto totale. Quello che è ritratto nella foto, e tutte le pagine a seguire del poemetto, è proprio quello che è uscito dalla penna in quel momento. Un momento che ricordo molto bene. Ero come sotto dettatura, e mi commuovevo, sembra stupido lo so, per quelle parole che sembravano non venire da me, dalla mia volontà. Mi chiedevo, ma da dove arriva, da dove arriva tutto questo? È stata una grandissima liberazione, ed è stato sorprendente quando poi rileggendo mi sono accorta che il testo non era un semplice sfogo (lo avrei tenuto per il mio diario). Ero stata visitata dalla poesia. Sì, sembra orfico magari e un po’ naïf, ma non so descriverlo altrimenti. In realtà è poi quello che accade quando leggi qualcosa che ti parla davvero.

Chi eri e cosa facevi, o cosa volevi fare (e fartene del tuo scrivere) quando l’hai scritto?
Era un anno circa che ero bloccata. Avevo venticinque anni. L’anno prima avevo fatto mi pare quattro-cinque giorni di laboratorio di scrittura di poesia con Mariangela Gualtieri. Mi ero resa conto che davvero avevo bisogno di tacere, rompere il mio schema di scrittura (molto barocco, adolescenziale, muscolare), e fare un salto nel buio. Un anno in cui ho sofferto molto. Sia perché tutto quello che scrivevo lo trovavo sbagliato, lo buttavo, e questa cosa mi frustrava enormemente, sia personalmente. A venticinque anni, non so perché, mi ero fatta l’idea di dover sapere esattamente cosa fare della mia vita, scegliere, decidere, concretizzare, e sentivo soprattutto il desiderio di scrivere, ma questo non era un modo di stare al mondo davvero pensabile per me in quel momento. Ho combattuto con questa sensazione per moltissimi anni, credo che tuttora per me sia una sfida aperta la questione di ‘concedermi’ di scrivere.

Come e quando questa prima cosa scritta si è trasformata in una tua attitudine di vita o in un mestiere?
Il poeta non è un mestiere. Forse lo è lo scrittore, di più, sì, direi che lo scrittore (quello di narrativa, ma anche chi lavora con le parole in teatro, nel cinema) ha anche delle caratteristiche vicine a un lavoro come si intende in genere. Con delle scadenze, degli impegni collaterali da gestire, una specie di ritmo, delle aspettative esterne, un mercato. La poesia non l’ho mai vissuta così. In parte, perché proprio non c’è molto di questo nella poesia, quantomeno italiana di oggi (il che non vuol dire che non ci sia una comunità, anzi!), ma anche perché non me lo sono permesso molto a lungo. Facevo di tutto pur di non dedicarmi pienamente alla scrittura, e soffrivo perché dicevo di voler soprattutto scrivere, ma poi nel concreto facevo altro. Avevo, a volte ho, molta paura. È stupido a pensarci bene, ma siamo abbastanza stupidi in effetti. Mi sono resa conto, e non solo per i racconti degli scrittori ma proprio sulla mia pelle, che la scrittura ti chiede molta dedizione. Molto tempo. Proprio pensarci tanto, costantemente. Una specie di ossessione. Non chiede niente di meno che tutta la tua vita. Come ogni cosa fatta davvero con passione, la si patisce anche un po’. In modo gioioso, come se non lavorassi mai in un certo senso, perché quel lavoro è ciò che ti fa stare meglio in assoluto. Certo, il discorso di campare, le bollette eccetera, vale, ma fino a un certo punto, secondo me comunque è un po’ una scusa.

Quanto di questa prima cosa scritta è ancora parte del tuo modo di scrivere?
Direi per le parole abbastanza semplici, che poi fanno una specie di vortice intorno, per come sono messe forse, per il ritmo del suono. A volte, in poesia soprattutto, perdo il senso di quello che dico, seguo il suono e basta, e solo in seguito scopro quello che ho scritto veramente. È una cosa molto appagante e sorprendente. Smetto di pensare, e questo mi dà una specie di sollievo. Non c’è niente che ‘voglio’ dire quando scrivo una poesia. Mi sono accorta poi che anche in prosa il meglio viene quando volti le spalle alle idee, come dice la mia amica drammaturga Rita Frongia.

Cosa ne è stato di questa prima cosa scritta? È entrata in un libro? È rimasta in un cassetto? La scriveresti allo stesso modo? Se no, cosa non scriveresti più così?
Il libro, una plaquette che contiene poesie in lingua e in dialetto delle mie zone (Appennino tosco-emiliano) è nato attorno a questo poemetto ed è stato pubblicato nel 2003. Credo che il poemetto sia ancora un buon poemetto. Oggi penso che avrei meno influssi così evidenti (di sicuro la Gualtieri, che appunto nel 2000 per me fu un incontro importante), e poi l’uso di certe parole à la Rosselli, un’ingenuità che ora mi fa sorridere. Nel complesso, sono grata a questo testo, per me rappresenta un punto di svolta nella mia scrittura e nella mia vita.

Azzurra D’Agostino ha pubblicato varie raccolte di poesie, albi per bambini, curato antologie e traduzioni, scritto per il teatro. Nel 2021 è uscito il suo primo romanzo per ragazzi, “Il giardino dei desideri”, per DeA Planeta Libri.

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