fuoricollana, scrittura
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Sovvertire le narrazioni: altri personaggi per nuove storie

stereotipo
/ste·re·ò·ti·po/
aggettivo:
fig., a proposito di una ripetizione o di una fissità immutabile.
Sostantivo maschile:
In psicologia, qualsiasi opinione rigidamente precostituita e generalizzata, cioè non acquisita sulla base di un’esperienza diretta e che prescinde dalla valutazione dei singoli casi, su persone o gruppi sociali.


Credo di aver imparato il significato del termine “stereotipo” in prima media quando, alla sua comparsa in aula, la prof. di educazione artistica (si chiama ancora così?) dichiarò che l’obiettivo dell’anno sarebbe stato imparare a disegnare liberandoci degli stereotipi infantili, e smettere dunque di fare casette sproporzionate, strisce di cielo azzurro a cui appendere spicchi di sole e bambini-stecchini con teste tonde. Ma il concetto esisteva in me già da qualche tempo: quando avevo sì e no 7 anni le maestre iscrissero la mia classe, in cui eravamo tutti bianchi e riconducibili a un’idea di “autoctoni”, a un concorso per promuovere “la pace nel mondo”, o “contro la povertà”. Non ricordo esattamente la dicitura, fatto sta che ci venne richiesto di presentare delle poesie o altri elaborati. Quel giorno ero un po’ annoiata, nient’affatto creativa o ispirata, ma le maestre si aspettavano che producessimo qualcosa. Diedi loro ciò che volevano, sentendo una certa vergogna addosso: disegnai un pianeta terra abbracciato da un coro di bambini presi per mano tra loro. I bambini erano l’esatta riproduzione di quello che avevo visto in giro come “diversità etnica”: un bambino cinese con il cappello a cono di paglia e il codino, una bambina con un copricapo di piume, un piccolo inuit (“esquimese”, si diceva allora), eccetera.
L’imbarazzo che sentivo nel fare quel disegno così ovvio e scontato derivava dalla consapevolezza, ovviamente acerba, di fare qualcosa di già visto mille volte, qualcosa esattamente così come ce lo si aspettava: la fotocopia di qualcosa che mi era già stato consegnato. Ero stata pigra e non avevo messo in moto alcun ragionamento, alcuna rielaborazione che creasse un qualcosa di autentico.

[Ovviamente il mio terribile disegno fu premiato, con mio enorme sgomento davanti alla capacità degli adulti di non saper giudicare un elaborato né dal punto di vista dell’originalità né, tanto meno, da quello della rappresentazione delle diversità. Forse quest’ultimo pensiero non lo feci davvero, all’epoca (ma l’imbarazzo durante la serata di premiazione -tra pantomime, pietismi e black face– sì, ricordo che lo provai)].

Riconoscere lo stereotipo è un qualcosa che si impara con gli anni. L’idea, però, era già lì, in nuce: la stereotipizzazione narrativa (in questo caso, illustrativa) è un processo di riduzione, di semplificazione di un concetto: mi hanno mostrato che una certa categoria di persone diverse da me è così → quella rappresentazione diventa il campione sempre utilizzabile, poiché riconoscibile. Certo, il cervello umano è stato programmato per utilizzare gli stereotipi come difesa dai pericoli (gli stereotipi non sono altro che bias cognitivi) quando abitavamo una società radicalmente differente (e non si è evoluto in maniera altrettanto rapida). Ma non posso farmi bastare un meccanismo creato per compiere delle scelte rapide sulla base di scarse informazioni né nel momento in cui realizzo un’opera di finzione, né nel qualunque racconto di una storia d’oggi (per restare solo nell’ambito che ci riguarda, cioè quello della fiction).

Il mestiere, dopotutto, è il risultato di un allenamento alla consapevolezza.

Cambiare idea sulle vecchie storie

La ragione per ci affezioniamo e facciamo fatica a staccarci dalle storie, specie nelle lunghe narrazioni (come quelle seriali), sono i personaggi che le abitano: in Complex Tv Jason Mittel, parlando del rapporto tra spettatori e personaggi delle serie, ha individuato la possibilità dell’accesso a stati d’animo generati dall’ “accumularsi di segnali esteriori che possiamo vedere o sentire”. Il discorso è articolato, inserito all’interno di una disamina dei meccanismi che determinano la relazione tra chi guarda e chi “vive” la storia. Ma ciò che mi interessa ora è questa idea estremamente “fisica”, una restituzione sensoriale del personaggio: cosa riconosciamo in quei corpi che parlano, agiscono, si manifestano, esistono in un certo modo? Di quali elementi abbiamo bisogno per sviluppare empatia?

I personaggi si possono guardare “allo specchio”, come conferma e riconoscimento di sé, o a distanza, “da una finestra”: quante volte ci siamo riconosciuti negli eccentrici esseri umani dipinti da Wes Anderson? Probabilmente poche: sono costruiti appositamente per esaltare una caratterizzazione che si allontani dal quotidiano e dall’immediata relatability (parola ardua da tradurre, ma che indica qualcosa di immediatamente relazionabile a sé, per somiglianza e affinità). Ma li abbiamo forse trovati meno veri, meno interessanti, meno degni depositari delle nostre emozioni? Perché non può accadere lo stesso con dei personaggi dalla corporeità che non assomiglia a chi li osserva?

Come la critica Marina Pierri riporta nel suo Eroine, è necessario un esercizio attivo della nostra immaginazione e una sollecitazione dell’empatia laddove qualcosa non ci riflette in una forma immediatamente familiare:

In Against Interpretation and Other Essays, lunga invettiva contro la critica che privilegia il contenuto e dunque la comprensione cerebrale a discapito della forma e dell’esperienza sensoriale, Susan Sontag asserisce: “Quel che conta adesso è riscoprire i nostri sensi. Dobbiamo imparare a vedere di più, udire di più, sentire di più”. […] per godere di qualcosa si può vibrare assieme a essa senza necessariamente farla propria.

In altre parole: possiamo osservare e raccontare una realtà più ampia di quella che abbiamo conosciuto finora, rinunciando a forme preconfezionate e privilegiando l’osservazione, per una restituzione anche corporea e sensoriale del mondo (manipolato e fatto nostro, certo, ma pur sempre mondo popolato da umani).

In questo lungo pezzo scritto per Internazionale, Claudia Durastanti parte da Donald Draper e altri personaggi della serie cult Mad Man, che incarnano tutto il sessismo della società Americana degli anni ’50-’60, per arrivare fino alla figura di Amy Winehouse; mentre procede per giustapposizioni, suggerisce un approccio non scontato per un cambio di paradigma rispetto alle visioni che poco s’intonano ai giorni nostri:

Quand’è che pure lo spettatore più disinteressato a certe idee di giustizia sociale, di correttezza verso gli altri e a un’equa rappresentazione di una vasta gamma di persone nelle opere di fiction, comincia a sentirsi distante da alcune visioni patriarcali o razziste? Quando rinunciare a quella nostalgia, e alle letture del passato, non ha più un costo così elevato. Quando viene meno un senso di lunghissima mancanza, che è il modo in cui nella cultura occidentale veniamo educati a leggere i romanzi e a guardare i film: attraverso il filtro dell’inconsolabile perdita.

Il cambiamento nelle modalità di lettura delle opere del passato, opere che abbiamo amato e che risultano problematiche per varie ragioni a distanza di anni dalla loro uscita, avviene spesso in maniera inconsapevole, sostiene l’autrice. E avviene quando si abbandona la convinzione fin troppo radicata che cambiare idea, parzialmente o totalmente, su un’opera (specie se è un classico) equivalga a un tradimento imperdonabile dei propri valori (e dei valori condivisi da una determinata comunità alla quale apparteniamo): leggere Lolita di Nabokov da adulti, afferma, non produce gli stessi sconvolgimenti e pensieri che causava da adolescenti, ma instilla nuovi dubbi e differenti turbamenti, senza smettere di essere un’opera portatrice di bellezza.

E, per quanto io incoraggi e auspichi sempre un cambiamento di queste modalità di fruizione attivo e consapevole (almeno in chi desidera parlare dell’oggi attraverso le storie di finzione senza troppi bias -inevitabili, ma riconoscibili), sono d’accordo su un aspetto: le nuove storie, e di conseguenza i nuovi personaggi, si fanno strada da sole quando sono forti, quando sovvertono e generano riflessioni inedite, quando problematizzano in maniera inconsueta. Quando riescono, insomma, a manipolare e trasformare il reale contemporaneo, le vite di oggi nelle loro dettagliate differenze, per immaginare una nuova e potente narrazione.

Il gioco funziona quando invece di meditare su tutto ciò che abbiamo perso, ci lasciamo incantare dalle forme nuove, seducenti e inevitabilmente ambigue che abbiamo conquistato. Anche lì ci saranno parole scorrette, cattivi inammissibili e comportamenti che fanno schifo, ma spetterà ai nuovi lettori innamorarsene per poi, forse, farsi venire un dubbio, e ricominciare tutto da capo.

Flip the script: adottare nuove visioni

archetipo
/ar·chè·ti·po/
sostantivo maschile
1.
Primo esemplare assoluto e autonomo, modello.


Come strutturare queste narrazioni? Come far “esplodere i miti, immaginando l’inimmaginabile”? La pratica dell’ascolto è certamente tra le prime a cui ricorrere: non accontentarsi, dicevamo, né come spettatori né tanto meno come autori e autrici, di visioni già date come buone, specialmente nella narrazione di tutto ciò che differisca dalla norma (bianca, occidentale, cis-gender, eterosessuale, abile, ecc.). Nutrirci di storie meno mainstream rinvigorisce la scrittura, anche quando si va a parlare del conosciuto e del familiare: un esempio fra i tanti è la scrittura di un personaggio come Saul Goodman nello spin-off di Breaking Bad: una mascolinità che non esce dai suoi riquadri ma viene delineata attraverso modalità originali. Ancora una volta, il come vince sul cosa.

Non si tratta, come qualcuno potrebbe obiettare, di politicamente corretto, ma di, per citare un’espressione che Antonia Caruso utilizza nell’antologia Queer Gaze, una rappresentazione umanamente corretta: scrivere i personaggi come se fossero persone, esseri umani.

Ancora: interrogarsi sui corpi e le relazioni fra i personaggi, sul sensoriale e sul vissuto è un approccio che accorcia le distanze e permette non tanto l’identificazione, che non è fondamentale ai fini di una buona storia, ma la restituzione di un materiale umano. E, infine, navigare gli archetipi per evitare gli stereotipi, o la stereotipizzazione narrativa, cioè la riproposizione di ciò che ho già visto e che do per assodato. Utilizzare gli archetipi come strumenti-bussola, guide da riempire di ragionamenti complessi. Per sovvertire le narrazioni comuni e cercare di far esplodere nuovi miti.

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