Immaginando una graduatoria di forme narrative ordinate per potenza d’impatto, la musica occuperebbe il primo posto. I livelli di coinvolgimento e riconoscimento che suscita sono estremamente corporei: i bassi si sintonizzano sui suoni interni, le terminazioni nervose si allertano, il ritmo ci muove, le endorfine esplodono. Con la musica siamo sensi e unità senza scissione.
Siamo corpi che sentono.
L’immersività dell’esperienza musicale appartiene anche al cinema, alle serie TV, ai podcast: ovunque ci sia una colonna sonora che si intreccia con la narrazione si innesca una reazione emozionale. Altissimo punto di pregio artistico, infatti, è riuscire a mettere insieme la linea musicale e sonora di un prodotto visivo e farla dialogare con le scene. Potrebbe essere un discorso molto personale, intimo, ma in effetti lo sono anche la fotografia, la lingua, le ambientazioni, i costumi. Le storie sono fatte di scelte, e le scelte che caratterizzano questa storia partono proprio da lei, dalla musica.
1971: The Year That Music Changed Everything
Un punto di forza di 1971: The Year That Music Changed Everything, la docuserie Apple di Asif Kapadia, Danielle Peck e James Rogan, è che pure privata delle immagini sarebbe una gran serie da ascoltare, a mo’ di podcast, a tutto volume. Sembrerebbe un’affermazione sminuente ma non lo è. Se le immagini ci aiutano, infatti, a ricostruire una visione di quel passato, sono le voci narranti che si intrecciano con le canzoni a creare un coinvolgimento totale e a tratti ipnotico. Otto episodi per sei ore di viaggio in un’epoca attraverso l’ascolto delle voci che quell’epoca l’hanno vissuta, sperimentata, fatta.
Asif Kapadia, affiancato da James Gay-Reese – con cui aveva già vinto l’Oscar nel 2015 con Amy– e dai registi Danielle Peck e James Rogan, esplora il momento in cui il ventesimo secolo cambia radicalmente, come dice David Bowie nell’ultimo episodio: “We were creating the 21st century in 1971”. Pop, rock ma soprattutto cultura di massa. Quello che vediamo in queste immagini d’epoca scolorite sono esplosioni di un immaginario ancora vivo e dotato di potenza inaudita, veicolate da un livello di creatività e di capacità di lettura del momento altissimi.

Tratta dal libro di David Hepworth, 1971. L’anno d’oro del rock, la serie riprende la ricerca dell’autore cambiando forma e struttura alla narrazione, spostandola dalla cronologia rigorosa del libro, diviso in capitoli legati ai mesi dell’anno (con tanto di consigli d’ascolto a fine capitolo per la gioia dei fan della decade) a un’esperienza di visione immersiva e totale, e rimaneggiandone il contenuto, più concentrato sulle vicende degli artisti e sull’universo musicale in senso stretto, spostando il focus in una struttura che si inarca ad accogliere la narrazione storica.
Dal punto di vista creativo, la docuserie di Kapadia è un prodotto che spicca per arte e costruzione. Il montaggio è tutto nei documentari, è la regola numero uno, che in questo caso vale più del solito. A un lavoro di editing certosino ma mai rigido è affidato il filo conduttore che unisce tutti i filmati d’epoca, molti dei quali inediti, e le canzoni i cui testi compaiono sullo schermo, così da aggiungere anche la lettura all’esperienza di fruizione. Lo spettatore non viene condotto per mano e guidato nella visione, ma si ritrova a dover ricostruire i salti tra un argomento e l’altro. ppure non fa fatica, perché l’effetto che sortisce la narrazione è quello di circondarti da tutte le parti, investire tutti i sensi.
Le voci che sentiamo in sottofondo alle immagini sono vecchie e nuove, voci che oggi non ci sono più e voci che da oggi ci raccontano l’allora. Niente interviste, niente ricostruzioni, nessuno seduto a tre quarti che parla inquadrato da una telecamera fissa di lato. In 1971 a parlare è la rivoluzione culturale di quegli anni, che a quanto pare, a differenza di quello che cantava Gil Scott-Heron, “has been televised”.
La vediamo infatti, oggi, dai nostri schermi televisivi.
La narrazione di un’epoca: uno spaccato socioculturale
La sigla della serie si apre con tre immagini fondamentali dell’epoca: Nixon, lo sbarco sulla Luna e la guerra in Vietnam. Il Vietnam, in particolare, risuona in tutti gli episodi come base del malessere e innesco del potenziale contestativo di quegli anni. Non è una scelta casuale, nel cestone delle scelte possibili, quella di Kapadia, perché se c’è un elemento a cui si legano tutti i temi trattati è quello della rottura, dello scontro, del conflitto, della violenza reale e percepita.
Gli anni ’60 erano finiti malissimo: il massacro della Kent State University, il disastro del concerto gratuito di Altamont e la fine del sogno hippy, lo scioglimento dei Beatles, Charles Manson, la paranoia che imperversava. Gli Stati Uniti, su cui la docuserie si concentra, sono stati luogo di un rapido e progressivo percorso di cambiamento socioculturale tuttora in atto, e quello che vediamo in 1971 è la narrazione delle voci che in parte si sono inserite e hanno raccontato, in parte hanno effettivamente innescato quel cambiamento in quel preciso momento storico. Gli autori si sono chiesti come rappresentare tutto questo uscendo dai confini del documentario musicale e muovendosi in un territorio più vasto. Centinaia di ore di girato e voci creano questo saggio cucito insieme la cui tesi è chiara forse solo alla fine, nella carrellata di immagini finali che sanciscono una verità: tutto quello che abbiamo visto in queste sei ore è quanto mai attuale.
Kapadia ha affermato in diverse interviste come il team si sia trovato a fare un lavoro giornalistico, quasi investigativo, di ricostruzione, con l’obiettivo di rendere il momento senza eccesso di marcatori di direzione: siamo nel 1971, camminiamo per quelle strade, catturiamo le connessioni. È la giustapposizione di immagini e canzoni a conferire un senso organico alla narrazione.
E così i filmati di An American Family, documentario televisivo e antesignano del reality, dialogano con le voci di Carol King, Joni Mitchell ed Elton John nella rappresentazione della crisi della famiglia nucleare. Il processo di Angela Davis si lega alla canzone di protesta di Gil Scott-Heron, la cui potenza interpretativa risuona attualissima. All’origine dell’hip-hop, infatti, ci sono pezzi come “No knock”, un brano che vediamo scorrere sullo schermo in cui si parla degli abusi nei confronti dei neri da parte della polizia, autorizzata dalla così detta no-knock warrant a fare irruzione nelle case senza bisogno di avviso – senza bussare – al solo “sospetto”. Lanciata da Nixon nel 1970 durante la campagna federale di “Guerra alle droghe”, perpetrata da Reagan negli anni ottanta, la no-knock warrant è una pratica fortemente associata alla militarizzazione della polizia, e le vittime innocenti di questa pratica non ne hanno mai giustificato l’applicazione. Sembra scritto l’anno scorso questo brano, sembra si stia parlando del caso di Breonna Taylor. E invece era il 1971.

La costruzione del racconto di protesta
Gli episodi in cui vengono fuori le proteste antirazziste sono forse i più potenti, attualissimi. Al centro del quinto episodio c’è il caso dell’omicidio di George Jackson, un rivoluzionario e membro del Black Panther Party, ucciso nel carcere di San Quentin dalla polizia penitenziaria solo una settimana dopo essere riuscito a diffondere clandestinamente il suo testo, Con il sangue agli occhi. C’è un’intera sequenza al centro dell’episodio che parte dalla risposta della madre di Jackson alle accuse della violenza contenuta negli scritti del figlio:
“Questa è la storia di questo Paese. Prendono la loro violenza e te la ritorcono contro. Ovunque nel mondo ci sono soldati americani. Quante persone sono state uccise in Vietnam, quanti neri vengono uccisi ogni giorno, un’intera nazione di nativi americani è stata spazzata via, e loro parlano di violenza?”
Georgia Bea Jackson
Gli occhi di questa donna composta e misurata che racconta una rabbia ferocissima – rabbia su cui ancora oggi, da tutte le parti del mondo, si fa una gran confusione, rabbia che viene ancora oggi condannata, tacciata di “far passare dalla parte del torto”, la sacrosanta rabbia negata a tutti gli oppressi della terra – introducono la rivolta di Attica e l’attentato dei Weather Underground con Leonard Cohen in sottofondo che canta “Avalanche”, e tutta la tensione si addolcisce in un passaggio dallo schermo nero che si apre sulle immagini del funerale: una bandiera azzurra con la pantera sulla bara, il sermone, i volti sofferenti e composti delle persone, e Bob Dylan che ci conduce alla commozione con una ballata che è un po’ murder ballad un po’ canzone di protesta (d’altronde, cos’è la murder ballad se non una canzone di protesta?) e che fa da sottofondo alle immagini.
Prison guards, they cursed him
As they watched him from above
But they were frightened of his power
They were scared of his love.
[…]
Sometimes I think this whole world
Is one big prison yard.
Some of us are prisoners
The rest of us are guards.
Lord, Lord,
They cut George Jackson down.
Lord, Lord,
They laid him in the ground.
Bob Dylan, “George Jackson” (traduzione)
Questo è solo uno spezzone di dieci minuti scarsi della serie, ma funziona tutta così. In parte un viaggio nella memoria, in parte analisi generazionale.
Una docuserie rivolta a tutti
Poteva essere un lavoro di fandom di nicchia, perché certe narrazioni si muovono, più di altre, in direzione dell’audience. E se Cobain: Montage of Heck attrae un certo tipo di pubblico, interessato alla storia specifica e privatissima di Kurt Cobain, 1971 è una serie aperta a chiunque abbia interesse per la politica, la storia, la controcultura, i fenomeni underground, l’arte, il pop in genere, perché è un progetto ambizioso che si muove più nell’ambito dell’antropologia culturale che in quello del business musicale. Da John Lennon che canta la pace a George Harrison che ne critica l’eccesso di performatività, dai Rolling Stones in Francia (e il miracolo della scienza che è la salute di Keith Richards), al concerto per il Bangladesh, e poi le interviste ai soldati in Vietnam, tutti giovanissimi, tutti sperduti, l’esperimento di Stanford, il processo a OZ, la rivoluzione sessuale, Hunter Thompson e il sogno americano, il glam, lo showbiz, l’eroina, questo racconto di suoni e parole che si mescolano e incorniciano le immagini arriva in un’esperienza di fruizione talmente ricca e molteplice da essere forse anche troppo carica da ingoiare tutta insieme. È una serie che va diluita, non divorata.
E magari anche rivista, riascoltata, discussa. Perché le narrazioni dei conflitti, oggi più che mai, ci aiutano a muoverci nella complessità del mondo.