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Fake

A seguito della nostra call abbiamo ricevuto 106 racconti. Letti e selezionati dalla classe di Apnea ’20/’21, ne sono infine stati scelti 14 per la pubblicazione.


Questo è il quattordicesimo e ultimo racconto, scritto da Erika Nannini. Non è entrato inizialmente nella rosa dei selezionati, ma è stato recuperato da Francesca de Lena per l’estrema naturalezza dei dialoghi e la penna molto precisa dell’autrice. Il racconto ha richiesto un editing mirato a chiarire alcuni passaggi di snodo, salvaguardando il realismo dei dialoghi e senza snaturare l’originalità del testo. Particolare attenzione è stata prestata al ritmo della narrazione. Hanno curato il testo prima la corsista di Apnea Monica Laudonia poi le caporedattrici.


Attraverso dialoghi serrati che riproducono un parlato quotidiano elevato e con un linguaggio intriso dai tecnicismi dell’arte, l’autrice ci guida, mentre seguiamo il passeggero, in una riflessione estetica che si pone la domanda fondamentale: cos’è che fa di un lavoro un’opera d’arte?


di Erika Nannini


Superati i Ponti di Vara la strada cambia colore, una cenere bianca, opaca ricopre la terra e l’erba più bassa. La breccia stride sotto le gomme, incuneandosi nel battistrada. Il passeggero indica un magazzino sulla destra, il parcheggio antistante è deserto, l’autista decelera e ferma la macchina dove capita. 

«Avvicinati», chiede il passeggero.

«Dove?».

«Accosta davanti alla porta».

L’autista riaccende il motore e getta acqua sul cristallo, il passeggero si scompone, annaspa, emerge dal nido che si è scavato in fondo all’abitacolo e ferma il braccio dell’uomo intenzionato ad attivare le spazzole.

«No, che lo graffi!», grida.

«Cosa?», chiede l’autista alzando le mani.

«Il vetro, è marmo!».

L’acqua cola via disegnando un albero riverso sul parabrezza impolverato. L’autista scende a osservare da vicino la polvere di pietra. Si lecca l’indice per raccoglierne qualche granello, così da testarne la durezza tra i polpastrelli, poi gonfia le guance e soffia sul vetro. 

Al passeggero ricorda Dizzy Gillespie, sblocca il cellulare, seleziona Work in progress, ma poi digita: Ermanno, Eolo. Lo manderà all’assistente, il migliore, capace di reagire a una suggestione con una dozzina di possibilità per realizzarla. E in mezzo a quelle, nove volte su dieci, il passeggero riconosce il medium perfetto per la sua visione.

Gli occhiali a specchio riflettono un carrello elevatore che si avvicina portando un cassone. A pochi centimetri dalla macchina il mezzo si ferma e abbassa le forche posando il contenitore a terra. L’uomo alla guida, in tutto simile a un panettiere dopo una notte d’impasti, indossa una mascherina a valvole. Alza i pollici. Il passeggero abbassa il cristallo per metà e lo congeda annuendo.

Un secondo uomo spunta da dietro al mezzo e si avvicina al finestrino.

«Eccoti, hai fatto buon viaggio?», chiede  chinandosi in avanti e appoggiando la mano sinistra sul tettuccio della macchina.

«Bentrovato Giacomo, tutto bene».

«Ottimo», risponde l’uomo raddrizzandosi per osservare meglio l’autista che pulisce il vetro a suon di polmoni. «Guarda che sta per piovere», gli dice.

L’autista sorride, si accarezza la barba appuntita e rientra in macchina.

«Sono queste le pietre?», chiede il passeggero sporgendo il naso dalla fessura.

«Sì, queste».

I campioni allineati sul fondo del cassone sono numerati da uno a dieci.

«Ma è tutta onice?».

«Non sembra, vero?».

«Soprattutto il tre e il cinque».

«Sì, te li ho selezionati apposta, li trovo interessanti proprio per questo».

«Il quattro gronda sangue».

«È raro trovare una vena dal colore così intenso nell’onice».

«Quanto ne hai? Mi servono venticinque pezzi».

«Dipende dalla scala. Il modellino che ci hai mandato è uno a uno?».

«Se Ermanno non ha sbagliato dovete solo raddoppiarlo».

«Vuoi controllare il bozzetto?».

«Non farmi scendere, ho le scarpe di vernice», risponde il passeggero aggiustandosi gli occhiali a specchio.

«Te lo faccio portare».

«No, lascia, mi fido di Ermanno».

«Fai bene a fidarti, ha stoffa il ragazzo. Se c’è un problema sa come risolverlo, e la soluzione non è mai quella che ti saresti aspettato».

Giacomo gli indica le pietre:

«Mi sa che raddoppiare le dimensioni del bozzetto sarà un problema, non mi basta il materiale del campione numero quattro».

«Cosa proponi?».

«È un guaio se le sculture non sono uguali?».

«Mah, che vuoi, i collezionisti hanno questo malsano attaccamento all’idea del pezzo unico, alla fine lo preferiscono».

«Per venticinque pezzi devi scegliere almeno quattro campioni, altrimenti c’è sempre lo statuario, ma non è onice».

«No, infatti, voglio l’onice, in questo periodo il marmo mi annoia. Non importa se sono diversi, però fate attenzione quando scansionate il bozzetto, m’interessa la torsione data alla figura. Siate precisi».

«Come sempre», risponde Giacomo voltandosi di colpo per starnutire.

«Allora, segna: uno, quattro, otto e nove».

«Li uso in quest’ordine?», chiede Giacomo appuntando i numeri su uno scontrino che si ritrova in tasca.

«No: quattro, nove, uno e otto».

«Ok, andiamo a esaurimento del materiale e vediamo dove si arriva».

«Te lo perdi lo scontrino, ti mando un messaggio?», chiede il passeggero sbloccando il cellulare.

«Macché, entro in ufficio e lo copio. Dove recapito le sculture?».

«Mandale in galleria da Massimo, al solito», risponde abbandonando il telefono sul sedile accanto a sé.

«Ok, da De Carlo allora. Ermanno non le rivede prima?».

«Non questa volta».

«Le creste restano, lo sai».

«Mi piacciono le tacche che semina la fresa, in certi casi sono un rafforzativo. È l’opera che comanda».

«Quanto tempo abbiamo?».

«Inauguro il sedici».

«Se consegno il quattordici?».

«Yes. Per l’allestimento è sufficiente».

«Vuoi indicarmi un campione di riserva? Casomai avessimo problemi».

«Sceglilo tu, adesso scappo, devo visionare un pavimento per la casa nuova».

Giacomo fa un passo indietro, il passeggero ritira il naso, alza il finestrino e appoggia la schiena al sedile divaricando le cosce per meglio affondare nell’imbottitura. La macchina riparte a passo d’uomo, la polvere che aleggia a mezz’aria sbianca ogni cosa, ne cancella anche l’ombra. Superati i Ponti di Vara l’autista accelera. Il passeggero guarda dritto davanti a sé, tra il poggiatesta dei due sedili anteriori, concentrato sulla riga di mezzaria che divide le corsie, riflette sul campione quattro. Sblocca il telefono e scrive una nota: Massimo, prezzo diverso per le sculture della partita quattro?

Quando l’auto entra in autostrada, il passeggero prende le foto del pavimento che ha stampato in alta risoluzione su carta patinata. Lo mettono di buon umore come d’abitudine gli accade per le cose belle. Cerca di ricordare pavimenti migliori, non gliene viene in mente nessuno, forse quello della chiesa di San Pietro a Tuscania, ma è difficile paragonarli. Uno in pietra, l’altro in legno. Uno a mosaico, l’altro a intarsio. Le croci che compongono il motivo sono smussate ai bordi, levigate come un tronco consunto dal mare. Immagina le sale cinquecentesche del convento dal quale è stato strappato, vorrebbe dispiacersene, ma gli sembra ipocrita. Nella testa gli si affollano migliaia di sandali in cuoio che lo deformano calpestandolo, secoli di passi concentrati in un’immagine, una marcia imponente. Chiude gli occhi lasciando che l’usura si compia, indeciso se scrivere una nota, Ermanno, migliaia di sandali. La memorizza.

Il fatto che nessuno abbia comprato il pavimento prima di lui lo tormenta, è una spina che gli si è conficcata nel cervello nel momento esatto in cui lo ha scoperto, la prova provata dell’estinzione del buon gusto. «Non c’è più salvezza», dice, l’autista alza gli occhi sullo specchietto retrovisore, sembra voler capire se ce l’ha con lui, ma non glielo chiede. Il passeggero sprofonda di nuovo nel silenzio, il buon umore è passato, al telefono l’antiquario non l’ha convinto, la voce gli sembrava incerta, forse era stupito dalla richiesta di conservargli il materiale fino al giorno del loro appuntamento.

Il viale che conduce alla casa colonica è disseminato di abbeveratoi in pietra, fontanili, sculture e arredo da giardino in ferro battuto; lo scheletro di una serra in stile liberty occupa la piccola corte prospiciente. Quando l’autista parcheggia a ridosso di un tiglio in piena fioritura, esce sulla porta un uomo alto, corpulento, indossa una maglietta lisa color lavanda e i jeans. Calza ciabatte gialle da piscina. Resta lì, con le braccia incrociate al petto, in penombra. Il passeggero lo guarda appena un attimo prima di declassarlo da antiquario a rigattiere, non gli sembra necessariamente un problema, forse il pavimento è rimasto invenduto perché capitato nelle mani di un poveraccio.

Il passeggero scende, il rigattiere fa un paio di passi fuori dalla porta, si ferma ad aspettarlo lì, come se non volesse allontanarsi troppo dalla casa e dalla penombra. Il passeggero, con le mani nelle tasche dei pantaloni in fresco di lana, cammina adagio per non apparire impaziente, quando è a tiro gli porge la mano, il rigattiere la stringe. Ha le unghie lunghe, arrotondate e nere che lo fanno rabbrividire. Il rigattiere accenna un saluto asciutto e lo invita a entrare volgendogli le spalle per precederlo.

«La stavo aspettando, ha avuto difficoltà a trovarmi?», chiede senza voltarsi.

«No, nessuna», risponde il passeggero cercando di misurare a occhio la lunghezza di quelle unghie.

«Molto bene», dice entrando nel locale.

Il capannone è ingombro di tavoli e credenze da restaurare, c’è qualche cornice, un putto scrostato orfano della laccatura originaria, alcune tele in pessime condizioni appese ai muri. La parete di fondo è coperta da porte e assi antiche. Due grosse macchine per lavorare il legno ripartiscono lo spazio in tre settori. Il rigattiere supera la prima e si accosta alla seconda. Sul banco c’è un lacerto di pavimento ricomposto, un quadrato di cinquanta centimetri per cinquanta. Il passeggero incrocia le braccia al petto e si china sul legno, la stoffa della giacca si tende all’altezza delle scapole.

«Eccolo», dice il rigattiere dopo qualche minuto, infrangendo il silenzio.

«Diceva che viene da un convento?» domanda il passeggero.

«Sì».

«Quale?».

«Era un convento, oggi non esiste più».

«Dove si trovava?».

«In provincia di Arezzo».

«A quando risale?».

«Il pavimento o il convento?».

«Ma il pavimento, of course».

«Fine cinque, inizio sei».

Il passeggero si raddrizza, davanti a lui c’è una piccola bifora appesa al muro, la colonnina e il capitello scolpito sostengono un doppio arco in pietra. Decide di provare a inserirla nel prezzo del pavimento, ma se non dovesse spuntarla la comprerà comunque.

«Si trovava nelle cellette dei frati», dice il rigattiere.

«Nelle cellette?».

«Sì, gli altri pavimenti del convento erano in cotto».

Il passeggero tocca una croce, l’accarezza, poi la solleva scardinandola dall’intarsio. Di tutte quante è la più chiara, priva di qualsiasi patina che il legno dovrebbe aver acquisito nel tempo. Avvicina la croce al viso, gli occhiali a specchio la riflettono ingigantita, la gira e il retro mostra un taglio fresco. Il passeggero rincula di un passo.

«È un pavimento con uno spessore molto alto», osserva il rigattiere.

«Cosa significa?».

«Che devo asportarne l’eccesso. Se supera i due centimetri e mezzo non c’è margine per montarlo in una casa moderna».

«Dov’è il resto?».

«Il resto?».

«Dove tiene il resto del pavimento?», insiste il passeggero.

«In casse, è stoccato in un altro magazzino. Lo tratto a mano a mano che mi viene richiesto».

«In che senso?».

«Taglio lo spessore a misura, lo pulisco. Poi va rifinito, il risultato cambia se lo vuole a cera o preferisce l’olio».

«Lo pulisce», ripete il passeggero.

«Certo, il pezzo che ha in mano è stato pulito e finito a olio».

Il passeggero lo guarda meglio, lo rigira sotto sopra ancora una volta. Fa un passo indietro.

«Sembrano essenze diverse», dice.

«Al tempo usavano quello che avevano».

«Lei dice?».

«Lo immagino», dice il rigattiere.

Il passeggero piega il capo sulla spalla sinistra, poi su quella destra, infine getta la testa indietro. Chiude gli occhi un attimo prima di raddrizzarsi.

«C’è il mio autista qui fuori, andiamo?».

«Dove?».

«Nell’altro magazzino, a vedere il resto del pavimento, le do un passaggio».

Il rigattiere non si scompone, apre una mano e la appoggia sul piano della macchina, accanto al lacerto del pavimento.

«Purtroppo aspetto un altro cliente, a minuti, doveva già essere qui».

«Sicuro».

«Posso mandarle delle immagini se mi lascia un indirizzo email».

«Le ho già ricevute, la ringrazio».

«Quanto gliene serve?».

«Lei quanto ne ha?».

«Dovrei controllare».

«Me ne servono settantacinque metri quadri».

«Ho bisogno di un preavviso di tre mesi, se decide».

«Tre mesi?».

«Per prepararlo. Come vede sono pezzi molto piccoli, una miriade».

«Ma se li volessi nello stato di fatto, senza toccarli, basterebbero tre giorni?», chiede il passeggero avvicinandosi alle assi accatastate sulla parete di fondo.

«Così come sono, dice? E lo spessore? Almeno lo spessore va ritoccato, sempre tre mesi servono», risponde il rigattiere alzando la voce.

«Belle queste assi, ci uscirebbe un pavimento fantastico. A che epoca risalgono?», dice il passeggero.

«Metà Ottocento. Ho fatto dei loft a Milano con quelle».

«Un loft è proprio la morte loro».

«Il risultato però è completamente diverso», dice il rigattiere.

«Ovvio».

«Lei quando vorrebbe montarlo?».

«Il pavimento? C’è tempo, non ho fretta».

«Ah, bene, avevo capito l’avesse».

Il passeggero ringrazia per il tempo concesso, porge la mano al rigattiere, si lascia accompagnare fuori e sale in macchina. Non dice nulla, appoggia la nuca al sedile e chiude le palpebre. Vorrebbe dormire per non pensarci troppo, però non gli riesce, gli monta dentro un sentimento rabbioso che lievita fino a opprimerlo. Questo coglione, pensa, invece di gonfiarsi d’orgoglio, spaccia il capolavoro della sua vita per un fake. Porta le dita alle tempie e le comprime uno, due, tre secondi. Vede ancora il rigattiere davanti a sé, vede le unghie, le ciabatte e gli nasce un sorriso che si allarga in una risata sommessa. Quando non riesce più a contenerla, attacca a ridere forte, per poco non si strozza. L’autista alza gli occhi sullo specchietto retrovisore, rallenta, inserisce l’indicatore di direzione. «Devo accostare?», chiede.

Il passeggero nega con un cenno risoluto mentre si ricompone, l’ilarità riemerge ancora un paio di volte, fino a spegnersi del tutto.

«No, no, grazie, non serve», dice asciugandosi le lacrime dalle guance.

«Ha comprato il pavimento?», chiede l’autista.

«Non esiste nessun pavimento, certo non del Cinquecento, lo fabbrica lui, il maledetto ritaglia legni vecchi e li spaccia per buoni. Non che fossero brutti e antichi ‒ lo sono per certo, almeno più antichi di me. A dirla tutta, il risultato è un portento», risponde tossendo per soffocare una nuova risata.

«E allora perché non l’ha preso?»

«Perché la menzogna non ha mercato. Che raggiri pure gli sciocchi… Comunque, possiede più assi marce che capelli in testa, c’è speranza che prima d’aver triturato l’ultima capisca il valore della sua opera e si decida a vendere quella, invece di un’impostura. Nel caso, tornerò a comprarlo».

L’autista dice «Ah», nient’altro. Il passeggero riguarda le immagini ricevute per e-mail, pensa ancora che il pavimento in quelle foto sia originale. Ma che l’idea possa essere venuta a quel robivecchi in ciabatte da piscina fatica a concederlo. Sa di averlo mancato. Se lo ripete, l’ho mancato. In fondo gli sembra la soluzione più sensata: venduto l’originale s’è industriato per riprodurlo. Si ricorda della bifora che ha lasciato lì. Un pezzo unico, ma di tornare indietro non se ne parla.

Infila le mani in tasca, le tira fuori, prende il cellulare e lo sblocca, scrive una nota: Ermanno, figura in ciabatte da piscina e sette centimetri di unghie.

L’autista mette la freccia a sinistra ed entra in autostrada: «Inizia a piovere», dice.


Erika Nannini è nata a Ravenna nel 1976 ed è bibliotecaria presso la biblioteca comunale “Don Giovanni Verità e Accademia degli Incamminati” di Modigliana (FC). Ha pubblicato racconti sul Corriere Fiorentino e nell’antologia Anatomè – dissezioni narrative edita da Edizioni Ensemble. Ha collaborato con Zest Letteratura Sostenibile. Curatrice della sezione Conchiglie, dedicata a libri e autori dimenticati di Morel, voci dall’isola.


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