di Luigi Loi
“Una moda filosofica si impone come una moda gastronomica: non si può confutare un’idea più di quanto si possa confutare una salsa”, pensava E.M. Cioran. Allo stesso modo, nel campo della fiction narrativa, è quasi impossibile confutare la prassi distopica: in genere questo tipo di romanzi possono sembrare profetici ma visti in una prospettiva lunga, storica, si rivelano miopi, dicono più del presente in cui sono stati scritti che del futuro che intendevano rappresentare. Si tratta di romanzi che andrebbero scritti più con la furbizia che col talento. Eppure, in questo momento ci sono tantissimi scrittori che rinunciano alle stampelle della verosimiglianza fallendo 9 volte su 10. Ma c’è, in lingua italiana, l’eccezione che conferma la regola e si chiama Luciano Funetta: nel Grido rinuncia ai fuochi d’artificio del suo esordio e colma le lacune con quel pizzico di malizia e mestiere che questo tipo di narrativa esige.
La voce narrante del Grido è la canonica terza persona, la più razionale tra le voci narranti, non fosse altro per quell’onniscienza che nella storia del romanzo moderno l’ha caratterizzata: ci dice delle vicende di Lena Morse impiegata in una ditta di pulizie di una grande città decaduta, decadente e senza un sistema di trasporti. Che la vicenda sia ambientata nel presente o nel futuro – «questo sta al lettore deciderlo con la sua sensibilità e la sua esperienza», ci avverte Funetta – poco importa: «è una città di reietti dove l’irrazionale e l’altrove sono l’unica forma di resistenza». Con la sua indeterminatezza geografica, e quindi simbolica, il romanzo potrebbe ammiccare al modello dello sprawl urbano di William Gibson, alla feroce e infinita città di Roberto Bolaño, o peggio alla periferia di Pasolini, abitata paternalisticamente dal sempreverde lumpenproletariat che cinquant’anni di certa fiction italiana ci ha proposto come borgata. Nulla di tutto questo (oppure proprio tutto questo) è presente in questa narrazione: con rara intelligenza Funetta riesce in una sistematica rottura delle aspettative: fa credere contemporaneamente sia all’epifania che al più banale significante. E se sono presenti elementi smaccatamente fantastici (come la descrizione dell’uomo albero Mendel; i freaks Simone, Mircea, Atomo e Lucillo; le presenze fantasmatiche nella casa delle Dame), anche la frazione realistica del romanzo scricchiola sotto il peso di un altrove evocato nel dettaglio straniante:
“Madame aveva chinato il capo, poi all’improvviso lo aveva gettato all’indietro e solo allora Lena aveva visto il foro nel collo della donna.
●
Da quel buco rotondo una voce aveva iniziato a parlare” (pg.10).“Vennero servite le scodelle di minestra. Lena mangiò. Il brodo caldo le riempì lo stomaco, un torpore confortevole la spinse a rannicchiarsi sulla sedia. Love Love cantava, Duilio stava in un angolo e non diceva niente, Stepan era curvo e tetro in mezzo ai suoi compagni. Una gigantesca pantera camminava nell’ombra in fondo alla stanza, tra i tavoli vuoti” (pg18).
È una narrazione che ci interroga costantemente. Il “●” è letteralmente un buco nel collo o contemporaneamente un calligramma metanarrativo? La pantera tra i tavoli vuoti del Kraken è un simbolo o è realmente lì presente? L’onere della risposta spetta al lettore; quale che sia, così come in BoJack Horseman dove la convivenza di personaggi umani con animali antropomorfi può essere letta in chiave simbolica o semplicemente accettata come parte di quell’universo narrativo, anche nel Grido tout se tient, senza particolari scosse ma con sinistra naturalezza e garbo. L’alchimia è possibile grazie a una lingua non marcata, teoricamente impersonale. Nonostante la rarità delle frasi incidentali e delle subordinate, la grana linguistica è comunque robusta grazie alla seriazione della paratassi:
“L’ora del passaggio, l’ora del ritorno. Un’ora precisa in un giorno qualunque di un anno sconosciuto. La coda lugubre della sera spuntava dalla schiena del giorno, strisciava fino al buio, fino al silenzio, fino all’ultimo individuo esalato da un edificio e inspirato da una piccola casa” (pg 7).
“Il profumo dell’Orto Botanico di sera. Il profumo dell’Orto Botanico nel cuore della notte e poco prima dell’alba, nell’ora in cui l’oblio si esauriva” (pg 40).
“Quindici donne camminavano in una direzione. Due donne andavano nell’altra. Migliaia di individui percorrevano a piedi la città, ognuno con le proprie ragioni per essere vivo” (pg 72).
Non si registrano varietà diastratiche ma solo una diatopica: è l’italiano semplificato e a-preposizionale di Stepan, un raro esempio di pidgin (o lingua seconda, in questo caso) di rara efficacia stilistica:
“L’altro giorno tu non era qui. Lui ha pagato Duilio con biglietto della lotteria” (pg 11).
“«Tanto nessuno conosce mai vincitore. Vincitore è fantasma. Vincitore scompare. Gli danno bella casa, nuovo nome. Alla fine vincitore non esiste» disse lui. Si passò la mano sulla testa rasata. «Dove vi mandano stanotte?»” (pg 12).
“Carmen andrà meglio, presto. Vi ringrazio per vostra visita gentile” (pg 31).
In questo romanzo non ci sono preziosismi o apparati esornativi; segnaliamo due occorrenze statisticamente irrilevanti (“un abete addobbato dalle Erinni”; Il paesaggio vagolava nella liquefazione”), due nei, quasi dei lapsus in un tono costantemente piano e sorvegliatissimo. Per intenderci: qui l’italiano, razionale e limpido, è lo strumento che descrive un immaginario cupo e dolente. L’urgenza narrativa, il focus, è tutto lì; infatti c’è solo l’ossatura di una struttura narrativa che si presenta come l’assemblaggio di almeno quattro racconti lunghi: le vicende degli avventori del Kraken; il passato di Lena nella Casa delle Dame; la morte e la tomba di una collega in un cimitero; le vicende dei freaks nell’Orto Botanico. A ognuno di questi tronconi narrativi corrisponde un luogo geografico, un castello di Atlante, meglio, una locanda del Don Chisciotte, cosa che fa del Grido un romanzo di pattern. E qui Funetta sembra idealmente lontano dal metodo di Frank Herbert o Mervyn Peake, scrittori del fantastico che descrivono il proprio universo narrativo con sistematicità e ampio respiro, con una foliazione gigantesca, zeppa di particolari, di mappe e apparati narrativi che lascia intendere la possibilità di una narrazione pressoché infinità, dove i sentieri narrativi potrebbero dilagare geometricamente, tant’è che Herbert e Peake più che scrivere sembrano selezionare degli exempla tra i tanti possibili. Nel Grido una maggiore foliazione avrebbe giovato, perlomeno al finale troppo frettoloso: un semplice punto di fuga, un nodo gordiano tagliato di netto senza troppi complimenti.
Tuttavia, il dato più notevole del Grido non risiede nell’aspetto distopico. In questo romanzo non si celebra messa e non si danno sentenze, si cerca piuttosto di dare una descrizione realistica all’inquietudine, di mostrarci il lato obliquo della vita dall’interno e quindi dal buio.