di Marco Terracciano
Non consiglierei La madre di Eva a una ragazza in transito. Non lo consiglierei perché potrebbe ferire e deprimere. Generalmente sconsiglio i libri solo quando mi sembrano noiosi: sconsiglierei, al contrario, La madre di Eva – forse sbagliando per eccesso di prudenza – perché è estremamente coinvolgente e credibile. È una storia schierata, apparentemente neutrale nel giudizio ma orientata verso l’immedesimazione emotiva con il narratore; il narratore, ossia la madre di Eva – ragazza affetta da disforia di genere che vuole a tutti costi operarsi per «sembrare» un uomo – è l’unico filtro che viene offerto al lettore per confrontarsi con questa storia, ed è un filtro fatto di dolore, frustrazione, senso di colpa, dipendenza affettiva. È una storia che non lascia indifferenti, ha la forza e l’incisività di una cosa vera.
Una tendenza dei critici, dei recensori, degli scrittori e in generale di chi lavora con i libri, è quella di classificare i romanzi in ‘romanzi di forma’ e ‘romanzi di contenuto’, alludendo alla più o meno buona capacità di lavorare con la lingua. Si tratta, il più delle volte, di un giudizio di valore: il ‘romanzo di forma’ è un romanzo che ha saputo lavorare con la lingua, che ha saputo raccontare una storia in modo straniante e originale – stravolgendo, per fare un esempio anche banale, la sintassi del testo – e la storia, in questi casi, è un mero pretesto; i ‘romanzi di contenuto’ sono quelli sempliciotti, quelli che hanno saputo ‘solo’ raccontare una storia, con una lingua media, per tutti. Sono i cosiddetti ‘romanzi scorrevoli’, quelli che si ‘lasciano leggere’, quelli che quando ne parli con le persone racconti la trama e poco altro. Secondo questa classificazione La madre di Eva sarebbe un ‘romanzo di contenuto’.
Al contrario di certi ragionamenti, però, credo che il fatto che di questo libro si parli soprattutto della trama, dei rovelli dei protagonisti, delle scelte del narratore, della materia culturale, che ci sia quasi l’urgenza di prendere posizione nei suoi confronti – si veda la gran quantità di interventi in rete, in parte motivata dal suo inserimento nella dozzina del premio Strega di quest’anno – sia il tributo migliore ad una grande, grandissima forma. Non è questione di lingua e sintassi: La madre di Eva è un romanzo potente e godibile perché è perfettamente bilanciato nella sua struttura interna, in quella che Francesco Orlando chiamava ‘forma del contenuto’.
Tecnicamente la forma del contenuto ha a che fare con la disposizione diegetica e l’elaborazione simbolica dei significanti di una narrazione, dove per significanti si intende l’insieme delle immagini e dei temi ricorrenti che istanziano nel testo determinati contesti e concetti presi dal mondo.
La disposizione diegetica dà ritmo, alimenta la tensione narrativa e guida a modo suo il lettore incastrando secondo un certo ordine pezzi di storia; l’elaborazione simbolica dà senso, crea associazioni tra temi, immagini e concetti: La madre di Eva ha uno stile che se si formalizza non lo fa sul piano della lingua, ma sul piano della composizione, dell’architettura interna.
Ma cerchiamo di analizzare queste due componenti partendo dal testo.
I capitoli sono brevi, spesso di cinque/sei pagine, e sono strutturati in modo da rispettare alcune regolarità: in primis, alternano narrazione al tempo presente a narrazione al tempo passato. Questo aspetto, di certo non innovativo ma gestito alla perfezione, è quello che meglio permette alla Ferreri di amministrare in modo godibile i due piani della storia:
- presente con cui fare i conti, l’imminenza dell’intervento di cambio sesso, il viaggio in Serbia, il senso di fatalità che trasuda dalle mura della clinica del dottor Radovic:
Sono qui Eva, sono accanto a te. Sono seduta nel corridoio freddo di fianco alla sala operatoria, dove tu sei sdraiata, nuda, per l’ultima volta donna, bambina, femmina.
- passato, tempo della memoria e della ricostruzione, tempo del riesame e della coscienza delle cose fatte, degli errori e delle possibilità di riscatto, il tempo più dinamico rispetto a un presente immobile da accettare senza condizioni, quello in cui si srotola la storia della famiglia di Eva:
Se te lo dicessi non ci crederesti: quando ho scoperto di essere incinta, non ero felice. Sono rimasta giorni con la testa in mano a chiedermi come si faceva a fare la madre. Ma non mi venivano risposte buone. Mi sentivo stupida. Ti avevo voluta. E ti avevo cercata, come si cercano i figli quando si gioca a nascondino.
Ogni capitolo, inoltre, rispetta a sua volta una microstruttura interna: focus sulla questione contingente – che cambia di capitolo in capitolo senza mai ripetersi; digressione descrittiva con annessa caratterizzazione di Eva e del padre – gestiti come figure secondarie che esaltano l’emotività e la plasticità del narratore; finale spesso sospeso su un interrogativo esistenziale:
Ho ripensato a Ketty qualche volta in questi anni, e mi sono chiesta cosa avrebbe fatto lei al posto mio. Come si sarebbe comportata? Ti avrebbero riempita di botte lei e suo marito? O ti avrebbero ascoltata, capita e accompagnata in questa follia? Ti avrebbero chiuso in casa fino a che non avessi cambiato idea o ti avrebbero lasciata andare per farti capire e scoprire che cosa davvero volevi?
Ti avrebbero salvata loro?
Il concetto di ‘demolizione’ è invece l’esempio migliore di elaborazione simbolica.
Eva si sottopone a un lungo intervento di chirurgia demolitiva nella clinica del luminare serbo Radovic: mastectomia e asportazione genitale. L’intervento chirurgico diventa per la madre di Eva il simbolo della sua sconfitta come archetipo genitoriale, la nemesi di una condizione che plasma il corpo del figlio, che lo preserva, che lo dà in dono conservando per sempre la possibilità di prendersene cura e partecipare alle sue mutazioni. Per la madre di Eva non esiste cambiamento, esiste sempre e solo demolizione, che sia essa fisica, psicologica, valoriale o culturale.
Quel che per Eva è acquisizione, per la madre è sottrazione: questa è la contrapposizione che connota tutto il sistema simbolico del romanzo:
Eravamo nella più moderna e diabolica macchina per la creazione di nuovi esseri umani. Fuori, la Serbia; dentro, un bunker di scienziati che progettavano una nuova specie.
Tu e i tuoi aguzzini siete spariti dietro la porta semaforo. Io sono rimasta fuori.Non immaginava che un giorno tu avresti buttato via tutto il mio lavoro, il mio progetto accurato, il mio modello perfetto. Non poteva sapere che avresti distrutto tutto per un corpo nuovo. Che un medico che non aveva idea della fatica che avevo fatto, potesse ricominciare tutto da capo. Che in poche ore, un uomo con una mascherina sul volto avrebbe fatto meglio di me.
Non esistono ‘romanzi di forma’ e ‘romanzi di contenuto’: forma e contenuto sono due dimensioni inscindibili, perché la prima è sempre il mezzo per trasmettere il secondo. Se il contenuto non arriva, la forma è debole; se l’attenzione per la forma sovrasta tutto, è autocompiacimento.
La madre di Eva è una storia complessa e coinvolgente, la voce della madre è una voce ambivalente, è corrosiva, dolce, emotiva, disperata.
Silvia Ferreri ha scritto un romanzo vero e un romanzo vero non è mai un romanzo per tutti.