Narrarsi addosso: sguardi sul mondo dello storytelling made in Facebook, dell’autofiction targata Twitter, della promozione ai tempi della visibilità.
Ho conosciuto la scrittura di Marta Zura Puntaroni su Facebook. Sono, però, arrivata tardi: il suo blog, dal titolo Diario di una snob, rimbalzava di tanto in tanto sul mio feed da anni, ma faticava a inserirsi fra le mie letture quotidiane, per mancanza di tempo più che d’interesse. La mia curiosità è stata smossa, e stavolta sul serio, dal passaparola social mediatico, da quei “Sto leggendo questo” cinguettati e postati da coloro che per me sono dei micro-influencer (colleghi, alla stretta o alla larga, voci alle quali delego uno speranzoso “ti raccomando se ti è piaciuto”, o semplicemente lettori e lettrici di cui sento di potermi fidare) quando è uscito per Minimum Fax il suo romanzo d’esordio, La Grande Era Onirica. Ho messo insieme i pezzi: un blog dal titolo vincente, dalle tagline brillantemente autoesplicative (“The opposite of midcult.”; “High-tech, super-hip, cyber-chic, anti-fashion minimalist.”), un romanzo subito etichettato come generazionale, forse autofiction, forse literary fiction, un’autrice scoperta grazie al suo diario personale da una casa editrice indipendente. Insomma, l’occasione giusta per riflettere (e porre all’autrice alcune domande) sulla scrittura come fatto privato, intimo, sul passaggio alla pubblicazione (o alla restituzione pubblica) e sulla possibilità o meno di “fare letteratura con i social”.
Come nasce Grande Era Onirica? Come sei passata dal tenere il blog (o anche altre rubriche altrove?) alla stesura del romanzo?
Nel 2015 con un paio di miei amici decido di andare a fare un giro al Salone del Libro, in memoria dei vecchi tempi: eravamo tre laureati in Lettere che, usciti dall’università, non avevano trovato alcuno sbocco lavorativo coerente con i loro studi (a meno che non si voglia considerare coerente l’attività di social media manager), eravamo insomma in quel tremendo periodo in cui pensi di aver buttato cinque anni di vita nella Biblioteca Umanistica. Andare al Salone sembrava il canto del cigno di noi come Letterati, l’ultimo saluto all’idea che potessimo c’entrare qualcosa col «Mondo dei Libri».
Là incontro Alessandro Gazoia: era già venuto a un seminario nella nostra facoltà, per questo le persone con cui ero lo conoscevano. Iniziamo a parlare di blog e di internet, ci aggiungiamo su Facebook. Giorni dopo, finito il Salone, legge il mio blog e mi dice “Non scrivi male, dovresti provare a scrivere qualcosa di più lungo, poi magari lo mandi a qualche rivista online. Sai, molti scout di case editrici passano di lì, potresti interessare a qualcuno.”
Quella a non essere interessata ero io, o meglio: non capivo per quale motivo avrei dovuto fare quello che facevo già sul mio blog – che aveva diverse migliaia di contatti unici al giorno – su altri siti, che mi sembravano meno visitati del mio e, in alcuni casi, con contenuti di livello più basso. Lo dissi, sembrai estremamente superba e pensai che la cosa sarebbe finita lì. Qualche settimana dopo ero a letto, erano le tre di notte e stavo cercando di scrivere un post – anzi, avevo già scritto un testo, piuttosto lungo, e mi stavo chiedendo se davvero volevo pubblicarlo sul blog (che, come spiego sotto, era diventato una cosa diversa dagli inizi). Non sapendo esattamente cosa fare mi ricordai di Gazoia e gli scrissi: “Ho diecimila battute, se le vuoi leggere, così ti rendi conto se non scrivo male anche con una cosa un po’ più lunga”. Gazoia invece di ignorarmi se le fece mandare.
Quel testo è stato l’inizio del lavoro di scrittura, ed è poi diventato il nucleo del secondo capitolo di Grande Era Onirica.
Quale è stata la tua esperienza di scrittura per il web?
Il mio primo blog l’ho aperto nel 2002, in prima superiore. Tiscali – allora si chiamava “Tiscalinet” – aveva appena messo online la sua piattaforma di blogging e io mi iscrissi subito. C’erano tre template in croce, nessuno visitava il blog a parte gli altri 50 blogger di tiscalinet.it, ma comunque passavo le serate a scriverci sopra. All’epoca aprire un blog sembrava pura avanguardia, scrivevi delle parole e queste potevano potenzialmente essere lette da qualsiasi essere umano connesso a internet. È una cosa che oggi diamo per scontata, tuttavia io non riesco a non provare ancora stupore – non riesco, diciamo, a scordare da dove vengo. Il blog su tiscalinet.it chiuse, ne aprii altri, prima su Windows Live Spaces poi su Splinder. Non duravano tantissimo, pochi mesi, ma appena stavo per qualche tempo senza un blog sentivo il bisogno di aprirne un altro. Anche se in pochissimi leggevano e scrivevano su quei blog, ed eravamo tutti anonimi – il fascino e la bellezza erano anche questo: non avere idea di chi avesse scritto quello che stavi leggendo – non potevo davvero farne a meno.
Nel 2007 mi iscrissi all’università, e per vari motivi mi allontanai da quel mondo web, mi concentrai soprattutto sullo studio, smisi di scrivere quasi totalmente, sia privatamente che in forme “pubbliche” come quelle del blog. Ancora non so esattamente il perché di quel momento di vuoto. Comunque, nel 2010 mi riprese voglia di aprire un blog. Le piattaforme erano cambiate, Google aveva migliorato blogspot, così il 1° Gennaio 2011 aprii l’ennesimo blog, Diario di una Snob. Come ho detto, non ero più stata un granché su internet, non mi ero accorta dell’enorme quantità di persone che aveva iniziato a stare online. Se qualche anno prima “era tutta campagna” adesso c’erano questi utenti, tantissimi, che producevano e consumavano contenuti.
Nel giro di pochi mesi mi trovai a fare numeri impensabili qualche anno prima, anche diecimila visualizzazioni uniche al giorno. E arrivarono diversi follower su Twitter, e Instagram, che avevo cominciato a usare.
Io continuavo a utilizzare internet e il blog come se fossero i primi anni duemila, con il nickname e senza rivelare il mio nome anagrafico: c’erano post letterari e post personali. Così, per i primi anni, diciamo 2011 e 2012, Diario di una Snob è stato davvero un diario segreto messo online. Poi le cose sono cambiate, sono arrivate le aziende che a noi “influencer” (si diceva così, imparai) regalavano cose perché ne scrivessimo. Il pubblico si allargò ancora, da blog personale si passò a “lifestyle blog”, o come lo chiamavo io con affettuoso disprezzo: il “Vogue dei poveri”. Però con tutte quelle visualizzazioni non avevo più voglia, non mi sentivo più di scriverci come ci scrivevo nel passato, e poi ero pure stanca di fare la blogger di costume (anche perché avevo iniziato a lavorare come social media manager e insomma «ho già dato»). Quando conobbi Gazoia mi trovavo in difficoltà già da un po’, volevo scrivere cose che non potevano trovare nel blog il loro mezzo ideale.
Che ruolo hanno avuto i social in questo passaggio? Li hai sempre usati per raccontarti?
Dal 2011 in poi sono sui social col nickname che ancora uso, unasnob. Non so se li ho utilizzati per “raccontarmi”: mentre per me il blog, o almeno una parte di esso, ha sempre avuto un valore letterario, per Facebook, o Twitter, o Instagram non è mai stato così. Erano e sono mezzi con cui condividere contenuti, ma io non ho mai provato a fare letteratura con i social. Non penso si possa fare letteratura – né tantomeno critica – con i social. Puoi scoprire qualcosa dell’autore, qualcuno può promuovere libri suoi o libri d’altri, ma non credo siano mezzi adatti a fare di più. E lo dico con 2500 post su Instagram e 30000 tweet, quindi da persona che li utilizza smodatamente. Ma mentre nel mio blog c’era l’onestà assoluta verso sé stessi che soltanto la parola scritta può dare, i social hanno i filtri e i difetti del linguaggio parlato.
So che spesso si dice il contrario, ovvero che il linguaggio scritto è quello che si fraintende mentre nel parlato ci si può comprendere meglio. Questo sicuramente accade quando si parla con gli altri, ma soltanto attraverso la scrittura – credo – lo scrittore riesce veramente a essere onesto con sé stesso. “C’è una forza morale in una frase quando ti riesce giusta. Esprime la volontà di vivere dello scrittore. Più mi coinvolgo nel processo di produrre una frase che sia giusta nelle sue sillabe e nei suoi ritmi, più cose imparo su me stesso.” Questo è DeLillo in Mao II.
In ogni caso, penso che la scrittura all’inizio deve essere un atto di solitudine, deve essere qualcosa che non ha a che fare con un pubblico. I post su qualsiasi social sono troppo legati al feedback immediato dei like, dei mi piace, dei commenti per poter dare quell’intimità a chi scrive. Il mio blog nei primi anni garantiva invece questo tipo di raccoglimento.
Dopo la pubblicazione, cosa è cambiato? Che ruolo hanno avuto i social nell'(auto)promozione?
Ruolo dei social nell’autopromozione?
Nessuno.
Dopo il libro ho smesso totalmente di scrivere sul blog: è comparso un post dove annunciavo l’uscita del libro, uno con alcune date delle presentazioni. Su Instagram ho pubblicato due, massimo tre foto del libro. Un paio per la pubblicazione, uno per le votazioni del libro del mese di Fahrenheit. Sulla pagina Facebook uguale, e il mio profilo privato quando è uscito il libro contava meno di 300 amici.
Io non vivo di letteratura, faccio la social media manager e allora la domanda naturale potrebbe essere: perché una persona che per lavoro promuove le cose non ha usato i social per autopromuoversi?
Allora, per prima cosa credo che sia importante definire i ruoli: lo scrittore scrive, la casa editrice fa il resto, promozione inclusa. Non credo che sia mio compito promuovere il mio libro, non credo che sia il compito dello scrittore promuovere il libro (altra cosa è la disponibilità a fare presentazioni e incontrare i lettori: a me questo piace tantissimo, non c’è niente di più bello di trovare a una presentazione qualcuno che non conosci e ti dice che il tuo libro lo ha colpito). Non voglio fare il lavoro di altri nonostante, e qui non credo di essere superba, abbia più competenza di molti scrittori in merito a social e comunicazione.
Altra cosa: come “blogger” che veniva pubblicata da Minimum Fax sono stata, all’inizio, malvista. Qualcuno pensava fosse una trovata commerciale e partiva con l’o tempora, o mores: «ah, ma se adesso Minimum Fax pubblica in Nichel questa qua, dove andremo a finire? Chiara Ferragni pubblicherà per Adelphi?» Alcuni librai, addirittura, si sono rifiutati di avere il mio libro in libreria: «non teniamo i libri delle blogger», «ma non ci siamo stancati dell’ennesimo collage di post ironici delle blogger?» Ovviamente la gran parte di questi commenti è stata scritta prima che uscisse il libro, prima che se ne potesse saggiare la qualità e capire che era un romanzo, non una raccolta di post o altro.
Inoltre, l’essere donna e aver parlato di «cose frivole» è stato un grosso ostacolo: uno scrittore maschio può tranquillamente discutere di calcio per svago, senza volerne fare un oggetto letterario, e nessuno troverà ciò incoerente con la sua attività di romanziere. Un maschio può scrivere un post scomposto sulla Juve ladrona e nessuno glielo rimprovererà quando esce il romanzo. Una donna scrittrice – questo è il ragionamento – dovrebbe invece mantenere sempre un certo riserbo e una certa sobrietà per essere presa sul serio. Non possiamo parlare di collane o tinte per capelli, mai. Ancora, uno scrittore maschio potrà darsi a qualsiasi stravaganza in fatto di vestiario, stile e comportamento, la donna è meglio che si limiti e sia il più possibile modesta e dimessa, altrimenti la prima battuta che esce fuori da qualche aspirante romanziere potrebbe essere: «Ah, ma sei quella che si è trombata tizio per pubblicare?» e tu magari tizio manco lo conosci. E se rispondi «ma come ti permetti di dire una cosa simile?», ovviamente diventi la solita donna che non sa stare allo scherzo.
Insomma, la scelta più felice in una situazione come quella descritta è, secondo me, non promuovere nulla. Il libro se vale sarà letto, la casa editrice se valida saprà promuoverlo. Ho fatto così e non credo di aver sbagliato.
Ora uso soprattutto Instagram, mi piace che ci siano molte immagini e poche parole. A volte parlo di libri degli altri, raramente del mio, principalmente faccio foto alla mia gatta e alle mie piante. Sono bellissime.
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