di Mira Costanzo
Tempo fa ho scambiato qualche messaggio con un mio ex studente tedesco, tornato a Roma per una breve vacanza, e quando mi sono complimentata perché mi sembrava che il suo italiano fosse migliorato, lui ha risposto: «Al bar mi hanno portato un caffè corretto dopo che avevo chiesto un caffè e un cornetto! Saper scrivere non è saper parlare!».
No, infatti. Imparare una lingua significa lavorare sulla comprensione orale, sulla comprensione scritta, sulla produzione orale, sulla produzione scritta e sull’interazione orale, ed è difficile raggiungere lo stesso livello su tutti i fronti.
Da un punto di vista strettamente pragmatico, saper scrivere non è l’abilità più importante. Secondo uno studio di Wilga M. Rivers e Mary S. Temperley (“A Practical Guide to the Teaching of English as a Second or Foreign Language”, Oxford University Press, New York, 1978), l’attività linguistica di un adulto medio è così suddivisa: il 45% del tempo è dedicato ad ascoltare, il 30% a parlare, il 16% a leggere e il 9% a scrivere.
Ciò di cui si ha più bisogno è interagire con le persone per strada, in un negozio, in un ufficio pubblico o all’aeroporto. Ma è anche vero, se pensiamo alle chat o alle e-mail, che la produzione scritta può rientrare nelle abilità interattive e che la sua importanza varia a seconda della tipologia di apprendenti. Le esigenze di uno studente Erasmus non sono quelle di un ambulante di mezza età, e ignorare la differenza non avrebbe senso.
Oggi al centro dell’approccio didattico ci sono le necessità, i ritmi e le motivazioni di chi studia. La lingua è vista come atto nella vita reale, più che come sistema rigido e chiuso. Serve per comunicare. Comunicare significa scambiare messaggi efficaci e l’efficacia si misura in relazione ai risultati ottenuti.
In Le sfide di Babele (UTET) Paolo E. Balboni sottolinea che «l’errore nella grammatica sociale di un cocktail, di un lavoro di gruppo, di una conferenza o di una telefonata internazionale pesa assai più dell’errore morfosintattico». Questo non vuol dire che gli errori morfosintattici siano accettabili, ma che la valutazione di ciò che normalmente chiamiamo errore è più complessa e deve tener conto anche di altri fattori.
L’apprendimento di una lingua non è un processo lineare ma a spirale, fatto di approssimazioni successive. Ogni fase intermedia ha una sua funzionalità ed è sottoposta a continui aggiornamenti. In quest’ottica l’errore non va visto tanto come errore – mostruosità da bacchettare ed estirpare alla velocità della luce −, quanto piuttosto come tentativo sano di usare la lingua. Merita di essere accolto e superato senza generare frustrazione. Oltre all’apprendimento cosciente, infatti, conta molto l’apprendimento inconscio, dagli effetti più duraturi, che avviene quando si usa la lingua in modo spontaneo, senza la zavorra del filtro affettivo, cioè di un meccanismo di difesa determinato dall’ansia o da attività che minano l’autostima.
Così lo studio della grammatica come prerequisito per esprimersi, fondato su estenuanti esercizi di ripetizione, nella speranza di fissare le regole una volta per sempre, è stato sostituito da una riflessione sulla lingua. L’insegnante non è più un santone o un giudice, ma il regista di un viaggio in cui le regole rappresentano il punto d’arrivo. Lo studente diventa un esploratore, deve formulare ipotesi, e acquisisce strumenti d’analisi che lo renderanno autonomo.
Se qualcuno mi dice “domani vado in Napoli”, non lo interrompo per spiegare le preposizioni di luogo. Posso invece chiedere: “E perché vai a Napoli?”. Lo scambio prosegue, ma allo stesso tempo offro la mia versione (“a Napoli”, non “in Napoli”). Le spiegazioni o il ripasso arriveranno dopo.
Come si inserisce in un quadro così dinamico la scrittura? La scuola ha abituato un po’ tutti a considerarla un campo di battaglia in cui la mancata applicazione delle norme causa spargimenti di inchiostro rosso e vergogna. Perché dannarsi a scrivere, se scrivere non è un’attività di particolare rilevanza pratica?
In termini formativi, la produzione scritta abitua a considerare il testo, e non le singole frasi, come base della comunicazione. Perciò è essenziale per allenarsi a gestire la lingua nella sua globalità. In più, induce a riflettere sul genere comunicativo − la lettera informale, la lettera formale, la barzelletta, la favola, ecc. −, con le sue caratteristiche strutturali e culturali.
Di solito è richiesta alla fine di altre attività. Gli studenti si confrontano con una lettura o con un ascolto − materiali di preferenza autentici, dove trovano posto anche i “vabbè”, i “boh”, le variazioni d’accento e di tono −, parlano dei contenuti con i compagni, ricompongono o completano testi, giocano, cantano, recitano, scoprono i meccanismi di funzionamento della lingua, li analizzano, scrivono imitando un modello e poi provano a scrivere liberamente.
A questo punto si specifica chi è il destinatario (un amico, un conoscente, un perfetto sconosciuto?), qual è lo scopo (informare, convincere, protestare?) e, se l’attività si svolge in classe, quanto tempo c’è a disposizione. Ancora una volta, si tratta di allenare non solo la competenza linguistica, che riguarda le forme, ma anche quella comunicativa, che riguarda i significati e che si estende al contesto.
Se chiedo di inventare una storia, per reperire le idee parto da un’immagine, ricorro al brainstorming oppure al diagramma a ragno, una forma più strutturata di brainstorming (sulla lavagna scrivo una parola alla quale vengono collegate, come “zampe”, altre parole emerse per associazione o per conseguenza logica).
Gli studenti possono consultare il dizionario, ma un ottimo esercizio è anche quello di limitarne o vietarne l’uso. Così, dopo i vari “nooo!”, “oh my gosh!” e “perché?!”, dovranno attuare delle strategie per sopperire alle carenze lessicali. Mi viene sempre in mente quello che dice Y in Dialogo dei massimi sistemi di Tommaso Landolfi, un autore (e traduttore) che con la lingua giocava parecchio:
«[…] secondo me è di gran lunga preferibile scrivere in una lingua imperfettamente conosciuta, anziché in una che ci sia compiutamente familiare. […] chi non conosce le parole proprie a indicare oggetti e sentimenti, è costretto a sostituirle con perifrasi, e cioè di’ pure con immagini […]. Così, evitate le parole tecniche e i luoghi comuni, che altro s’oppone alla nascita di un’opera d’arte?».
Ecco allora che le foglie diventano i “capelli dell’albero”, la lampadina un “occhio di luce”, l’edicola la “casetta con i giornali porno” e così via, all’infinito. Ciascuno attinge dal proprio bagaglio creativo/esperienziale. Qualche anno fa, per esempio, un cantante lirico statunitense mi ha chiesto se fosse un errore scrivere “infante” al posto di “bambino”. Era abituato a leggere libretti d’opera e “infante” gli suonava più familiare.
Terminato il lavoro, si passa all’editing tra pari. Non invito alla correzione – non uso mai questa parola, che evoca il concetto di “giusto” e “sbagliato” −, ma al miglioramento. Formo delle coppie e gli studenti si scambiano gli elaborati. Oppure, sempre insieme, si concentrano prima su un testo e poi sull’altro. Io resto a disposizione se ci sono dubbi e domande, però me ne sto in disparte, non gironzolo tra i banchi come una sentinella.
Se la classe è pigra e nessuno chiede nulla, lancio provocazioni giocose. Christopher Humphris, uno dei miei formatori alla Dilit International House, ne suggeriva alcune molto belle. Per esempio, si va alla lavagna e si scrive: «Se avete dubbi chiamatemi». Il silenzio continua? Si torna alla lavagna e si scrive: «Se non avete dubbi siete: a) italiani, b) presuntuosi, c) stupidi».
Quando mi chiamano, potrei indicare direttamente la soluzione e approfittarne per sfoderare tutta la mia sapienza. Di sicuro susciterei immediata gratitudine e mi sentirei molto figa, ma sarei una pessima insegnante. Invece la mia risposta dovrà essere semplice e magari sollecitare un’indagine ulteriore.
Se qualcuno finisce troppo presto, mi avvicino, prendo il foglio, do uno sguardo e dico “ma i verbi?”. Poi me ne vado. La reazione classica è “sono sbagliati?”. Io risponderò con un’altra domanda: “voi che dite?”. Questa condotta, a volte incompresa e biasimata, è tesa a stimolare la capacità di problem solving, che si rivela fondamentale soprattutto fuori dall’aula.
L’editing, naturalmente, si può anche fare alla lavagna. Se un testo non è lungo, lo trascrivo e chiedo: “Che problemi ci sono qui? Mi aiutate, per favore?”. Recito la parte di Cappuccetto Rosso sperduta nel bosco, così gli studenti capiscono di avere un ruolo attivo.
Se non riescono a individuare i punti critici, fornisco qualche indizio, segnalando che si potrebbe controllare con più attenzione la terza riga, che ci sono due articoli un po’ strani oppure che, se un nome è femminile singolare, l’aggettivo maschile plurale non va bene, quindi?
Il tipo di intervento, comunque, dipende dal livello della classe e dalle circostanze. Per un po’ posso lasciar correre che un anglofono di livello A1 scriva «licenza di guida» al posto di «patente», mentre tendo a precisare subito che «visitare qualcuno» è accettabile se stiamo parlando di un medico, altrimenti bisogna dire «andare/venire a trovare qualcuno».
Ricordo una giornalista ungherese che mi chiedeva di essere corretta su ogni virgola e si arrabbiava se non la assecondavo. Non tollerava l’idea di non saper scrivere come avrebbe voluto. Le interessava ricevere supporto per essere perfetta, prima ancora che per raggiungere obiettivi concreti.
Con gli adulti non è raro che si verifichino episodi del genere, perciò l’unica regola che chiarisco fin dall’inizio è che certe preoccupazioni non servono.
Tra le cose che ho imparato insegnando italiano a stranieri, credo che la più rivoluzionaria sia proprio questa: l’utilità ha la precedenza su tutto il resto. E ne ho avuto definitiva conferma di recente, quando un gruppo di studenti del Bangladesh, l’ultimo giorno di lezione, mi ha regalato una bottiglia d’acqua.