di Chiara M. Coscia
Nell’universo della serialità televisiva, viviamo in un tempo di inizi. Iniziano serie nuove, miniserie, formati sperimentali, tutto comincia e vive in un continuum che spesso non si articola più nell’anno in anno ma nell’adesso e poi chissà quando. Le stagioni si susseguono senza necessariamente essere posizionate in un rapporto di continuità regolarmente scandita. Le serie continuano, continuano, continuano, e accade, spesso, che non “finiscano”, per diminuito interesse del pubblico e rientro del network, ma che vengano piuttosto tagliate in corso d’opera, monche senza la concessione di dignità di un “finale”. Questa sospensione è probabilmente la forma più diffusa di fine a cui vanno incontro la maggior parte delle serie TV, per esempio Sense 8, sospesa per via dell’enorme costo di produzione, e che solo grazie al suo successo tra i fan più accaniti ha ottenuto un episodio conclusivo. A questa interruzione in corso d’opera si affianca una forma di wrap-up affrettato e non programmato, che lascia sufficiente margine di apertura per possibili ripescaggi (vedi alla voce Twin Peaks), ma che dà comunque un minimo senso di chiusura, quanto meno alla stagione in corso.
A intervenire nella “vita” di una storia televisiva sono talmente tanti fattori che ben poco hanno a che fare con la storia in sé, che può succedere che una serie venga portata avanti pressoché all’infinito (Grey’s Anatomy) perché al network non converrebbe affatto concluderla, e quindi anche la sua scrittura cambia in funzione di questa riproducibilità ininterrotta. Oppure può anche succedere, fenomeno molto comune in epoca Netflix, che una storia con un finale perfetto (penso a tante possibili mini serie che sarebbero state ottime così, tipo The end of the f***g world, o Thirteen reasons why) venga poi rinnovata per via del suo successo, correndo il rischio narrativo di impoverire la struttura generale della storia. Insomma, sono relativamente poche le serie a cui è concessa una degna conclusione.
Tuttavia, il finale di serie programmato e pianificato come tale a volte arriva, e in questo maggio 2019, è argomento caldo, perché a finire è stata una delle serie più grandi (in dimensioni diverse, e da qualsiasi lato la si guardi) di tutti i tempi. Comincio facendo ammenda: Game of Thrones è finita da poco, troppo poco perché io personalmente riesca a osservarla con totale obiettività ed essere certa che i miei pensieri a riguardo siano proprio tutti miei. Ecco perché, nel mio scorso articolo, ho scelto di parlare di personaggi secondari, due dei quali già defunti al momento della stesura, e uno in procinto di. Sul finale di serie di Benioff e Weiss l’unica cosa che mi sento di dire ora è che avrei voluto di più. Più episodi, più minuti, più stagioni (gli ultimi tre episodi potevano tranquillamente bastare per un’intera Season 9), e soprattutto più Daenerys. Ma, come giustamente scrive uno dei pochi maschi bianchi che ancora considero mio maestro, Stephen King, non vorremo mai che le cose belle finiscano, eppure lo fanno.
È chiaro che i finali sono un terreno complicato, uno dei rischi più banali è arrivarci troppo in fretta, o troppo tardi, o giocarne con l’apertura/chiusura in maniera sciatta e poco attenta. Si cerca una completezza, dal finale, ma che non sia eccessivamente retorica, una chiusura che lasci spazio all’immaginazione dell’eternità della storia, che va avanti anche senza di noi. Vogliamo qualcosa che ci renda soddisfatti, ci emozioni e ci commuova. Ecco quindi una lista più o meno argomentata di quei finali di serie drama che salgono sul podio dei Best of, quelle serie che un finale, degno di questo nome, lo hanno avuto, con tanto di appropriata sottolineatura musicale.
Breaking Bad – “Guess I got what I deserved”
C’è poco da dire ancora sul finale di una delle serie più magistralmente scritte di sempre. Quello di Breaking Bad è il finale “perfetto”, non in termini assoluti ovviamente, ma relativi allo spettatore. Una conclusione intensa, coerente e soddisfacente per tutti i fan della serie, che è cominciata da ben due episodi prima del finale, per darci tutto il tempo di gestire il lutto. Il climax, infatti, arriva con l’episodio “Ozymandias”, l’indimenticabile e dolorosissima morte di Hank, il confronto con Jesse, la fuga con la piccola Holly. Heisemberg esce di scena, in un certo senso vittorioso, e resta Walter White, che fa quello che sappiamo avrebbe fatto dal primissimo episodio della serie: morire. Un finale, certo, non del tutto inaspettato ma comunque sorprendente, emozionante e splendidamente elaborato.
The Wire – “Keep the devil way down in the hole”
A Baltimora, tutto sommato, non è cambiato nulla. Nel finale riecheggiano le stesse domande senza risposta su cui si sono mossi tutti i personaggi che hanno provato a cambiare le cose nella città, domande sulla natura del potere, della giustizia, e di ciò che le persone sono capaci di fare quando occupano delle posizioni molto precise. Ma il tessuto urbano è un animale che vive di vita propria.
Il finale amaro di The Wire arriva a mettere insieme tutti i fili del sistema urbano di interrelazioni che si sostengono e si autoalimentano l’una con l’altra (la politica, la criminalità, la polizia, la stampa) tutto finalizzato al mantenimento dello status quo. La carrellata finale sui personaggi che abbiamo seguito in cinque stagioni ci rincuora o ci rammarica, a seconda del caso. La città, tuttavia, protagonista assoluta dello show, non ne esce affatto vincente.
Mad Men – “It’s the real thing what the world wants today”
Tra le cose per cui abbiamo amato MadMen c’è di sicuro il fatto che ci ha raccontato delle storie sullo sfondo della Storia. Abbiamo visto i nostri protagonisti scalciare contro le trasformazioni epocali di quei decenni, trascinandosi dietro la rappresentazione degli Anni Cinquanta, con i suoi ruoli incapsulati e le dinamiche asfissianti. Quel senso di casa, di nostalgia, di riconoscimento per un immaginario, più che per un reale passato, una raffigurazione attraverso gli oggetti, i consumi, le ambientazioni in relazione dialettica e narrativa, più che reale, con il presente, si è man mano sgretolato insieme alla capacità di Dick Whitman di stare dentro Don Draper.
Lo sapevamo dal primo istante del primo episodio, da quella iconica sigla d’apertura, che Don Draper, però, sarebbe atterrato sul morbido. Dopo averne osservato una devastante e progressiva caduta come essere umano, per tutta la serie, alla fine a restare in piedi è il creativo, il suo talento, la sua unica imprescindibile dote, the real thing.
I Soprano – “Oh, the movie never ends, it goes on and on and on”
Qualche giorno fa ho letto un commento che mi ha divertita moltissimo sul finale de I Soprano che faceva più meno così: “Ho una cosa da dire sul finale de I Soprano, ed è”. Questa battuta secondo me racchiude perfettamente il senso di frustrazione che molti hanno provato sullo schermo nero – dieci secondi di schermo nero, una scelta narrativa precisissima che per molti è stata scambiata da un’interruzione di segnale – che si chiude su Tony Soprano. Eppure siamo di fronte a un miracolo di scrittura televisiva. Ebbene sì, sono del partito del sì. Per me quei cinque minuti finali sono i cinque minuti più intensi di tutta la serie.
Ricordo pochi momenti così nitidamente come Tony che sposta lo sguardo dal menù alla porta, le persone nel locale, la tensione che si somma a ogni ingresso, l’uomo con la giacca con cui avviene lo scambio di sguardi su cui tanto è stato scritto e ipotizzato, e soprattuto quello stacco, quei dieci secondi di nero, subito dopo quel “Don’t stop”. Credo che nessuno di noi avesse mai pensato di potersi emozionare su “Don’t Stop Believin’” dei Journey, eppure adesso è pelle d’oca ogni volta che parte l’attacco. Il finale de I Soprano è l’essenza assoluta del finale aperto, si interrompe così, bruscamente, mentre in cuor nostro gli imploriamo “Don’t stop”. Moltissime teorie si sono sommate, Wikipedia dedica un intera sezione alle più accreditate. La mia personale lettura è che non importa cosa succede e cosa sarebbe successo.
In un momento di fisica quantistica in cui, in quei dieci secondi, sono tutti contemporaneamente vivi e morti per sempre, quella che abbiamo visto è semplicemente una storia su cui a un certo punto si è spenta la luce. Non è Tony Soprano ad essere finito, non è il personaggio a concludersi, né la sua storia, bensì il nostro sguardo, il nostro viaggio, la nostra esperienza di spettatori. A riempire quei minuti c’è un’angoscia che si costruisce inquadratura dopo inquadratura, a volerci ricordare che la storia che stiamo guardando non è soltanto una storia di criminalità quanto prima di tutto la vita di un uomo afflitto da un vuoto esistenziale, abituato a vivere in costante stato d’allerta. E così siamo noi spettatori, alla fine, in allerta, imbevuti di una duplice tensione: cosa è appena capitato a Tony, e cosa sta capitando a noi.
Lost – (che è Lost, e ha la sua musica strappacuore)
Il finale che più ha fatto parlare di sé, quello da cui molti di noi ancora non si sono ripresi. Un momento di tristezza acuta nei confronti di una storia che ha messo su una complessità e molteplicità di livelli narrativi da rivelarsi impossibile da chiudere. E infatti Lost è lost, un universo dal peso epistemologico infinito, un cronotopo senza possibilità di disinnesco in cui l’unica cosa che davvero, infine, ci risulta intellegibile sono le vite dei personaggi che abbiamo amato per sei stagioni.
Le domande che abbiamo, quel vuoto ancora pieno di dubbi, sono le domande di Jack a Christian alla fine. Dove siamo? Dove andiamo? Perché? Quando Christian dice a Jack che siamo lì per “ricordare e farcene una ragione”, possiamo solo piangere e ridere contemporaneamente, in questa sospensione nell’impossibilità di rassegnarci (come Jack) che la nostra fede nei personaggi ha vinto sul nostro desiderio di conoscenza, e che solo così possiamo andare avanti e abbandonarci all’abbraccio del saluto a questi volti che amiamo.