Il parere negativo di Fabrizio Coscia
Quello che dirò qui farà arrabbiare i fan di Bret Easton Ellis, ma tant’è: mentre sfogliavo Bianco ho dovuto trattenere una certa irritazione. Mi veniva continuamente voglia di dire al suo autore: «Spostati, che non mi fai leggere il libro». Raramente mi è capitato di imbattermi in un testo così narcisisticamente autoreferenziale, supponente, banale, e in definitiva – per usare un solo aggettivo drastico – inutile. E non è una questione del fare saggistica parlando di sé, ci mancherebbe: che la critica sia sempre una sorta di autobiografia, un «resoconto dell’anima», per dirla con l’Oscar Wilde del Critico come artista è cosa già nota. Soprattutto negli ultimi tempi prende sempre più piede, mi pare, un genere ibrido, quello che gli inglesi chiamano «personal essay», o «lyrical essay». La questione è piuttosto nella differenza tra l’io e l’ego. Nel primo caso l’autobiografia serve a illuminare l’oggetto del discorso, nel secondo a oscurarlo. Ed è un po’ questo che succede con Bianco, raccolta di riflessioni e considerazioni sparse di un ex «giovane e famoso scrittore americano che rimorchiava in lungo e in largo per Manhattan con un best seller a ventitré anni». Si ha la sensazione un po’ patetica, leggendo il libro, di trovarsi davanti a uno di quei vecchi amici che un tempo hanno avuto molto successo in qualche campo e poi si sono trasformati in degli insopportabili brontoloni, incapaci di staccarsi da quel loro passato e di comprendere il presente. Intendiamoci, stiamo parlando di uno scrittore di talento, che ha segnato la letteratura americana degli anni Ottanta (non la mia vita di lettore, però, anche se questo non ha alcuna importanza), ma a maggior ragione libri del genere ce li saremmo risparmiati volentieri da chi sembra adesso solo preoccupato di ostentare il suo essere ancora molto glamour, coi suoi riferimenti ai completi Armani, il suo modo di scrivere sempre così cool e brillante, il suo snobismo un po’ fané. Del resto, sarebbe bastato guardare la copertina del libro, per intuirne il contenuto: un Ellis visibilmente imbolsito ma di impeccabile eleganza campeggia a figura intera, con la mano davanti alla bocca, in una posa tra lo stupito e il civettuolo. Il senso del libro, in fondo, è tutto qui. Per il resto, una prolungata, insistita requisitoria contro l’ossessione molto americana del political correctness che ha soprattutto in Hollywood il suo bersaglio preferito, molto cinema (con lunghe digressioni sugli horror dell’infanzia, Richard Gere e Tom Cruise), considerazioni su ciò che è Impero (americano) e ciò che è post-Impero (con un particolare accanimento contro il fanatismo radical e progressista degli oppositori di Trump), accenni ai vari fidanzati millennial, all’uso consueto di cocaina e all’abuso di benzodiazepine, scontate riflessioni sui social network («la maggior parte di noi oggi conduce sui social una vita che è più fondata sulla finzione di quanto non fossimo in grado di immaginare anche solo una decina di anni fa, e grazie al germogliare di questo culto della popolarità in un certo senso siamo diventati tutti degli attori»). Su quest’ultimo punto, infatti, Ellis – attivissimo su Twitter – non fa che riciclare le tesi ormai risapute della psicologa Shirley Turkle (ma senza mai citarla) sui danni dell’iperconnessione. Ciò che manca in tutto questo, sorprendentemente, è soprattutto la letteratura: pare che Ellis abbia letto soltanto Joan Didion, Le correzioni di Franzen, che ammette suo malgrado essere il romanzo che avrebbe voluto scrivere, e David Foster Wallace, ma quest’ultimo è nominato solo per essere denigrato anche post-mortem: Ellis lo definisce un «artista insincero» e lo «scrittore più sopravvalutato della nostra generazione, oltre che il più pretenzioso», salvo poi poche righe dopo, con scarsa coerenza, riconoscere che era un «genio» (Su DFW si vadano a leggere invece le bellissime pagine di Franzen in Più lontano ancora). A non mancare mai sono invece i suoi stessi libri, naturalmente. Ho contato che American Psycho è citato ben quaranta volte. È tutto un susseguirsi di «Avevo iniziato a prendere appunti per American Psycho nell’ultima settimana di dicembre del 1986», o: «Quando nell’autunno del 1989 stavo terminando American Psycho», e: «anni prima che cominciassi American Psycho»; per non parlare delle auto-celebrazioni del romanzo del tipo: «Per molti versi American Psycho è una perfetta serie di selfie di un uomo», o: «American Psycho parlava di cosa significasse essere una persona immersa in una società con cui era in disaccordo e di che cosa accadeva quando si accettava di vivere secondo i valori di questa pur sapendo che erano sbagliati»; o ancora: «Tutti i temi del romanzo sono ancora dominanti tre decenni dopo», e: «New York dal 2016 in poi è stata American Psycho all’ennesima potenza», ecc. ecc.
Ora, tutto questo compulsivo ritornare a un proprio libro scritto trent’anni fa mi ha fatto venire la curiosità di riprendere in mano il romanzo. Quando lo lessi la prima volta, a poco più di venti anni, mi colpì molto: trovavo geniale quel continuo nominare gli abiti e gli oggetti griffati (o i negozi dove venivano acquistati) – vi vedevo un che di sperimentale perfino, da nouveau roman, per intenderci – e quella bolla di esteriorità vacua in cui i protagonisti galleggiavano. E anche la violenza descritta in maniera così fredda, così estraniata, la trovavo molto indovinata, molto perturbante. Ebbene, rileggendo questo romanzo epocale (tutta la turpitudine degli anni Ottanta, dell’era reaganiana sembrava trovare qui la sua più fedele e visionaria rappresentazione) confesso di essermi annoiato a morte, di aver faticato ad arrivare alla fine: quelle stesse cose che allora mi avevano galvanizzato, adesso le trovavo fasulle, premeditate, inutilmente ripetitive. Il guaio di questo romanzo, secondo me (come in parte anche dei due precedenti, Meno di zero e Le regole dell’attrazione, ma dovrei rileggere anche quelli per esserne sicuro) è che è stato scritto con l’obiettivo programmato di essere lo specchio rifrangente di un momento preciso della storia americana, con la preoccupazione costante di risultare “emblematico” di un’epoca, così che il lettore vi legge subito l’intento, lo studio a tavolino, la volontà di significare qualcosa, e i personaggi appaiono inevitabilmente burattini in mano allo scrittore, messi lì per confermare la sua tesi, privati di vita propria. Ecco, se dovessi fare un paragone cinematografico, i libri di Ellis degli anni Ottanta mi ricordano molto i film di Antonioni degli anni Sessanta: al loro apparire si percepiva tutta la loro modernità, il loro essere in perfetta sintonia con lo Zeitgest dell’epoca (con tutto quel rimandare a concetti come «alienazione» e «incomunicabilità») e proprio per questo sono stati condannati poi a invecchiare rapidamente, a risultare dopo qualche decennio irrimediabilmente datati.
E comunque questo non è il caso di Bianco. Qui ci troviamo di fronte a un libro con un problema inverso. Lo si legge senza mai riuscire a liberarsi dall’impressione che chi lo ha scritto sia il reduce, un po’ malconcio, di un’epoca passata. Molto più Sunset Boulevard (Viale del tramonto), insomma, che “Brat Pack”. Avevo detto irritante, all’inizio. Ho sbagliato: è un libro tragicamente malinconico.
Il parere positivo di Marta Ciccolari Micaldi (aka McMusa)
La prima volta che lessi le parole di Joan Didion sul movimento femminista in The White Album rimasi scioccata: distruggeva quello in cui era sempre stato giusto credere. La seconda volta che lessi le stesse parole non pensai niente, semplicemente le rilessi. La terza volta, siccome non riuscivo a smettere di leggerle e di pensare che fossero molto più potenti del credo con cui qualsiasi lettore – me compresa – si approcciasse ad esse, le studiai. Finii per comprendere quel reportage al punto da insegnarlo, trasmetterlo, comunicarlo e considerarlo la più raffinata definizione di femminismo che siamo in grado di leggere oggi.
Bret Easton Ellis, uno dei più importanti e irritanti scrittori contemporanei, dichiarò diversi anni fa di aver rubato a Joan Didion tutto quello che sapeva: la tensione della scrittura, i vuoti e i pieni della loro Los Angeles, la perdizione glamour e narcolettica di molti dei loro personaggi. Lo stile, anche. Se per la narrativa questo filo ereditario è piuttosto irrefutabile (la stessa Didion ha “benedetto” il suo ladro), oggi il banco di prova del loro legame sembra farsi più duro: l’ultimo libro di Bret Easton Ellis, Bianco, è la sua prima prova di non fiction e la non fiction è la quintessenza del didionesque (sì, Joan Didion ha impresso così tanta personalità alla scrittura da far sì che la critica ne derivasse un aggettivo). Al centro delle sue riflessioni non c’è (solo) il movimento femminista bensì una manciata di valori liberal e politically correct in cui gli Stati Uniti hanno rispecchiato una parte della propria identità dal cambio del millennio fino a oggi. Scomodo, dunque: Bret Easton Ellis ha pubblicato un libro scomodo, fatto di riflessioni (e aneddoti) personali, scritto in una forma a lui nuova e diretto a un pubblico di cui critica apertamente e abbondantemente la morale. Il tutto teso verso una puntualità di tono e stile che – ammettiamolo subito – rimane al di sotto sia del didionesque che del migliore Ellis narrativo.
Portare un lettore a cambiare idea sui propri valori, a vederne i limiti e a rendersi disponibile a un ripensamento che poi scopre risolversi in un’illuminante crescita personale, questi sono poteri che detiene solo la migliore scrittura. Bret Easton Ellis è troppo divertito da se stesso per chiedere questo alla sua scrittura e, infatti, Bianco suscita più critiche che apprezzamenti. Perché leggerlo, allora? Perché immergersi in un ambiente così lontano dal nostro – è bene ricordare che gli Stati Uniti, soprattutto Los Angeles, non combaciano perfettamente con l’Italia e che alcuni dettagli sarebbe opportuno non farli totalmente propri ma mantenerli nel contesto in cui vengono riportati – e rischiare di essere annoiati o criticati, per di più su un terreno dove non desideriamo addentrarci?
Per ragionare su cosa sia un’opinione. Per leggere – con la lentezza che la lettura richiede, i salti di riga, le riletture, le reazioni, con il tempo che la pagina per forza impegna – il pensiero di un uomo brillante che ragiona in modo indipendente. Qualcosa di cui abbiamo tremendamente bisogno.
Bret Easton Ellis non ha scritto un libro d’insuperabile grazia o di irreprensibile coerenza, ma si è prestato a fare una cosa che non sta facendo nessun altro: offrire un’opinione scomoda, argomentata nei dettagli ed esplicita nelle sue contraddizioni, onesta nel suo essere personale e, allo stesso tempo, abbastanza coraggiosa da obbligare il lettore a fronteggiare lui stesso una questione. Rispondere a questa onestà con altrettanta onestà: la mia confessione per la tua. Almeno nella testa, almeno se anche tu – sembra volerci dire Ellis – hai un po’ dello stesso coraggio che ho io.
Quali sono, dunque, i temi su cui lo scrittore ci invita, o sarebbe meglio dire ci sfida, a compiere un ripensamento? Per prima cosa, si diceva, tornare a riflettere su cosa sia realmente un’opinione. Qualcosa che ha meno a che fare con lo sdegno, l’odio, l’ossessione e la pluralità e molto di più con il gusto, le contraddizioni, la libertà e la singolarità. In questo libro Bret Easton Ellis analizza e critica alcuni riferimenti inattaccabili di un certo tipo di pubblico (tendenzialmente quello che lo legge, quello che negli Stati Uniti si chiama liberal): lo scrittore David Foster Wallace, il film Moonlight, il colosso del giornalismo The New York Times, i GLAAD Awards (premi istituiti dalla Gay & Lesbian Alliance Against Defamation) e diversi altri. Partendo dalla propria esperienza personale – che spesso include cene con amici, sfoghi su Twitter, confronti con il suo partner molto più giovane di lui, chiamato il Millenial – Ellis arriva a rilevare e delineare nel mondo intorno a sé una conformità di pensiero e di azione che, per quanto poggi su principi corretti e condivisibili, ha smesso di tener conto e di valorizzare le opinioni in quanto tali. Conformità che – e questo è un altro significativo passaggio per cui vale la pena dedicare del tempo a Bianco – si riflette sul linguaggio. Da quello artistico a quello colloquiale, da quello della politica al dark humor. L’arte ha smesso di provocare, di graffiare, di scioccare (dicevamo, Joan Didion) perché né gli artisti né il pubblico hanno più un’opinione personale o, se ce l’hanno, devono sottostare al principio della likeability sui social network o del politically correct a Hollywood e nell’editoria. Princìpi, questi ultimi, che premiano numeri e massa, che sotterrano la bellezza in nome della morale, che ci rendono uguali nel senso più livellante del termine. L’arte e il pensiero, ci ricorda Ellis in Bianco – ma basterebbe riprendere in mano il suo American Psycho – sono tenuti per definizione a disturbare e creare contrasto e non ad accontentare e creare (sempre) consenso. Da quando, poi, si chiede l’autore, è diventato così necessario identificarsi con la vittima, premiarla (spesso con gli Oscar), osannarla e difenderla anche se non siamo noi stessi delle vittime? Questa è la parte del suo ragionamento più interessante e sottile, a mio parere. Politicamente e socialmente è fondamentale condividere valori di uguaglianza, rispetto e pari diritti per tutti, minoranze comprese. Ma è la stessa cosa a livello artistico, nel nostro quotidiano, con noi stessi? Siamo davvero sicuri che auto-censurandoci in nome di un valore politico da condividere a tutti i costi e con veemenza (irresistibili le battute di Ellis al suo partner, in cui gli dice che può dissentire dal pensiero di un altro senza per forza avere una reazione isterica) stiamo facendo andare il mondo in una direzione migliore? Il triviale, il dark humor, l’ironia e il dissacrante hanno sempre avuto un potere liberatorio ed esorcizzante: perché abbiamo finito per privarcene? Pensiamo tutti allo stesso modo, parliamo tutti la stessa lingua, ci indigniamo tutti per lo stesso nemico. Perché siamo così ossessionati da Trump da dimenticarci che lui è solo un individuo e individui – da riconsiderare, da incontrare, da rispettare – sono anche tutti quelli che l’hanno votato?
Joan Didion diceva che le donne e gli uomini sono diversi e lo sono in nome di quel “sacrificio di sangue” che le une pagano così tante volte nella vita da rendersi aliene agli altri. Le nostre differenze, in altre parole, ci rendono quello che siamo. Se c’è una lezione di Joan Didion che Bret Easton Ellis porta avanti non è nello stile bensì nella riappropriazione della singolarità, dei caratteri divisivi, dell’indipendenza dell’uno nei confronti dell’altro. Ultima nota, perché in fondo quello stile non è neanche tanto male e basta prestarsi un po’ al suo gioco: Bret Easton Ellis è un testimone e un esteta. Ha sempre scritto di sé: ogni età, ogni ossessione, ogni crisi, ogni depravazione. Ha sempre scritto con gli occhi: ogni corpo, ogni dettaglio, ogni brand, ogni moda. Questa volta ha scritto esplicitamente anche dei suoi lettori: sta solo a loro, allora, misurarsi con una parola che è tornata a provocare.