di Maria Fiorella Suozzo
Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, pubblicato per i tipi di Nero nel settembre 2019 nella collana di saggistica Not, non ha ancora fatto abbastanza parlare di sé. Innanzitutto perché la collana è velata da una patina vagamente apocalittica (molto affascinante in tempi tribolati come i nostri): vanta titoli come Tra le ceneri di questo pianeta e Realismo capitalista, in perfetta armonia con i lunghi articoli che la pagina di Not propone sui social, mentre questo testo di Donna Haraway, filosofa femminista con una doppia formazione umanistica e scientifica, è profondamente contrario alla visione tutto sommato confortante di un’apocalisse imminente.
Se ne potrebbe parlare di più anche perché le sue proposte s’intrecciano alle voci critiche più pop degli ultimi anni, come quelle sull’Antropocene e sul cambiamento climatico, ma sempre in maniera complessa ed espansiva, mai secondo un filo logico che si sposta da A a B bypassando gli infiniti snodi e percorsi possibili. Infine si potrebbe, e anzi si dovrebbe parlare di più dell’uso consapevole, “non innocente”, che si fa del linguaggio in questo saggio, che è al tempo stesso antropologia filosofica, opera divulgativa di biologia evolutiva e piccolo esperimento narrativo di fabula speculativa. Forse scontato, ma mai superfluo sottolineare che le traduttrici Claudia Durastanti e Clara Ciccioni hanno avuto proprio un bel daffare, ma lo hanno svolto in maniera luminosa.
L’ottimismo della complessità contro l’apocalisse della logica binaria
Il nostro pianeta è sovrappopolato, gli ecosistemi sono in pericolo, la nostra casa è danneggiata. La nostra era viene ormai comunemente definita Antropocene e negli ultimi anni non ci siamo fatti mancare neppure il millenarismo apocalittico. Le due risposte primarie dinanzi agli orrori di quest’epoca, che si può definire a seconda delle prospettive Antropocene, Capitalocene e Piantagionocene sono la “fede” e il disfattismo: solitamente l’uno esclude l’altro. L’autrice, da cui abbiamo già preso in prestito quelle tre etichette comode, ma anche inquietanti e rischiosamente semplicistiche, le descrive così:
“La prima è semplice da descrivere e anche da liquidare. Per farla breve, è la fede comica nella tecnologia riparatrice, che sia laica o religiosa. […] La seconda risposta, più difficile da accantonare, forse è ancora più distruttiva: sto parlando di quella posizione secondo la quale i giochi sono già fatti, è troppo tardi […] pensiamo di saperne abbastanza da giungere alla conclusione che una vita sulla Terra capace di includere gli esseri umani in maniera sostenibile non sia più possibile, che l’apocalisse sia davvero vicina” (pp. 16-17).
Per ovviare a questa situazione, per uscire dalla logica binaria degli aut-aut, Donna Haraway propone una gran quantità di concetti, tentando man mano di esplicarli con esempi anche molto concreti, ma per proporre questi concetti deve necessariamente servirsi di un lessico nuovo, esuberante e pirotecnico. Uso questi aggettivi non in quel senso ormai un po’ logoro di “linguaggio arzigogolato”, ma tornando ai loro significati primari: Chthulucene propone etimologie, genera combinazioni linguistiche inedite, gioca con il linguaggio in maniera vitale, briosa, esplosiva.
La soluzione primaria diventa “restare a contatto con il problema” per “imparare a vivere e morire bene su un pianeta danneggiato”. Queste proposte sono evidenti fin dal titolo dell’originale inglese: Staying with the Trouble. Making kin in the Chthulucene, laddove quel “sopravvivere” del titolo italiano appesantisce un po’ inutilmente il senso delle sue proposte, e “pianeta infetto” ha una sfumatura vagamente diversa, quasi da B-movie, rispetto a “pianeta danneggiato”.
La prima parola esplosiva è proprio Chthulucene: come non pensare agli orrori abissali evocati da H.P. Lovecraft? Eppure non è al Maestro di Providence che si ispira il titolo di questo saggio, e un primo segnale arriva già dalla grafia, dalla posizione delle h, che nel nome del mostro tentacolare sono distribuite diversamente: Cthulhu. Lo Chthulucene è così battezzato in onore del ragno Pimoa Cthulhu, la cui denominazione tassonomica deriva, questa sì, da Lovecraft, in virtù della stima che il biologo Gustavo Hormiga nutriva verso lo scrittore, ma passando attraverso il vaglio della parola greca khthôn “terra”, da cui “creature ctonie”.
Rifiutare le correlazioni più immediate per trovarne di nuove, più antiche oppure del tutto inedite, è una delle proposte per “mondeggiare”, per imparare a essere “responso-abili”. Donna Haraway dichiara di esercitare “la libertà di salvare il mio ragno da Lovecraft per raccontare altre storie […] I terrificanti serpenti ctoni dell’oltretomba di Lovecraft erano terribili solo in un contesto patriarcale” (p. 203). Queste altre storie, liberate dalle forze dell’Antropos/eroe e dell’Antropocene, attendono di essere raccontate, o meglio generate e intrecciate.
Il ragno Pimoa Cthulhu è uno dei tanti esempi non-umani con cui questo saggio ci mantiene ancorati alla terra (viene quasi da pensare all’imperativo di essere fedeli alla terra, ma forse l’autrice non apprezzerebbe questa eco nietzschiana). È una dimostrazione concreta, terrestre, che “niente è connesso a tutto, tutto è connesso a qualcosa” (p.52): questo aracnide tentacolare a otto zampe ha un suo posto nel mondo, si destreggia tra terreni e radici, ma il suo habitat e il suo nome spalancano numerose porte. Le parole d’ordine sono connessioni, parentele impreviste, humus/humusità, pensiero tentacolare. È “un modo di fare teoria nel fango, di stare nel disordine” (p.53). Parole e concetti come umano e parentela (kin) vanno sottoposti ad un processo combinato di analisi etimologica, svuotamento e risignificazione, condotto un po’ nel testo, maggiormente nelle note, ma intrecciati a tal punto che leggere le note è come leggere un’appendice quasi ipertestuale (tentacolare!) che espande e crea nuovi collegamenti in molte direzioni diverse.
Le parentele impreviste e l’humusità contro l’antropocentrismo
A titolo esplicativo, si riportano due giochi linguistici di speciale interesse per il discorso portato avanti in questo testo. È importante comprendere quali pensieri pensano altri pensieri, quali concetti concettualizzano altri concetti: queste formule ricorrono molte volte nel testo e sarebbe buona pratica esercitarsi a questo tipo di comprensione nella vita di tutti i giorni.
Partendo da un senso d’insoddisfazione verso il concetto di postumanesimo, l’autrice propone l’espressione humusità facendo leva sul fatto che uomo, lat. homo, ing. human è corradicale di humus, terra. Fin qui ci siamo: probabilmente in Italia un fatto simile non fa tanto scalpore, ma noi abbiamo un rapporto più trasparente con l’antenato latino, mentre l’inglese ha ricevuto il termine in prestito dal francese. Il passaggio successivo, però, è decisamente meno intuitivo: sostituire humusità ad umanità significa scavalcare la centralità dell’Antropos (responsabile, come sappiamo da almeno una decina d’anni, della distruzione di interi ecosistemi e di aver lasciato la sua traccia perfino nella stratificazione delle rocce), e sostituire al postumanesimo il concetto di compost. Si genera così una catena di concetti imparentati: humusità, creature ctonie, Chthulucene. Una visione che si sforza, a partire da un linguaggio “non innocente”, di abbandonare l’eccezionalismo umano in favore di un pensiero laterale, decentrato e tentacolare.
Un’operazione simile viene fatta col concetto di parentela, il cui corrispettivo inglese kin è imparentato con il latino gens, che definiva un’area semantica di istituzioni patriarcali. Ma la parentela invocata da Donna Haraway è storicamente situata, richiede il riconoscimento di “specificità, priorità e urgenze” (p. 238) che abbiano lo scopo di formare alleanze responsabili. Chi genera legami familiari in maniere non convenzionali è un kinnovator: l’immigrazione non-razzista, il sostegno ambientale e sociale per i nuovi arrivati e per i nativi sono esempi di questo tipo di parentele (la questione dei nativi non suona forse rilevante per noi italiani, ma in America e in Australia è un argomento di centrale importanza). Lo slogan radicale “make kin, not babies” è opinabile, forse può suonare persino ridicolo, ma ha il pregio di porre l’accento su un problema ampiamente dibattuto, quello della sovrappopolazione, dissociandosi in maniera netta dalle politiche di contenimento della popolazione e dalle malcelate critiche razziste sui paesi in via di sviluppo. “Dovremmo celebrare le parentele impreviste, non nataliste e fuori da ogni categoria” (p. 240).
Raccontare “l’altra storia”
Al netto dei “mondeggiamenti tra arte e scienza” fatti di discorsi sulla biologia evolutiva, sul concetto, pure interessantissimo, di simpoiesi e sui tanti esempi di ecosistemi danneggiati ma parzialmente recuperati, per chi si occupa di letteratura l’aspetto più interessante di questo libro è probabilmente la sua visione della narrazione: narrazione dell’uomo, narrazione del mondo.
Uno dei modi per restare a contatto con il problema è sicuramente raccontare storie. È un fatto noto dalla notte dei tempi, lo si menziona quando si parla delle incisioni rupestri preistoriche e dell’origine del linguaggio umano, è diventato un mantra anche per la nostra epoca, sebbene le storie più diffuse oggi siano narrazioni auto-esibite, valide solo 24 ore, di sezioni scelte, il più possibile invidiabili, della nostra quotidianità. Ma Donna Haraway parla di una specifica storia che viene raccontata da millenni, e nel farlo s’imparenta a Virginia Woolf e a Ursula Le Guin. La prima, ne Le tre Ghinee (1938), dichiara di non avere patria, se l’alternativa implica l’esser parte integrante di un sistema patriarcale e militarista che ricorre sistematicamente alla guerra; la seconda, in The Carrier Bag of Fiction (1986), ammette di non sentirsi rappresentata dalla grande storia dell’Uomo-Eroe, di non sentirsi neppure umana, se i due termini sono in relazione d’identità.
Questa parentela nasce dal tentativo di raccontare “l’altra storia”, di proporre altri modelli narrativi che siano generati da diversi schemi cognitivi. Per Ursula Le Guin significa innanzitutto abbandonare le meravigliose sorti progressive del viaggio dell’eroe (con buona pace di Christopher Vogler e anche di Joseph Campbell, che nel campo della mitologia comparata ha fatto un lavoro poderoso). Donna Haraway pesca a piene mani dal saggio dell’autrice statunitense, con la quale condivide la profonda urgenza di superare l’eccezionalismo, che potremmo anche chiamare specismo e, un po’ più con le pinze, machismo: insomma di superare l’Antropos come unico protagonista della storia.
“Raccontare storie non può essere più una prerogativa dell’eccezionalismo umano. […] Quasi tutta la storia della terra è stata raccontata in balia di una fantasia: la fantasia delle prime bellissime armi e delle prime bellissime parole; la fantasia delle prime bellissime armi come parole, e viceversa. Strumento, arma, parola: la parola fatta carne a immagine del dio dei cieli, questo è l’Antropos. In una storia tragica in cui c’è un solo attore reale, un solo vero creatore del mondo, l’eroe, questo è il racconto del cacciatore in missione che va a uccidere e torna con il terribile trofeo, la storia che genera l’Uomo. È un racconto di azione crudo, feroce e combattivo che posticipa la sofferenza della passività collosa e ammuffita oltre la soglia della sopportazione. Tutti gli altri in questo racconto fallico sono solo oggetti di scena, terreno, appigli per la trama o prede. Non hanno importanza, il loro compito è stare in piedi, essere scavalcati, essere la strada, il condotto, ma non il viandante, non il genitore. L’ultima cosa che l’eroe vuole sapere è che le sue bellissime parole e le sue bellissime armi saranno inutili senza una sporta, un contenitore, una rete” (pp. 63-64).
La teoria della “sporta del narratore” non significa aborrire tout court le narrazioni eroiche, ma dimostrare che un’altra storia è possibile. La stessa Ursula Le Guin sosteneva di apprezzare il genere romanzo, perché prediligeva le persone agli eroi; Donna Haraway ha preferenze diverse, forse più esclusive, sicuramente orientate alla fantascienza generatrice di mondi possibili, ma non manca di suggerire letture e visioni anche molto pop. La fabula speculativa I bambini del compost, che chiude il libro, propone un viaggio attraverso cinque generazioni di Camille, creature nate in simbiosi con un partner animale, la farfalla monarca. Ciascuna di queste Camille si è nutrita di storie, a volte di nicchia, altre persino mainstream: non è forse una narrazione più tentacolare, meno specista, quella immaginifica dei film di Hayao Miyazaki, e non è precisamente simpoietica la relazione del daimon animale con il proprio umano in Queste oscure materie di Philip Pullman?
Come scriveva Ursula Le Guin già nel 1986, It is a strange realism, but it is a strange reality.