fuoricollana, vita e narrazione
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Il racconto del gran teatro del Rugby

“La testa contro le chiappe di Mello, aspettavo che la palla gli sbucasse tra le gambe. Fu troppo lento. Mi stavo allontanando, quando il cuoio rimbalzò tra le mie mani e, prima che riuscissi a passare, una spalla mi colpì la mascella. I denti sbatterono con tale violenza che rimasi stordito. E tutto si fece nero.”

Quando ti rialzi dal nero che segue allo scontro sei stordito, tutto quello che vuoi è uscire dal campo: sei stremato, forse hai freddo, sicuro ti manca la mamma. È il primo placcaggio, il primo scontro di gioco della tua vita e hai conosciuto il più ruvido dei momenti del rugby. Sei nato di nuovo, questa volta in mezzo al campo, e non puoi più nasconderti. Non ti resta che continuare a combattere, come Arthur Machin, il protagonista de Il campione di David Storey (66thand2nd, traduzione di Guido ed Irene Bulla).

Arthur è un tornitore, un operaio figlio del proletariato britannico del secondo dopoguerra, nato e cresciuto nel nord dell’Inghilterra. Alter ego perfetto di Storey, rugbysta e figlio di minatori che a ventisette anni pianta una promettente carriera sportiva a Leeds per una borsa di studio a Londra. Una storia di riscatto che riverbera in quella del giovane campione Arthur, in costante lotta, più che con gli avversari, con il conformismo e la mediocrità che ricoprono menti e cuore come la cenere di industrie e miniere opprime i centri industriali inglesi del tempo. È un giovane arrabbiato Arthur/Storey. Sarà per questo che mi piace.

Per questo certo, e per la totale assenza di retorica che aleggia attorno al suo rugby scritto. Non un passaggio che puzzi anche solo da lontano dell’esotismo stanco, sbiadito dai frequenti lavaggi prima dell’uso a febbraio, quando inizia il Sei Nazioni, che da sempre circonda la palla ovale nel nostro paese. La retorica dell’Italia bella e perdente, del terzo tempo festoso, palla indietro e sguardo avanti, una certa narrazione imperniata sul fair play da opporre all’abitudine stanca del calcio, dei suoi riti e dei suoi scandali, in un’antitesi che continua dalla nascita stessa dei due sport, perché il rugby, come dice Marco Paolini nel suo spettacolo teatrale Aprile ‘74 e 5:

“sta al calcio come la prima sta alla seconda guerra mondiale. Il rugby è antico, lento, è una guerra di prime, seconde e terze linee e fanterie contrapposte, guerra di trincee. Fanterie che marciano a conquistare la terra del nemico. A rugby conta solo il fattore terra. Non è come il calcio, il blitz, il contropiede, la guerra-lampo, roba elegante, da individuali. A rugby conta solo il gioco collettivo: terra da conquistare, linea dopo linea, fino all’ultima trincea che, non a caso, si chiama meta.”

A teatro per vedere lo spettacolo ci andai in una sera umida di novembre con una ragazza che mi piaceva parecchio, ma per una oscura congiunzione astrale mi ritrovai seduto accanto a metà della mia squadra di rugby. Fu così che mancai la prima meta della serata ma passai il tempo a discutere della tecnica di placcaggio recitata da Marco Paolini con Corrado, uno dei giocatori storici della nostra squadra. Certo, diceva, secondo me resta un po’ troppo alto ma non è male, non è male per niente. Quella sera scoprii non solo che Corrado avrebbe fatto giocare Paolini nella sua squadra, ma, con mio sommo sbigottimento, che un maestro del teatro del nostro tempo era stato un rugbysta.

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Quando Harold Pinter, premio nobel per la letteratura nel 2005, vendette il suo archivio alla British Library per quasi due milioni di euro, dai centocinquanta scatoloni che componevano l’archivio del drammaturgo emerse il tesoro della corona: un epistolario lungo decenni con Samuel Beckett, che in gioventù fu un discreto giocatore. I due parlano di teatro certo, di poesia e salute reciproca ma molto, moltissimo di rugby e cricket, grandi passioni sportive di entrambi. Rugby e teatro. Forse più che una guerra dunque “Il rugby come rappresentazione artistica della vita. Uno spettacolo magnifico: balletto, opera e all’improvviso il sangue di un delitto.” Come ebbe a dire l’attore, e giocatore, Richard Burton.

Anche ai nostri giorni Beckett continua a finire di diritto nelle squadre di rugby formate da celebrities che appaiono a intervalli regolari sui giornali anglosassoni, dove di solito, visto il ruolo affine, finisce per formare una coppia esplosiva con Che Guevara. A sua volta il drammaturgo volle creare una sua squadra di scrittori e letterati irlandesi e inserì un altro campione della letteratura mondiale tra i suoi compagni: James Joyce. Da quel poco che sappiamo Joyce, al contrario di Beckett, non provò mai a giocare, forse troppo riflessivo per uno sport così istintivo, impastato di nervi tesi e lucidità agonistica, ma era sicuramente uno spettatore attento ed entusiasta.

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È così che l’haka degli All Blacks, la danza di guerra maori della nazionale neozelandese, mito fondante nella cosmogonia del rugby, finisce tra le pagine di Finnegans Wake. Siamo nel 1925, Joyce è a Parigi e nella capitale francese arrivano gli Invincibles. Li chiamano così questi maori giunti dall’altro capo del mondo. E fanno bene. Delle trentadue partite giocate tra Canada, Regno Unito, Irlanda e Francia quella squadra non ne perderà neanche una.  Joyce si reca allo stadio des Colombes, reso celebre da due pellicole cinematografiche a tema sportivo, Momenti di gloria e Fuga per la vittoria. Gli All Blacks annichiliscono la nazionale francese con un perentorio 37–8, e stregano lo scrittore irlandese con la loro Haka.

Lo scrittore esce dallo stadio frastornato ed entusiasta. È così rapito dalla danza di guerra maori da inviare immediatamente una lettera a sua sorella Poppy, nomignolo di Margaret Alice Joyce, che dal 1909 vive, con il nome di Suor Mary Gertrude, in Nuova Zelanda, pregandola di inviarle il testo dell’haka con una traduzione e qualche cenno sulla musica della danza maori. Quattordici anni dopo quella partita Finnegans Wake viene pubblicato a Londra. Nel terzo capitolo del secondo libro il flusso di coscienza si interrompe per far spazio all’Haka neozelandese: “Ko Niutirenis hauru leish! A lala! Ko Niutirenis haururu laleish! Ala lala!”

Il mito degli All Blacks, il sogno dell’haka che ha stregato migliaia di ragazzini scartati da altri sport, come me, troppo scarso coi piedi, recuperato da una disciplina in cui c’è un posto per tutti, l’alto e il basso, il taciturno e l’iperattivo, è alla base del fascino di questo sport che imita la vita, la guerra e il teatro. Una danza che dal 1905 spaventa gli avversari sui campi di tutto il mondo. È quello l’anno in cui per la prima volta sbarcano in Europa i TuttiNeri. Prima degli Invincibles del ’27 ci sono gli Originals: la nascita stessa della leggenda, l’inizio dell’epica. In altre parole la versione kiwi degli Avengers Marvel. Sono ventisette ragazzi che arrivano in nave dalla estrema periferia dell’impero britannico. Tra loro ci sono due calzolai, tre agricoltori, un caporeparto del mattatoio, due minatori e tre fabbri, due impiegati: uno statale e uno di banca. Poi un ex fantino, due corridori professionisti e un maestro d’ascia, costruttore di navi.

Dal punto di vista sportivo non c’è storia: gli Originals perdono per una svista arbitrale una sola partita, segnano più di ottocento punti e ne concedono solo trentanove in tutta la tournée, di pomeriggio vincono sul campo e la sera stracciano in piscina i campioni di nuoto inglesi, diventando in brevissimo tempo la più grande attrazione dell’epoca, in un turbine di affetto, entusiasmo e stupore che trascende la mera sostanza sportiva per aderire alla realtà mitica degli eroi greci. Tanto da far dire a quegli stessi giocatori, ne Il libro della gloria, romanzo di Lloyd Jones a metà tra l’epica e il reportage, (Einaudi, traduzione di Andrea Sirotti):

“Eravamo le cose che stanno in vetrina, ciò di cui sono fatti i compleanni dei bambini. Eravamo il Natale, le bollicine nella bibita, la marmellata sul pane. Eravamo il posto da cui vengono i sorrisi”.

Il campo però ti insegna a restare umile in modo equanime: che tu sia una riserva di una squadra amatoriale di periferia italiana o il capitano degli All Blacks Originals, Dave Gallaher, quello responsabile del mattatoio, a cui a Dublino domandarono – davvero – come ci si sentisse a essere famosi. La risposta, secca, scolpita nelle tavole di pietra del rugby di ogni tempo: «Mio caro, famose sono le piramidi».

Se volete farvi un’idea di come sia evoluto il mito dei TuttiNeri fino ai giorni nostri potete guardarvi All or nothing: All Blacks, serie di Amazon Prime con un narratore di eccezione, il regista e attore di Jojo Rabbit, Taika Waititi, che racconta i neozelandesi degli anni dieci alle prese con l’ipercinetico rugby moderno, così distante dal rugby degli eroi, gli Originals, gli Invincibles, e da quello rude e violento raccontato da Il campione di Storey.

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Che cosa muova, ancora, donne (la nostra nazionale femminile è stabilmente tra le migliori al mondo) e uomini a confrontarsi con sé stessi, i propri compagni e gli avversari, o l’imprevedibilità dei rimbalzi di uno strano pallone, resta un mistero insondabile. Qualcosa che di sicuro, secondo la mia limitata esperienza, ha a che fare con la birra, la voglia di contatto umano, più o meno dolce, il desiderio di arrivare alla propria meta senza essere mai soli: sempre tenendo l’altro, dal campione milionario al più lento e scarso tra i propri compagni di squadra, per la vita e per un giorno, nella stessa enorme considerazione. Nessuno indietro, tutti avanti, verso un obiettivo comune.

“Ci piegammo per la mischia, ansimanti per i primi segni di affanno, con il vapore che si alzava dai corpi affaticati dei tre-quarti. Vidi la palla scivolosa rotolarmi tra le gambe e Maurice afferrarla con impazienza. Con una finta ubriacante sfrecciò a lato del capitano ancora stordito e fu intercettato dall’ala. Scalciò, menò colpi, si contorse e si lanciò sopra la linea di meta. La folla urlò e si impennò come un animale in un recinto, come uno specchio d’acqua improvvisamente agitato. Fischietti, campanelli e trombe echeggiarono librandosi sul ruggito animale. Corsi da lui, gli diedi una pacca sulla spalla e tornammo indietro in gruppetti felici”.

Ha ragione David Storey. Il rugby è tutto in queste righe, tutto il suo mistero è nella semplicità plastica dell’azione d’attacco de Il campione e della sua squadra. E poco più avanti, oltre la linea e dopo la promessa di una meta c’è lei: la felicità.

le foto di questo articolo sono di Quino Al su Unsplash

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