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Ripubblicare Antônio Callado: il Brasile e la reinvenzione dell’indio.

La longevità dei libri è molto variabile: pochi sono eternamente in catalogo, altri vivono un decennio di gloria, altri finiscono troppo presto al macero e si ripropongono soltanto sui canali di vendita online, con lo status di rarità e a prezzi irragionevoli. Di rado, però, la durata della vita di un’edizione è proporzionale al valore dell’opera messa in commercio. Ci sono libri che, per i motivi più disparati, meriterebbero di tornare dall’oblio: Desiderata è la rubrica che ve li farà conoscere.

Ripubblicare Antônio Callado: il Brasile e la reinvenzione dell’indio.

Antônio Callado (1917-1997) è uno tra i maggiori esponenti della letteratura brasiliana del Novecento, eppure in Italia persino il suo romanzo più celebre e più tradotto, Quarup (1967), non è mai stato riproposto dopo la prima edizione Bompiani del 1972, mentre altre tre sue opere sono state ospitate da piccoli editori e sono presto diventate irreperibili: Sempreviva (1981, Biblioteca del vascello, 2000), La spedizione Montaigne (1982, Ila Palma, 1993) e Concerto Carioca (1985, Editori Riuniti, 1990), tutti e tre curati da Vincenzo Barca. Ma la sfortuna editoriale di Callado nel nostro Paese non ha nulla a che fare con il suo valore letterario. Callado è un autore significativo per diverse ragioni, in primis per l’atipico sguardo “esterno” di un brasiliano sul proprio Paese. A ventiquattro anni, infatti, Callado si trasferì a Londra, dove lavorò per la BBC dal 1941 al 1947 anche come corrispondente di guerra, per poi riscoprire il suo Paese soltanto a partire dagli anni Cinquanta, quando partecipò alla spedizione per la ricerca del cadavere del colonnello Percy Fawcett (esperienza che nel 1953 avrebbe dato vita al resoconto Esqueleto na lâgoa verde). Nel frattempo, parallelamente all’attività da reporter, Callado aveva già intrapreso una carriera da drammaturgo, esordendo nel 1951 con Il fegato di Prometeo e conoscendo il successo nel 1957 con Pedro Mico. Tornato in patria nel 1963, fu tra gli intellettuali che si opposero alla dittatura militare con maggiore forza e convinzione, tanto che fu arrestato due volte. Nel 1968 fu corrispondente dal Vietnam (da cui Vietnã do Norte, 1969) e soltanto nel 1975, a 58 anni, disertò le redazioni per dedicarsi esclusivamente alla scrittura. Da molti suoi libri, compreso Quarup, sono stati tratti dei film.

In patria Callado è tutt’oggi considerato un maestro; sul sito dell’editore Quarup, che a Callado deve il suo nome, lo scrittore Julio Monteiro Martins scrive: «Ricordo con saudade la sua eleganza britannica, la pipa accesa in mano, i baffetti alla David Niven, un’apparenza che contrastava (ma non veramente) con il suo spirito di uomo di sinistra agguerrito e temerario, coerente e determinato nei suoi progetti di costruzione di una società meno ingiusta, ciò che ai giorni nostri può sembrare una chimera, un’utopia ingenua di altri tempi». Ma Callado non era un idealista fuori dal suo tempo, bensì un autore con le idee chiare sul ruolo e sugli imperativi della letteratura, come si evince da un’intervista del 1990:

«In gioventù, dopo sei anni di giornalismo in Europa, Inghilterra e Francia, ho sentito che non potevo più star lontano da qui: una vera fame di Brasile. Tornato, ho girato dappertutto, l’Amazzonia, lo Xingu, il Nordeste. In Inghilterra, in Francia, negli Stati Uniti, uno scrittore può prescindere da ciò che lo circonda, pensare alle astrazioni. Ma nel terzo mondo questo è impossibile. Ti immagini un grande romanziere etiope che ci venga a raccontare, senza altre implicazioni, una storia di adulterio ad Addis Abeba? Deve esserci, come dire, un significato specifico, etiopico. Io non credo che qui in Brasile lo scrittore possa prescindere totalmente dal contesto brasiliano».

Non a caso, uno dei temi più cari a Callado è un tema apparentemente peculiare della cultura brasiliana, ovvero l’identità dell’indio nell’era postcoloniale e la mancata redenzione dell’uomo bianco dopo secoli di sfruttamento della foresta amazzonica e dei suoi abitanti. Questo tema lo ritroviamo in Quarup (1967), nel quale un prete missionario abbandona il sacerdozio, scopre la lotta politica, partecipa alle sommosse contadine guidate da Francisco Julião e, non in ultimo, esplora i piaceri della carnalità, per ripiegare infine in una condizione esistenziale da selvaggio. In Concerto carioca (1985), abbandonato il suo habitat naturale, il giovane indio ermafrodita Jaci si è ritrovato a vivere nel Giardino Botanico di Rio de Janeiro, «portando lo scompiglio nelle case borghesi e turbando uomini e donne con la sua carica sensuale», ma anche diventando un monito per i cittadini, l’emblema dello sradicamento.

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Autore: Antônio Callado
Titolo: Concerto carioca
Titolo originale: Concerto carioca
Prima pubblicazione: 1985
Traduzione: Vincenzo Barca
Editore: Editori Riuniti, 1990

L’indio è anche al centro della Spedizione Montaigne (1982), anche se in un modo diverso, parodistico: Ipavu, uno degli ultimi rappresentanti della tribù dei camaiurà, è infatti «un piccolo furfante, pigro, ubriacone e tubercolotico», la cui attitudine è frutto dell’influsso dei cosiddetti civilizzatori. Ipavu è consapevole della visione infantilizzata che ne hanno i bianchi, e la sfrutta a suo favore («Vaffanculo, camicia! Diceva per far ridere i bianchi, perché i bianchi, chi lo sa perché, ridevano sempre quando gli indios dicevano le parolacce che loro gli avevano insegnato»); considera “coglione” l’indio che se ne sta nella foresta «a bere il suo caxiri acido dentro a una zucca, quando [può] ingozzarsi di birra»; e diffida dei bianchi che “vogliono fare gli indios”: «come se un bianco, che può tranquillamente abitare in un palazzo, preferisse dormire sull’amaca, mangiare con le mani e far la cacca nella foresta!»

Nonostante tutto questo, Ipavu diventerà la spalla del bianco Vicentino Beirão, un giornalista esaltato «di un metro e mezzo», un ometto «ebbro di utopie libertarie», che lo trascina con sé in un «viaggio espiatore rituale al centro della foresta amazzonica». Lo scopo è quello di «incitare alla rivolta una tribù», o meglio, di «sommergere con un maremoto di indios la storia bianca del Brasile, per ristabilire, dopo il breve intervallo di cinque secoli, l’equilibrio spezzato». La missione, manco a dirlo, si rivelerà un insuccesso. Anche in Quarup trovavamo un bianco pronto a tutto per i diritti degli indio, ma stavolta il piglio è disincantato, poiché lo stesso autore, negli anni, aveva sentito vacillare gli ideali nativisti; in un’intervista su Scenari, il traduttore Vincenzo Barca, che incontrò Callado nel 1990, ricorda di essersi trovato davanti «un uomo minuto, mite, che parlava poco e con una voce sommessa […] un uomo stanco, provato dalla fatica di aver espresso, con la sua letteratura, tutte le ansie e i tumulti che lo avevano agitato nel corso della vita». A quel punto della sua esistenza, Callado considerava ormai irreparabile il peso di un genocidio secolare. Questo senso di colpa può richiamare quello di Thoreau nei confronti dei nativi americani, come si può leggere nei diari:

«Quando cammino nei campi di Concord, e rifletto sul destino di questa prospera deriva della stirpe anglosassone, e sulle energie inesauribili di questo nuovo Paese, a volte dimentico che quella che adesso è Concord un tempo era Musketaquid, e che la stirpe americana ha avuto lo stesso destino. Dappertutto, nei prati, nei campi di mais e di grano, la terra è disseminata di resti di una stirpe del tutto scomparsa, come se fosse stata calpestata su quella stessa terra. […] Ogni volta che pianto il mio granturco nello stesso solco che così a lungo fornì loro un raccolto, non faccio che cancellare parte del loro ricordo».

Ma se Thoreau aveva una visione nobilitante dei nativi americani, Callado non si esprime moralmente, e reagisce al senso di colpa nazionale in modo opposto, non decantando la purezza dei propri “antenati”, bensì deridendo tutti equamente e causticamente, quasi ad ammettere l’assenza di una soluzione a un’ingiustizia secolare. La spedizione Montaigne, in tal senso, ricorre allo strumento della satira, anche se con un accento ironico che non risparmia nessuno, attuando una costante inversione di prospettive e verità. La prosa già ricca di Callado tende qui al barocco (frequente negli autori brasiliani), combinando il tono ricercato a quello farsesco:

«Ipavu visse qualche giorno di gloria, che non poté descrivere di proprio pugno in quanto camaiurà e pertanto figlio di una cultura priva di scrittura. Lo stesso cortile di Crenaque, un tempo deserto, e dove la sera, quando calavano insieme la noia e la voglia di scopare, Ipavu e Atroari si impegnavano nel consueto torneo di vedere chi eiaculava più lontano, era ora invaso, grazie ai dispacci compilati da Vicentino, da giornalisti e da curiosi, senza contare la presenza di un tecnico laboratorista, al servizio di Beirào, che passava il tempo a raccogliere campioni e a ricercare […] le tracce di sangue degli indigeni massacrati, oppure a sfregare su dei vetrini tutti i residui di umidità sospetta […] che venivano inviati per gli esami e le colture, e che provenivano proprio dalle suddette negligenti sfide eiaculatorie».

Il principale strumento umoristico di Callado sono però i dialoghi, che pur non presentando veri e propri motti di spirito (che sono appannaggio della voce narrante) sono modulati su registri istrionici e surreali. Beirão parla con l’afflato di un missionario e l’oratoria di un mattatore picaresco:

«Il nostro scopo sarà in effetti quello di provocare, in una sorta di guerriglia, l’insurrezione delle tribù indigene contro i bianchi che si sono impadroniti del loro territorio a partire dal glauco gluglù dell’ancora della caravella cabralina, quando la figura di prua, lancia di San Giorgio e lingua di drago, spalancò le cosce e le grandi labbra di miele della selvaggia Iracema, intenta a lavarsi, senza uluri, sulla spiaggia. Metteremo i bianchi in ginocchio, per aver deflorato Iracema, così come l’ancora del vascello di Pedro, sciogliendosi dall’argano e infilandosi nel mare di Bahia, aveva perforato l’imene nheengatu».

Ipavu, dal canto suo, spiazza lettori e comprimari per via della singolarità del linguaggio, dominato da una mescolanza di registri, e della spregiudicatezza dell’innocente corrotto. Così, da un lato abbiamo un bianco determinato a salvare i più deboli e a mettersi contro “i suoi simili” per un ideale umanitario ricavato da infiammate letture dei classici; dall’altro, abbiamo un debosciato che non ha alcuna intenzione di essere salvato, che trova imbecilli gli indigeni a loro agio con la selvaticità e che preferisce non solo i confort, ma soprattutto i vizi della dimensione capitalistica. Va sottolineato che, quando la spedizione ha inizio, Beirão impone che del bagaglio faccia parte un busto di Montaigne, che si rivelerà però un’inutile zavorra. Lui stesso, saturo della retorica del buon selvaggio, trasuda suo malgrado un paternalismo miope ed egocentrico. Non c’è limite, ci suggerisce Callado, all’ottusa megalomania di noi occidentali, che per secoli abbiamo devastato il pianeta e vessato culture considerate inferiori, e che anche quando vogliamo redimerci, restituire il maltolto e difendere i diritti altrui, lo facciamo con uno slancio eroico (e comunque colonialista) da “esportatori della democrazia”.

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Autore: Antônio Callado
Titolo: La spedizione Montaigne
Titolo originale: A expedição Montaigne
Prima pubblicazione: 1982
Traduzione: Vincenzo Barca
Editore: Ila Palma, 1993

Riguardo al tema dell’indio, va chiarito che le cose non sono poi così cambiate rispetto agli anni in cui ne scriveva Callado: da un lato, sono aumentate le associazioni in difesa dei diritti degli “incontattati”, ma dall’altro i territori naturali rimangono in pericolo e con essi i loro abitanti; basta visitare il sito di Survival Italia e scoprire la storia e la situazione attuale degli Awá-Guajá, una delle ultime tribù di cacciatori-raccoglitori nomadi del Brasile, nonché “la più minacciata del mondo”, per intuire i moventi profondi di Callado.  In secondo luogo, nell’epoca del riscaldamento globale, negli anni della Carta della Terra e nei mesi della pandemia, non è più possibile (ammesso che lo sia mai stato) immaginare la sopravvivenza delle ultime tribù (ma anche degli indios urbanizzati e marginalizzati) come un problema esclusivamente terzomondista: l’indio è ormai la personificazione di tutti gli indifesi del pianeta, un’entità con la quale tutti, a qualsiasi latitudine, dobbiamo ancora fare i conti.

Callado, ad ogni modo, non è soltanto il narratore degli indios, ma è un autore a tutto tondo, che riesce a coniugare impegno politico e divertimento, una scrittura colta, esuberante e raffinata che convive con un certo gusto per il registro sboccato, sequenze ai limiti del comico e riflessioni politicamente scorrette. Come spiega Barca, in Callado «lo stile risente delle sperimentazioni del nouveau roman francese, nella sintassi frammentata che richiama la non-linearità della memoria e l’andirivieni scomposto delle emozioni […], e «i generi sono mescolati, la memoria non è sicura di sé stessa, il falso si fa passare per vero, frustrando ogni certezza del lettore». Il risultato è un’opera tanto tematicamente coerente quanto capace di stupire, di libro in libro, in termini di impianto e toni. E gli inediti sono ancora tanti, almeno quanti i motivi che potrebbero persuadere un editore a ripubblicare Callado con criterio.

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