lettura, non prenderla come una critica
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Non prenderla come una critica – Trilogia della catastrofe

Rodolfo Wilcock, nella prefazione alla Nube purpurea di Matthew Shiel, scrive che se all’interno di un opera di Émile Zola dovesse comparire un pesce volante l’intera struttura crollerebbe. Questa dichiarazione andrebbe osservata con la nostra consapevolezza di persone del ventunesimo secolo: i pesci volanti ci sono sempre stati, era Zola a censurarli. Più osserviamo la realtà nel dettaglio tanti più pesci volanti troviamo.

Ce ne sono moltissimi nell’ultima raccolta di saggi dei tipi di effequ intitolata Trilogia della catastrofe. I tre autori sono Emmanuela Carbé, Jacopo La Forgia e Francesco D’Isa e si confrontano su tre diversi frammenti temporali: la fine, l’inizio e il durante del mondo. Tutti e tre seguono un leitmotiv, la catastrofe: uno dei metodi con cui si misura attualmente la realtà. Se nel Novecento questa misura era elitaria, e faceva percepire proprio Wilcock come un’avanguardia del fantastico, la catastrofe ha reso pure l’avanguardia popolare, tanto che Wilcock oggi si sposta di collocazione per andare nelle scienze statistiche: forse non avrebbe nulla da ridire, se non per la fatica del trasloco, dove si fa molta confusione e si perde sempre qualcosa dentro gli scatoloni. La Trilogia è proprio questo, uno scatolone che prova con tre diversi generi – racconto, reportage giornalistico e saggio divulgativo – a descrivere questa nuova percezione.

L’inizio del mondo secondo Emmanuela Carbé

Il senso della Storia – e dell’uomo – è nell’arbitrio col quale essa ci colloca nel tempo. Quindi non si vede perché un modello cosmologico che fa iniziare la Storia dal Congresso di Vienna debba essere necessariamente peggiore di uno che la fa iniziare col Big bang. Secondo Carbé tanto vale iniziare proprio da lì.

Gli avvenimenti straordinari della mia vita erano tutti riconducibili, uno a uno, ai meravigliosi, irripetibili ed eroici mesi del Congresso di Vienna. Primo novembre 1814, castello di Schönbrunn: inizia il mondo. Mi convinco che tutto il prima è una menzogna, un’invenzione, una scrittura epica di un passato che non è mai esistito. Faccio fuori in un attimo secoli e secoli di storia e mi prendo in mano poco più di duecento anni. (pag. 24)

E così abbiamo già bello che finito con l’inizio del mondo perché la capacità di far credere l’impossibile alla Carbé non manca. Succede con una precisa strategia stilistica. C’è un utilizzo disinvolto di tutta una serie di elementi lessicali di marca extra-letteraria calati dai più diversi linguaggi del contemporaneo: «WordPress, Google Calendar, Google Drive, Skype, Facebook, Twitter, Telegram, Tic Toc». Si tratta di referenti concreti ancora marginali alla scrittura letteraria convenzionalmente intesa. Tuttavia raggiungono lo scopo di allontanare il testo dal fronzolo librario, e secondariamente di allargare il lessico del convenzionale. Questa lingua è un impasto linguistico molto sostenuto in cui l’iperbole, sempre in primo piano, è applicata ad accadimenti minimi della vita quotidiana con effetti a volte stranianti, quando si cerca di dar conto dei vari comitati promotori del Congresso di Vienna che «può a sua volta formare degli altri comitati o sottocomitati, e connettersi temporaneamente a altri comitati e sottocomitati»; altre volte comici, come nel dialogato pidgin con un parlante anglofono presentato con una grafia all’impronta.

Excuse me, in che senso attività felici?

Immanuela, everything che ti viene in mente in questo

momento, qualcosa che ti make you happy”. (pag. 55)

Una tinta di leggerezza colta arreda la prosa della Carbé fin dal suo esordio, Mio salmone domestico, che ironia della sorte sempre del mondo parlava, con un sottotitolo più esplicito ma comunque lapidario: Manuale per la costruzione di un mondo.

Lo svolgimento del mondo secondo Jacopo La Forgia

 Ciò che esce dalla porta delle redazioni giornalistiche rientra dalla finestra degli editori italiani di varia. Il successo di Ryszard Kapuściński ha fatto crescere l’interesse per quei testi ibridi costruiti su basi testimoniali o documentali. Il frammento di La Forgia intitolato Costruire il risveglio si inserisce in questo frame: l’autore/la voce narrante/il reporter non può più essere un osservatore neutrale che raccoglie i fatti e li riporta asetticamente, li deve raccontare con tutto quello che comporta.

In Indonesia abitano due diverse categorie di persone: quelli che vogliono parlare del genocidio del Sessantacinque e quelli che lo vogliono tenere nascosto. Sono qui per incontrare i primi, e il fatto che accada anche per caso è senz’altro un buon segno. (pag 68)

Il reportage sui fatti indonesiani del 1965 – uno dei massacri misconosciuti del Novecento in cui morirono circa un milione di persone – diventa l’occasione per La Forgia di verificare lo stato di salute della Storia e della memoria. Il viaggio non abbandona le specificità della fiction, ma nemmeno l’aderenza storica al fact. È proprio grazie a questo bilanciamento che la miscela funziona: l’autore mantiene quella partecipazione che deforma il fatto ma con molta disciplina riesce a non scivolare nel mieloso, nel giudizio morale. Durante una digressione, la fatica che comporta questa disciplina si mostra:

Anche in me si produce spesso un’analoga scissione della memoria e tutto sommato credo sia un bene. Soffermarsi eccessivamente su eventi dolorosi, potendoli rivivere come se accadessero nel presente, non sarebbe un dono ma una condanna. (pag. 96)

Lo svolgimento del mondo, ha una sua drammatica risultanza? Nonostante la sofferenza sarà frainteso o dimenticato? Le risposte che il lettore trova, tra informazione e comunicazione, sono tutt’altro che scontate o consolatorie. Ma forse è solo la Storia a essere esagerata e bugiarda.

La fine del mondo secondo Francesco D’Isa

D’isa ci avverte subito: «sai che morirai, ma non sai quando […] ma se stai leggendo questo libro è probabile che da qui a cent’anni non vivrai più». Tutto il frammento di divulgazione filosofica affidato a D’Isa lavora a questo continuo svelamento. Elenca con intelligenza e leggerezza – per quanto paradossale possa sembrare – alcune delle strategie e degli esorcismi che l’uomo di ogni tempo ha escogitato per nascondersi alla morte e per gestirla. Il pregio di questo saggio è nella tenuta di due traiettorie inconciliabili. La prima è la dimensione psicologica del singolo – opposta alla dimensione di specie – di cui si fornisce una bibliografia essenziale di teorie, dalla Terror Management Theory di Tom Pyszczynskie soci, al neo-antinatalismo di Thomas Ligotti. La seconda traiettoria è quella pubblica – opposta alla dimensione privata – che negli ultimi anni sembra essersi saldata alle istanze politiche green. D’Isa le illustra, giustamente, in una scala macroscopica di specie, tratteggiando molti fenomeni della fine: surriscaldamento globale, eventi astronomici, morte termica dell’universo. Se si è parzialmente digiuni della materia trattata si rimane frastornati dalla mole d’informazioni, e dalla sgradevolezza implicita di questo memento mori. Se non fosse che la presa di coscienza della finitezza umana passa soprattutto dal suo incoerente rifiuto, proprio come pensava Blaise Pascal: «gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l’ignoranza, hanno creduto meglio, per essere felici, di non pensarci». Il punto d’arrivo del saggio di D’Isa è nella fotografia di questo rifiuto, al quale sa opporre argomentazioni, non dirò di speranza laica – cosa che non c’è tra queste pagine – ma di costruttiva azione pratica:

Un saggio disse che se il momento migliore per piantare un albero era vent’anni fa, il secondo momento migliore – ed è ormai evidente – è oggi. (pag. 197)

Storia dello scatolone

Questo unico editoriale, proprio perché esemplare, difficilmente farà scuola o avrà imitazioni. Tuttavia è proprio la sua forma obliqua a dirne la bellezza tutta giocata sull’accumulo di generi e punti di vista autoriali molto distanti e diversi. Un azzardo che ha il grandissimo pregio di aver inquadrato forse per la prima volta in Italia un tema inedito e avergli fornito una tassonomia, perché la catastrofe – concetto polisemantico e dilagante – sarà il vero nucleo tematico dei prossimi decenni.

immagine di apertura di Yosh Ginsu su unsplash

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