Pensiero più o meno diffuso vuole che l’editoria di un tempo fosse migliore di quella di oggi: libri più curati, maggior rispetto per gli scrittori, poco interesse per il profitto. Ma è davvero così o è solo la patina nostalgica di ciò che non abbiamo vissuto a farci sembrare tutto oro quel che in realtà è piombo (tipografico)? “Gattopardi editoriali” è la rubrica sull’editoria che cambia per restare (quasi) così com’è da sempre.
Una verità universalmente riconosciuta (?) vuole che la contemporanea pratica dell’editing tenda a piallare stili e voci diverse, appiattendole tutte a una medietas che rende i testi più facilmente vendibili e digeribili al pubblico.
Che la questione sia concreta, non ci sono studi (almeno a conoscenza di chi scrive) che possano confermarlo o smentirlo.
Ciò che però possiamo affermare con una certa sicurezza è che “l’editing selvaggio” (ammesso che selvaggio sia), praticato ai fini più diversi, non è un’invenzione o una deriva dell’editoria di oggi, ma un esercizio ben presente da tempo, e che già in passato ha toccato vette di altissima audacia.
In futuro ritorneremo ancora sull’argomento (c’è un Vittorini e un Bassani che ci aspettano…), per adesso accontentiamoci di Leo Longanesi:
«Longanesi […] sui testi è di una spregiudicatezza al limite e oltre il limite della correttezza, superando largamente i pur audaci editing vittoriniani […] taglia, rimaneggia, riscrive e fa riscrivere. Racconterà Arrigo Cajumi di essersi accorto del vistoso taglio praticato sui suoi Pensieri di un libertino (1947) soltanto a libro uscito: Longanesi cioè aveva fatto coincidere la lunghezza del testo con la carta che aveva a disposizione, senza neppure informare l’autore.»
— Gian Carlo Ferretti, Storia dell’editoria letteraria in Italia. 1945- 2003, Einaudi 2004, pp. 76-77
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