Se vi stabiliscono un dialogo fecondo di suggestioni, i classici, per chi li legge, si configurano come degli «equivalenti dell’universo, al pari degli antichi talismani» (Calvino). Così, portati sempre con sé, possono sortire effetti benefici e domare i demoni interiori. Alcuni meritano di essere spolverati, altri non hanno mai smesso di stare appesi al collo di qualcuno, ma tutti, se lucidati, risplendono di una bellezza più viva. Da dove nasce la loro magia?
Con l’eccezione forse solo degli ultimi due, un po’ sottotono, i sette racconti che compongono Il libro della giungla, e più in particolare la poetica storia di Mowgli, fanno della fortunata raccolta pubblicata da Rudyard Kipling nel 1894 uno dei libri più piacevoli e affascinanti fra i classici per l’infanzia.
Maestro nel maneggiare la parola, lo scrittore britannico nato a Bombay, nonostante tutto (cioè nonostante risenta di una certa mentalità colonialista – lui che parlò del «fardello dell’uomo bianco») trasmette limpidi messaggi di accettazione del diverso, ci fa amare ancor più il mondo animale e riesce addirittura nell’impresa di farci immedesimare con una foca bianca, Kotick, alla ricerca di una favolosa isola dove non arrivi l’uomo, o con una mangusta, Rikki-tikki-tavi, che ha il compito di uccidere i serpenti che infestano il giardino della famiglia che la ospita.
In un quadro esotico in cui l’animale è perennemente metafora dell’uomo nelle sue molteplici declinazioni, Kipling, promuovendo una riflessione sull’importanza e le dinamiche della convivenza civile e sul carattere determinante del singolo, ci rende cari gli insegnamenti del saggio Baloo, ci avvolge con la calda voce della protettiva Bagheera, ci fa simpatizzare con il pur inquietante Kaa, ci fa rispettare e sentire affetto per la comunità dei lupi, ci fa ridere delle scimmie vanitose e sciocche e ci fa temere il pericolo incombente del terribile Shere Khan.
Ma, quel che è meglio, fa annusare la libertà mentre si seguono per qualche tratto le orme del cucciolo d’uomo Mowgli che, come ha scritto sapientemente Piero Dorfles, «non può convivere con la banalità e le superstizioni degli umani, fa sognare una vita senza regole, senza scuola, senza le convenzioni e le costrizioni alle quali ci costringe la convivenza con i nostri simili».
Che liberazione infatti quando, spazientito dal capo-cacciatore del villaggio che avanza diritti e che protesta per la condotta da lui tenuta, il ragazzo prorompe: «Per il toro che m’ha riscattato, – disse Mowgli, che cercava di staccare la pelle delle spalle, – devo proprio star qui a cianciare con un vecchio scimmione tutto il giorno? Qui, Akela, quest’uomo mi annoia». Si noti, fra l’altro, il lato cruento della scena, dal momento che, da solo, il ragazzino sta scuoiando alla meno peggio una tigre, il che stride apparentemente con un’idea più disneyana di un’opera il cui destinatario principale sono i più giovani. Non è questo che uno dei vari dettagli sorprendenti di cui l’autore premio Nobel nel 1907 dissemina il testo.
Ma andiamo al cuore della frase appena riportata di un Mowgli insolitamente spazientito. Vale davvero la pena perder tempo con quegli animali dei nostri simili? Si può essere allo stesso tempo uomini e lupi, ovvero schiavi ed espressione della libertà naturale? Possiamo rinnegare completamente le nostre origini? Le regole delle società umane non saranno risibili, se paragonate alle leggi della giungla? Affine alla favola per la presenza degli animali parlanti, questo libro per tutte le età non contiene, in fin dei conti, una vera morale, bensì solletica il lettore con queste e altre domande implicite e più o meno retoriche.
Se si limitasse a questo, tuttavia, la raccolta non sarebbe la lettura godibile che è. Perché The Jungle Book è prima di tutto una successione di avventure trascinanti e uno spensierato inno alla natura, fra i cui chiari e scuri è bello perdersi, proprio come in una giungla, ma senza gli innumerevoli pericoli che questa nasconde.