Senza categoria
Lascia un commento

Cinque piani e un seminterrato

A seguito della nostra call Rumori in sottofondo abbiamo ricevuto 54 racconti. Letti, selezionati, editati prima dalla classe di Apnea ‘21/‘22 poi dalla nostra redazione narrativa, ne sono infine stati scelti 14 per la pubblicazione sulla nostra rivista. Questo è il quattordicesimo e lo ha scritto Elisabetta Tagliazucchi. Con l’editing, l’allieva editor Loretta Molinari insieme alla redazione hanno suggerito all’autrice interventi per sfruttare le potenzialità del personaggio della portinaia, perennemente distratta dai giochi enigmistici, sbiadendo i toni del giallo.


La mattina del 12 febbraio, all’interno di un palazzo del centro storico, la somma dei rumori provocati dalle azioni avventate di alcuni inquilini, copre il fragore dello sparo che uccide il signor Poletti. Conosciamo il microcosmo di inquilini con gli occhi della portinaia, Lucia.


Cinque piani e un seminterrato

di Elisabetta Tagliazucchi

Al 257 di via Magenta tra il seminterrato e il quinto piano, la mattina del 12 febbraio, sei sventure stavano per abbattersi su altrettanti inquilini. Mentre una donna ritirava un pacco, un uomo tentava di impiccarsi, un gatto passeggiava sul vaso di gerani, una vecchia armeggiava con un intruglio in testa, un ragazzo cercava di afferrare il colapasta dall’ultima mensola e Gilda Poletti, trentanove anni, sulla porta del suo appartamento al secondo piano, osservava la traiettoria del proiettile che avrebbe trafitto il petto del marito.

In effetti gli eventi simultanei erano sette, se si conta il signor Poletti e quel fastidioso proiettile ostinatamente diretto al suo sterno.

«Accompagni il portone sennò…», la portinaia del palazzo non ebbe il tempo di finire la frase che alle 11, 52 e 35 secondi – Lucia guardò il suo Casio – il corriere fece sbattere il portone. Contemporaneamente il lampadario al quale era appeso il sig. Bianchi si staccava dal muro portandosi dietro un pezzo consistente di soffitto, l’urlo della signorina Carini non impediva a Centoquattro di ribaltarsi giù dal balcone e il timer della signora Rossi suonava per avvertirla di sciacquare la tinta. Nello stesso istante l’intero mobilio della cucina di Luca Angelini si sganciava dalla parete, riversando sul pavimento un’imprecisata quantità di stoviglie. E con millimetrico sincronismo un proiettile calibro 22 si conficcava nel petto del signor Poletti.

«… sennò sbatte», sussurrò Lucia che, mentre riponeva il pacco nello scaffale, sentì un boato.

La donna si fermò, lasciò cadere il pacco, si voltò lentamente verso la centralina del telefono, trattenne il fiato e osservò le luci di tutti gli interni accendersi e lampeggiare insieme.

Alle 11 e 53 un urlo echeggiò lungo la tromba delle scale.

Lucia uscì dalla guardiola zoppicando e prese a salire i gradini reggendosi al corrimano. Mentre imboccava la prima rampa fu quasi travolta da Teresa Carini che scendeva di corsa imprecando.

«Cazzo, il gatto… il gatto. Cazzo!».

La portinaia continuò la sua ascesa pensando che solo nell’ultimo mese era la terza volta che quel gatto diversamente agile cadeva giù dal balcone. Ma il grido che aveva udito non le pareva quello della sua padrona. Ne ebbe la certezza quando, arrivata sul pianerottolo del secondo piano trovò Gilda Poletti stramazzata davanti alla porta di casa aperta. Sfiorò le labbra della donna, respirava ancora. Provò a scuoterla, cercò di risvegliarla chiamandola per nome. Fu allora che notò dentro l’appartamento le scarpe del signor Poletti. Le suole, per esser precisi, col marchio Vero Cuoio in bella vista. Due suole quasi nuove e dietro il corpo di Poletti, stecchito. Non c’era alcun dubbio che fosse morto morto: gli occhi sbarrati e un cerchio untuoso sulla camicia bianca, una padella di sangue.

La porta dell’interno 3 si aprì.

«Cara, è successo qualcosa? Mi è sembrato di sentire un rumore…».

Lucia si voltò verso la signora Rossi, provò a dire qualcosa, la voce le si smorzava in gola, con un gesto della mano le fece cenno di non avvicinarsi e prese a picchiettarsi con l’indice l’orecchio.

«Oddio, Gilda… Gilda cara, che è successo?» La signora Rossi si coprì la bocca con le mani.

«È svenuta, è solo svenuta, lei…».

«Come dice? Non capisco una parola… Oddio, Gilda! Gilda!».

«L’apparecchio, signora Rossi, si metta l’apparecchio…», Lucia continuava a indicare l’orecchio.

«Oh, certo certo…» disse la signora Rossi mentre frugava nelle tasche della vestaglia verde pistacchio e ne estraeva due piccoli auricolari che posizionò per bene. Una cuffia di plastica in testa faticava a contenere la tinta dei capelli che le gocciolava lungo il collo. «Li avevo tolti per sciacquare i capelli.»

«Si può sapere che succede?».

«Ho sentito un boato e le urla… E… Oh, vacca boia!».

A poco a poco tutti gli inquilini del palazzo si radunarono sul pianerottolo del secondo piano. Compresi il signor Bianchi con il volto ricoperto di intonaco bianco sul quale spiccava, proprio in mezzo alla fronte, un taglio sanguinante, e la signorina Carini con le mani piene di graffi che tentava di tranquillizzare Centoquattro, il gatto ribaltabile. Per ultimo si era aggiunto l’inquilino dell’attico, Angelini, con una busta di piselli surgelati premuta sulla nuca che spuntava dai ricci castani.

«Ma che cazz…», si fermò sul primo gradino, raggelato, lasciò cadere le braccia lungo i fianchi e una cascata di legumi verdi saltellanti si riversò sonoramente sulla rampa che scendeva al piano di sotto. In effetti la scena era abbastanza surreale: tutti intorno al corpo svenuto di Gilda Poletti, dolenti, sanguinanti, doloranti e disperati, parevano le statue in terracotta di una pietà del Cinquecento. Con contorno di piselli.

Lucia seduta nella guardiola si appoggiò allo schienale della sedia, desiderava solo un po’ di pace per trovare le ultime definizioni del Bartezzaghi. Se n’erano andati tutti: medici, infermieri, Vigili del fuoco e Polizia. Era ora. Che giornata impegnativa, la peggiore da quando Gilda Poletti le aveva offerto il lavoro di portinaia in cambio dell’affitto del sottoscala e un mezzo stipendio. Doveva essere un lavoro tranquillo, a sentire lei, un palazzo in ristrutturazione all’incrocio tra via Emilia e via Magenta, pochi inquilini, nessun problema particolare. A sentire lei. Che poi i problemi c’erano, eccome se c’erano… ma un morto ammazzato no, quello non se lo sarebbe mai immaginato. Tra la via Emilia e il West, altroché… Chissà chi era stato.

L’appartamento di Agata Rossi era contiguo a quello dei Poletti ed era separato unicamente da una porta chiusa a chiave, ma la serratura era solo dalla parte dei Poletti, nessuno poteva essere passato da lì. L’assassino avrebbe potuto uscire dall’appartamento solo dalla finestra dello studio o dalle scale e lei non aveva notato nessuna faccia nuova.

Era uno del palazzo? E… e la Bic verde? Dove era finita? Si tastò le tasche della camicia, eccola, era lì. Lucia aveva tre penne Bic, una verde, una rossa e una blu e le utilizzava rigorosamente abbinate al colore del titolo Settimana Enigmistica che cambiava a ogni uscita. Una settimana verde, una rosso e l’altra blu, in questa precisa sequenza. Poteva capitarle di uscire con i calzini spaiati, ma la Bic doveva essere in tono con l’inchiostro della rivista. Lucia scriveva le soluzioni, con la penna giusta, solo quando era assolutamente certa che fossero corrette. Poteva metterci settimane per concludere uno schema. Ci rimuginava su finché non trovava la soluzione.

Con la Bic verde al sicuro nel taschino i suoi neuroni continuarono a lavorare.

Gilda Poletti aprendo la porta di casa aveva appena intravisto la pistola sparare il colpo diretto a suo marito ed era svenuta, senza vedere altro. O almeno così diceva. E se invece fosse stata lei? Mentre le domande si ammucchiavano una sull’altra sentì il portone sbattere e vide entrare il signor Bianchi seguito a distanza dal passo claudicante di Agata Rossi.

«Non mancherà a nessuno quel cioccapiatti», disse il signor Bianchi appena entrato nell’androne «nemmeno a sua moglie che sembra una santa e invece…», fece un gesto circolare con la mano che poi indirizzò al cerotto che al pronto soccorso gli avevano messo sulla fronte.

«Come sta signor Bianchi?».

«Come vuole che stia, con quattro punti di sutura e il tinello sventrato… Come devo stare… Come».

«Infatti, la faccenda del lampadario, non riesco a capire…».

«Non c’è niente da capire, stavo solo cambiando una lampadina… E… e lei si faccia gli affari suoi, braghéra. Non c’è niente da capire, non c’è».

«Oh certo, certo», fece Lucia «se ha bisogno di qualcosa sa dove sono…», e aggiunse sottovoce «Sotto la panca a rianimare la capra» mentre sistemava la pila di cruciverba sulla scrivania per distogliere lo sguardo dalla gobba del signor Bianchi che se ne andava.

«Ho bisogno di riposare e non di pettegole, ecco di cosa ho bisogno. Di cosa…».

«Oh cara, non ci faccia caso, quando parla Bianchi sembra sempre che debba invadere la Polonia…», disse la signora Rossi mentre si sistemava il cappottino azzurro a fiori lilla. Dal cappello spuntava un curioso caschetto viola intenso perfettamente abbinato al tono della calzamaglia.

«Bel colore, le sta benissimo!», disse Lucia sorridendo. Era abituata ai colori dell’anziana. La signora Rossi le piaceva, era sempre cordiale e autentica, l’esatto contrario del vecchio babbiòne del terzo piano che sosteneva d’essersi tirato appresso il lampadario e mezzo soffitto per cambiare una lampadina…

«Oh, grazie cara, con il fattaccio ho tardato a lavare la tinta e sono venuti viola, li preferivo color lavanda. Mi dica, si è saputo qualcosa?», disse indicando con lo sguardo il piano di sopra.

«Boh, ancora niente, forse qualcuno entrato dalla finestra…»

«Oh, sì, lo dicevo sempre a Gilda che era pericoloso tenere aperte le finestre. Ma lei voleva cambiare l’aria perché l’odore dei sigari le faceva venire la nausea. Fumava come un turco il marito… Poi con le sue attività, c’era da aspettarselo che prima o poi…».

«Che attività? Ma non lavorava in banca?».

«Certo cara, lavorava in banca e quando la banca non erogava prestiti lui faceva gli straordinari…», e con la mano si strinse il collo nel gesto di strozzarsi.

«Erogare… Erogazione, ecco cos’era!».

«Come dice, cara?».

«No, nulla, è una roba mia…», rispose Lucia mentre sfilava una rivista di enigmistica dalla pila.

«Oh, certo…», la signora Rossi alzò lo sguardo al cielo. «Mi scusi, ora vado… Le gambe non mi reggono più».

Dunque il signor Poletti era uno strozzino e Lucia, al solito, cadeva dal pero. Quando gli inquilini le riferivano dei pettegolezzi, lei semplicemente li dimenticava. Li lasciava parlare annuendo di tanto in tanto, mentre pensava, ad esempio, alla soluzione del 33 verticale… Che Poletti fosse poco stimato però lo sapeva anche lei. Tre giorni prima l’aveva visto litigare con Luca Angelini sulla questione dell’affitto, era in arretrato e lui voleva sfrattarlo. Come se la pigione di un universitario che lavorava in un bar fosse determinante per le sue tasche!

Rientrarono anche Luca Angelini e Teresa Carini nel pieno di una accesa discussione.

«Giuro che se non lo avessero già fatto fuori lo avrei ammazzato io quel porco, ma perché non me lo avevi detto?».

«Luca, non sono affari tuoi, mollami!».

«Avresti dovuto denunciarlo quel maiale», Luca si fermò in mezzo all’androne.

«Ci ha solo provato un paio di volte, finita lì».

«Che bastardo…».

«È morto, Luca, morto stecchito. Ok? Salve Lucia, come va? Ha saputo qualcosa?».

«Ancora niente…», disse la portinaia guardando fissa il cruciverba senza schema davanti a sé, cercando di nascondere l’imbarazzo per aver assistito a quella discussione.

Luca se ne andò su per le scale scuotendo la testa.

«Attento ai piselli», gridò Lucia. «Poveretto, si vede lontano un miglio che ti fa il filo, bella come sei…».

«E si vede che di lui non me ne frega nulla?».

«No, direi proprio di no… Cioè, non saprei».

«Ecco, io lo so, invece. Pensi che mi aveva convinto ad andare a cena da lui stasera, poi tra la cucina distrutta e questo fatto…».

«Niente cena».

«Niente cena, meglio così! Cioè… no, per Poletti mi dispiace, ma anche lui, sempre a litigare con tutti… Anche col signor Bianchi…».

«Cioè?»

«Lucia, lei è l’unica portinaia della storia a non sapere mai nulla… Il signor Bianchi gli doveva dei soldi. Lo sa, vero, che Poletti faceva lo strozzino?», rispose Teresa mentre cercava le chiavi nella borsa.

«Oh, certo che lo sapevo», disse Lucia agitando la mano sinistra sopra la spalla a mimare di esserne al corrente da tempo.

«Ecco, siccome il signor Bianchi tardava a saldare il debito, Poletti gli stava portando via la casa, sarebbero dovuti andare dal notaio a giorni».

«Tzk, una lampadina diceva…», sussurrò Lucia scuotendo la testa. «E la signora Poletti era d’accordo?»

«Non credo che lo sapesse… Lui stava cercando di mandare via anche la signora Rossi per riprendersi tutto il piano».

«E la moglie non sapeva niente?».

«No, anche perché non l’avrebbe mai permesso: vuole più bene alla signora Rossi che alla madre!».

«Veramente?», chiese Lucia mentre col palmo della mano spianava la Settimana Enigmistica in corrispondenza dei punti metallici.

«Era la sua tata, l’ha praticamente cresciuta lei, poi la signora Rossi si è trasferita in Irlanda e si sono perse di vista, fino all’anno scorso in cui le ha offerto quel piccolo appartamento di fianco al suo».

«E quel zavaglio di Poletti non era d’accordo…».

«Non solo non era d’accordo, Poletti era convinto che la signora Rossi avesse un passato da nascondere. Mi disse addirittura che aveva militato nell’IRA e la sua zoppia se l’era procurata in uno scontro a fuoco».

«Pensa te…».

«Già, saranno tutte chiacchiere, forse cercava solo un modo per convincerla ad andarsene e non trovarsela più in giro per casa con torte e biscotti. Comunque, ora è morto…», concluse Teresa Carini mentre apriva la cassetta della posta.

«Già, è morto…», ripeté la portinaia sottovoce e aggiunse «e Centoquattro, invece, è vivo?».

«Oh sì, per fortuna, dicono che i gatti cadono sempre in piedi!», rispose Teresa Carini porgendo un paio di lettere alla portinaia. «Hanno scambiato di nuovo la posta! Lucia, le dispiacerebbe darla a Luca Angelini, per oggi ne ho avuto abbastanza di lui. La saluto, ci vediamo».

«Sì sì, ci vediamo e stai attenta a quella povera bestia se vuoi che arrivi al panettone!».

Lucia pensò al panettone che aveva sopra il pensile in cucina, ancora sigillato. Glielo aveva regalato per Natale proprio Poletti. Ogni anno si presentava con un panettone artigianale acquistato in qualche pasticceria del centro e ne decantava le qualità ignorando a che lei il panettone non piaceva. Avrebbe dovuto regalarlo, ma non riusciva a sbolognare cose che non piacevano nemmeno a lei. Sarebbe rimasto lì a prendere polvere. Beh era l’ultimo, Poletti non le avrebbe più regalato inutili panettoni e non avrebbe nemmeno combinato altri casini. Tutti lo detestavano e a pensarci bene era quasi un miracolo che fosse arrivato vivo a cinquant’anni.

Lucia lasciò la guardiola, doveva salire a ritirare i panni stesi e ne avrebbe approfittato anche per consegnare la posta ad Angelini, che cinque piani di scale li faceva solo per due faccende, una sola non bastava.

Sbucò sulla terrazza ansimante e cercò di riprendere fiato aspirando l’aria gelida della sera. Trovò le lenzuola bagnate come quando le aveva stese e Luca Angelini che cercava di sbollire la rabbia aspirando lunghi tiri da una paglia surriscaldata.

«Oh sei qua, tieni, il postino ha fatto il solito casino».

«Imbezèll!» grugnì alzando lo sguardo al cielo.

«Il postino?».

«No, quel canchero avvelenato di Poletti», disse spegnendo la sigaretta sotto uno scarpa.

Comunque anche il postino era abbastanza imbecille. Magari era stato lui… In effetti Lucia lo aveva visto discutere con Poletti riguardo una lettera che, a suo dire, non gli aveva recapitato.

Mentre scendeva le scale si fermò un istante davanti all’interno 4. Osservò il foglio della Procura affisso con del nastro adesivo sopra la porta. Notò una piccola macchia rosa vicino allo zerbino, di fianco a una manciata di piselli appassiti. Sembravano una pista cifrata, quel gioco in cui occorre unire i punti da 1 a 58 per trovare la soluzione e la patacca viola sembrava il punto di arrivo. Domani chiamo l’impresa di pulizie, questa scala è un casino, pensò Lucia. Sentì il rumore dello spioncino, la signora Rossi era di vedetta… Lucia la salutò con gesto della mano. «Tutto a posto Agata, sono io!», disse in tono rassicurante e voltandosi si trovò davanti la vedova. D’istinto fece un passo indietro.

«Mi scusi Gilda, non l’ho sentita arrivare… Come sta? Mi dispiace tanto… Se posso fare qualcosa per lei…».

«No, grazie, Agata si è offerta di ospitarmi finché…», e indicò la porta sigillata. «Ho solo bisogno di un po’ di pace».

Si muoveva a rilento, le mani tremanti faticarono quasi a premere il campanello.

«Beh, certo…», Lucia si fece da parte per lasciare entrare Gilda.

«Lo è…», fece un cenno di saluto a Lucia, ma prima di chiudere la porta la guardò negli occhi. «Lo sa che avevo chiesto il divorzio?».

Ovvio che no. Non lo sapeva. Non sapeva mai niente… Però forse la soluzione era paccottiglia, del cruciverba non dell’omicidio. Quindi era stata Gilda? Che casino, c’erano più moventi in quel palazzo che piselli da schivare sulle scale. Alla faccia del lavoro tranquillo, pensò mentre scendeva le scale con la pesante cesta di panni ancora bagnati.

La moka borbottava sul fornello, Lucia spense il fuoco, versò il caffè nella tazza ed entrò nella guardiola. Appoggiò la tazza sulla scrivania, strappò dal calendario il foglietto del 12 febbraio, tolse il cappuccio verde dalla Bic e lo sistemò con cura in fondo al fusto della biro. Fuori era ancora buio, il suono intermittente del camion della spazzatura annunciava che i bidoni erano stati svuotati. Lucia udì lo scatto del portone. Allungò il collo e vide entrare Mario, l’autista di Uber che di solito scarrozzava Poletti.

«La signora Rossi questa mattina», disse Mario imboccando la scala di corsa.

Scese insieme ad Agata pochi minuti dopo trascinandosi dietro due pesanti valigie.

«Se vuole porto anche quella», disse l’autista indicando il borsone che Agata porta nell’incavo del braccio.

«Non occorre, grazie, questa è leggera», Agata si fermò davanti alla guardiola e sfilò dalla borsa una busta portadocumenti.

«Non sapevo che stesse partendo», esclamò Lucia.

«Non lo avevo detto in effetti, cara, ma devo partire…», Agata sollevò le spalle.

«Deve?» domandò Lucia con stupore.

«Non si preoccupi, cara, è un modo di dire. Volevo ringraziarla per la sua cortesia, lei è davvero una persona deliziosa».

«Ah, ma quando torna? E Gilda?»

«Oh, Gilda se la caverà benissimo. Ora non ha più bisogno di me. Piuttosto devo chiederle un’ultima cortesia», rispose Agata appoggiando la busta sul ripiano. «Vede cara, nel pomeriggio dovrebbe passare quell’ispettore tanto gentile che è stato qui ieri. Ecco, dovrei consegnargli questa busta, potrebbe essere così gentile da occuparsene lei?»

«Oh, certo certo, gliela darò io, non si preoccupi. Ma ci rivedremo?» Lucia prese la busta e l’appoggiò sulla scrivania continuando a fissare Agata.

«Cara, devo scappare sennò rischio di perdere il volo. Magari al mio arrivo la chiamo. Arrivederci…»

«Arrivederci, Agata.»

Lucia era confusa, guardò la signora Rossi allontanarsi a passo svelto, pareva addirittura che avesse smesso di zoppicare. Pensò che la fretta, alle volte, procurava curiosi effetti, come scordarsi di avere un acciacco…

Acciacco! Ecco qual era l’ultima parola per concludere l’incrocio sillabico di pagina 38. Lucia prese la Settimana Enigmistica dalla pila di riviste e inavvertitamente urtò la tazza che rovesciandosi riempì di caffè l’intera scrivania. Si alzò di scatto e cominciò a raccattare gli oggetti gocciolanti cercando di scrollarli. Con uno straccio pulì la scrivania e cercò di asciugare la busta gialla di Agata.

Fece un salto all’indietro e si coprì la bocca con una mano per non urlare.

La busta si era aperta e il contenuto si era sparpagliato sul piano del tavolo: c’era una lettera scritta a mano, un biglietto, una busta indirizzata a Poletti, ma soprattutto una fotografia del Poletti sghignazzante, ritratto in un atto che avrebbe fatto inorridire chiunque.

Prese la lettera, in un angolo una macchia di caffè formava una specie di cuore rovesciato.

Sono Agata Rossi, ancora per pochi minuti.

Quando leggerà questa lettera sarò lontano, ma soprattutto non sarò più Agata.

Ero tornata in Italia per Gilda, volevo starle accanto e speravo che trovasse il coraggio di lasciare il marito. Pensavo fosse un uomo subdolo e meschino, credevo che Gilda meritasse di più. Poi, per caso, ho visto la foto che vi allego, ho capito che era molto peggio di quanto credessi, Gilda era in pericolo.

Il resto lo sapete.

Lucia rimase a fissare la lettera per alcuni istanti, appoggiò il mento sul palmo della mano e fece un respiro profondo. Infilò tutto in una busta nuova che mise nella casella 1A dello scaffale alle sue spalle. Aprì l’Enigmistica, andò a pagina 46, col dito seguì le colonne fino ad arrivare a Se voi foste il giudice, fece una riga sulla soluzione e sotto, in piccolo, scrisse: assolta.

Con la penna verde.


Elisabetta Tagliazucchi si occupa di fotografia, grafica e comunicazione. Vive, lavora e scrive a Maranello.

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...